La fruizione dell’aspettativa per gravi motivi familiari è incompatibile con lo svolgimento di un’altra attività lavorativa.

Roberto Lama
5 Luglio 2022

Il caso

Un lavoratore chiede al datore di lavoro di poter fruire di un periodo di aspettativa non retribuita per un periodo di tre mesi, adducendo a fondamento della richiesta un certificato medico che attesta lo stato di gravidanza della moglie e la presenza di un pericolo di aborto. Il datore di lavoro accoglie la richiesta del lavoratore e la qualifica come aspettativa per gravi motivi familiari prevista dall’art. 4, L. n. 53/2000.

Nel periodo in cui l’attività lavorativa non viene espletata, il datore di lavoro, grazie a delle indagini investigative che nel frattempo aveva commissionato, scopre che il lavoratore, in ben sette occasioni distinte, ha svolto un’altra attività lavorativa. Per tale ragione il lavoratore viene licenziato per giusta causa.

La disciplina di legge

L’art. 4 della L. n. 53/2000 prevede che i dipendenti, pubblici o privati, possano “richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa”.

La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 19321/2022

La Corte conferma la decisione della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto legittimo e proporzionato il licenziamento fondato sull’inadempimento del divieto di legge di svolgere un’altra attività lavorativa durante la fruizione del periodo di aspettativa.

La decisione si pone in scia con la precedente pronuncia della Suprema Corte n. 6893/2018, la quale, sempre in tema di violazione del divieto di cui all’art. 4, L. n. 53/2000, aveva appunto ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che vi aveva trasgredito. E ciò, pur mancando la relativa previsione nel codice disciplinare aziendale: trattandosi di un divieto posto dalla legge, infatti, non è appunto necessario che il codice disciplinare ricolleghi espressamente il licenziamento del dipendente a tale violazione, rientrando l’obbligo di astenersi dallo svolgimento di un’altra attività lavorativa nel c.d. “minimo etico”[1].

Benché non venga evocata esplicitamente la regola di cui all’art. 1375 c.c., vale a dire quella, ben nota, in base alla quale “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”, si ritiene che la decisione in commento sia una diretta applicazione al rapporto di lavoro di tale fondamentale regula iuris. In altri termini, a parere di chi scrive, la violazione di un divieto dal tenore letterale inequivocabile – quale quello previsto dall’art. 4 L. n. 53/2000, secondo cui, come visto, durante la fruizione del periodo di aspettativa per gravi motivi familiari, il lavoratore “non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa” – oltre ad integrare l’inadempimento di uno specifico obbligo di legge, si pone in contrasto con il principio consolidato per cui “in tema di licenziamento per giusta causa l’obbligo di fedeltà è più ampio rispetto a quello risultante dall’art. 2105 c.c. atteso che tale obbligo deve essere integrato con gli obblighi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede[2].


[1] Si veda, sul punto specifico, la recente Cass. n. 11120 del 27 aprile 2021

[2] In questi termini, Cass. 13/2/2017, n. 3739.

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