Congedi parentali e coppie omosessuali

Può il datore di lavoro negare la fruizione del congedo parentale, in caso di coppia omossessuale, sulla base di una propria, ed autonoma, valutazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio?

Una recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano (17 marzo 2021) non solo ha negato la legittimità di una simile condotta posta in essere dal datore di lavoro, ma l’ha reputata anche discriminatoria.

L’art. 32 del d.lgs. n. 151/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) prevede che “Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo”; alla lett. b), precisa che il diritto di astenersi dal lavoro compete “al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette nel caso di cui al comma 2”.

Nel caso affrontato dalla Corte nella pronuncia in commento, la richiesta avanzata, sulla premessa di tali disposizioni, dalla lavoratrice madre legata, con un’unione civile, a persona del medesimo sesso, era stata respinta dall’azienda che aveva messo in discussione il riconoscimento del minore risultante dai registri di stato civile.

Il punto considerato espressamente nodale è stato l’avvenuto riconoscimento del minore anche ad opera dell’attrice e dello status di genitore, dalla stessa conseguentemente rivestito.

Come è noto, l’art. 236 c.c. dispone che “la filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile”.

Nel caso di specie, l’attrice, unitamente all’altro genitore, aveva compiuto il riconoscimento del nascituro davanti all’ufficiale dello stato civile.

Questo atto – secondo la Corte -  avrebbe costituito, in capo al minore, lo stato di figlio delle due persone che lo hanno riconosciuto e, in capo a quest’ultime, quello di genitori del bambino. E tale stato non potrebbe essere inficiato, né disapplicato, come aveva chiesto, nella sostanza, la Società appellante, se non tramite gli strumenti appositamente previsti dalla legge, azionati, con le specifiche modalità stabilite dall’ordinamento, su iniziativa dei soggetti a ciò legittimati, soggetti tra i quali, come ha correttamente evidenziato la Corte d’Appello, non rientra di certo il datore di lavoro del genitore.

Ciò posto, la condotta datoriale è stata reputata discriminatoria.

La Società, a detta del Collegio, non solo avrebbe negato alla propria dipendente il godimento di un diritto nascente dallo stato di genitore, “inalienabile se non con gli strumenti e le garanzie stabiliti dall’ordinamento”, ma lo avrebbe fatto “unicamente perché la stessa apparteneva al medesimo sesso dell’altro genitore che aveva del pari riconosciuto il nascituro”.

Alla luce del quadro normativo, nazionale e comunitario, rammentato dalla Corte (cfr., altresì, i nostri approfondimenti https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lavoro-notturno-e-genitorialita-puo-esserci-discriminazione/; https://www.studioclaudioscognamiglio.it/gravidanza-e-mancato-rinnovo-del-contratto-di-lavoro-ce-discriminazione/), l’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria va riferito all’instaurazione, all’esecuzione o alla conclusione di un rapporto di lavoro, sia privato che pubblico (cfr., in particolare, art. 3 direttiva 2000/78/CE e art. 3 d. lgs. 216/2003), e, dunque, ricomprenderebbe senz’altro il caso di specie.

Si segnala che è stata riconosciuta la natura discriminatoria anche della mancata concessione del congedo per malattia del figlio, disposta “in via preventiva”, integrante secondo la Corte, una disparità di trattamento della dipendente e già per questo lesivo della dignità e della posizione soggettiva della lavoratrice.

A questo riguardo, la pronuncia in esame ha evidenziato altresì che il rifiuto opposto sotto questo aspetto dalla datrice “riveste evidente potenzialità pregiudizievole, anche per la sua portata dissuasiva nei riguardi della lavoratrice, indotta, anche nel momento in cui il presupposto della malattia si fosse in concreto verificato, a desistere dal presentare ulteriore richiesta di permesso”.

In riforma alla sentenza di primo grado, la Corte d’Appello ha poi condannato la datrice di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale.

Difatti, la negazione dei diritti, previsti dalla legge a tutela del genitore e del figlio, secondo la Corte, avrebbe determinato un’illegittima lesione sotto plurimi profili, per la sua “idoneità a condizionare negativamente il pieno e sereno esercizio della funzione di genitore, proprio nel più delicato periodo dei primi anni di vita del bambino”.

Inoltre, la condotta discriminatoria sarebbe stata lesiva anche dei diritti fondamentali della persona, avendo questa realizzato una disparità di trattamento in ragione di prerogative soggettive, quale l’orientamento sessuale.

La Corte territoriale, dichiarata la natura discriminatoria del comportamento posto in essere dall’azienda datrice di lavoro, ha ordinato alla medesima di cessare tale condotta riconoscendo alla lavoratrice il diritto a fruire del congedo “alle medesime condizioni di ogni altro genitore”, e l’ha condannata al pagamento del risarcimento del danno non patrimoniale.

Quello che rileva, dunque, è il legame genitoriale attestato dagli atti di stato civile; se vi è lo status di genitore, vi è allora anche il diritto alla fruizione dei congedi.

Non c’è spazio per genitori di serie B.

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Maria Santina Panarella
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