Intermediazione finanziaria: nesso causale presunto o rigoroso onere in capo all’investitore?

Francesca Latino
26 Febbraio 2021

Il tema dell’onere della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, in materia di intermediazione finanziaria, è stato molto dibattuto, soprattutto nell’ultimo decennio. Anche le ultime pronunce della Suprema Corte hanno dettato principi non sempre univoci e/o chiarificatori.

Sul presupposto che  il t.u.f. stabilisce che, nei giudizi di risarcimento del danno, l'intermediario deve fornire la prova di aver agito con la specifica diligenza richiestagli, ma che l'inversione dell'onere della prova non attiene alla sussistenza del danno e al nesso di causalità, restando la dimostrazione di tali elementi onere dell'investitore, i Giudici di legittimità, in più occasioni, hanno censurato le decisioni dei giudici di merito che avevano ritenuto che fosse onere delle banche (intermediari finanziari) dimostrare l'insussistenza del nesso causale tra la violazione degli obblighi informativi ed il danno (Cass. 17.02.2009, n. 3773; Cass. 19.01.2016, n. 810; Cass. 28.02.2018, n. 4727; Cass. 24.04.2018, n. 10111; Cass. 16.05.2019, n. 13265; 24.05.2019, n. 14335).

Secondo questo orientamento, si riteneva che l’alta propensione al rischio del cliente potesse considerarsi idoneo fattore interruttivo del nesso eziologico tra l’inadempimento e il danno (Cass. 17.08.2016 n.17138; Cass. 3.11.2017, n. 26191; Cass. 9.03.2018, n. 5837; Cass. 20.03.2018, n. 6962); pertanto, anche qualora l’intermediario avesse fornito tutte le informazioni adeguate e necessarie in merito alla pericolosità dell’investimento, il cliente avvezzo al rischio lo avrebbe comunque eseguito (Cass. 17.08.2016, n. 17138; Cass. 24.04.2018, n. 10111 e 10115).

Di conseguenza, al cliente era chiesta la dimostrazione non solo dell’’inadempimento e del danno, ma anche la prova (rigorosa) del giudizio controfattuale di causalità ipotetica, ossia l’incidenza o meno della mancata informazione sulla sua volontà di investimento (Cass. 25.10.2017, n. 25335; Cass. 3.11.2017, n. 26191; Cass. 9.03.2018, n. 5837; Cass. 20.03.2018, n. 6962).

Questo orientamento, ancorché recente, è stato da ultimo rivisto dalla Cassazione che, facendo leva sull’argomento secondo il quale la condotta dell’Intermediario, che trascuri di assolvere i doveri impostogli dalla legge, «si manifesta, in sé stessa, come fattore di disorientamento del risparmiatore; cioè, di uno scorretto orientamento di questi verso le scelte di investimento» (Cass. , 16.02.2018, n. 3914), ha affermato il principio della presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, suscettibile di prova contraria da parte dell'intermediario(cfr. Cass. 18.05.2017, n. 12544; Cass. 7.06.2017, n. 14166; e, tra le più recenti, Cass. 17.04.2020, n. 7905 e 28.7.2020, n. 16126).

Secondo l’orientamento più rigoroso, che pare da ultimo avere avuto il sopravvento, l’intermediario potrà fornire la prova positiva contraria di aver esattamente adempiuto ai doveri informativi secondo la “specifica diligenza richiesta”, ossia di aver informato adeguatamente il cliente circa il rischio effettivo dell’investimento in relazione alla conoscenza del medesimo in materia finanziaria e alle sue caratteristiche personali. La prova da parte dell’intermediario, secondo la Suprema Corte, dovrebbe essere completa, precisa e specifica circa l’esatto adempimento da parte sua dei doveri informativi derivanti dagli artt. 21 e ss. del T.U.F.

La prova positiva dell'esatto adempimento, a differenza di quanto sostenuto dall’orientamento prima citato della Suprema Corte, sarebbe l’unica possibilità per l’intermediario di dimostrare l’interruzione del nesso causale (Cass. del 10.05.2018, n. 11368; Cass. del 10.04.2018, n. 8751; Cass. 13.05.2016, n. 9892; Cass. 19.04.2018, n. 9763): tale prova contraria non potrebbe mai consistere, invece, nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose precedenti, perché anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumere rischi elevati deve essere messo nelle condizioni di valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati.

La decisione della Corte d’Appello di Torino in controtendenza rispetto all’orientamento maggioritario della Suprema Corte.

Con una interessante, recentissima sentenza, n. 23/2021, la Corte d’Appello di Torino, si è pronunciata quale giudice di rinvio a seguito di un’ordinanza della Corte di Cassazione che, nell’accogliere il primo motivo di ricorso - relativo alla denunciata violazione degli obblighi di diligenza e di riparto dell’onere della prova nei giudizi di risarcimento del danno nello svolgimento dei servizi di intermediazione finanziaria -aveva affermato che non potesse ritenersi assolto da parte della Banca l’onere di dimostrare di aver agito secondo la diligenza richiesta, non potendosi attribuire alcuna rilevanza al profilo di rischio dell’investitrice alla sua esperienza in materia, “perché le informazioni da trasmettere al cliente devono essere concrete e specifiche in riferimento ad ogni singolo prodotto di investimento e le stesse, nella specie, andavano comunque fornite, indipendentemente dalle inclinazioni al rischio dell’investitrice e dal peso dell’investimento rispetto al patrimonio complessivamente investito, perché proprio sulla base delle informazioni fornite dall’intermediario, l’investitore avrebbe selezionato quelle, secondo lui, con maggiori probabilità di successo”: la Suprema Corte aveva quindi annullato la precedente sentenza della Corte di Appello per aver ritenuto che la Banca avesse assolto ai proprio obblighi informativi nei confronti dell’investitrice.

La Corte territoriale, riesaminata la vicenda alla luce dei principi della Suprema Corte sulla prova dell’adempimento da parte dell’intermediario ai propri obblighi informativi, ed accertato l’inadempimento da parte della Banca, ha confermato la statuizione di rigetto delle domande dell’investitrice, aderendo all’orientamento della Suprema Corte – ormai divenuto minoritario come visto poc’anzi - secondo cui l’onere della prova del nesso di causalità fra inadempimento e danno, da fornirsi anche sulla base di presunzioni, grava comunque sempre sulla parte che agisce per l’inadempimento..

Questi i passaggi salienti della sentenza:

“Fermi, dunque, i vincoli della ordinanza, il Collegio ritiene di dover riesaminare il giudizio aderendo a quell’orientamento di legittimità (Cass. 17.02.2009 n. 3773; Cass. 19.01.2016 n. 810; Cass. 28.02.2018 n. 4727; Cass. 24.04.2018 n. 10111; Cass. 16.05.2019 n. 13265; 24.05.2019 n. 14335) secondo cui “In tema di intermediazione finanziaria, la disciplina dettata dall'articolo 23, comma 6, del d.lgs. n. 58 del 1998, in armonia con la regola generale stabilita dall'articolo 1218 c.c. , impone all'investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell'intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, di allegare specificamente l'inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l'intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l'investitore avrebbe desistito dall'investimento rivelatosi poi pregiudizievole; incombe invece sull'intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall'ambito di quelle dovute”.

Pur registrandosi un diverso, e più recente, orientamento che afferma la vigenza di una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, suscettibile di prova contraria da parte dell'intermediario (cfr ex pluribus, Cass. 18.05.2017 n. 12544; Cass. 7.06.2017 n. 14166; 16.02.2018 n. 3914 e, da ultimo Cass. 17.04.2020 n. 7905 e 28.7.2020 n. 16126), ritiene tuttavia la Corte di aderire alla diversa impostazione sopra citata, più risalente, da preferire in quanto più aderente ai principi generali sull’onere della prova in materia di responsabilità precontrattuale o contrattuale (Cass. SSUU 13533/2001) che, come è noto, impongono al creditore, il quale agisca per l’inadempimento della controparte, di allegare l’inadempimento delle obbligazioni dell’intermediario nonché fornire la prova del nesso di causalità fra il primo e il danno, anche sulla base di presunzioni; spetta invece all’intermediario provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte e, sotto il profilo soggettivo, di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.

Venendo al caso specifico, la Corte ha ritenuto che “vertendosi in tema di causalità omissiva, l’onere della prova relativo al nesso di causalità debba essere scrutinato attraverso un giudizio controfattuale, ovvero di tipo probabilistico condotto sul modello della prognosi postuma, giudizio che ben può muovere dalla stessa consistenza della informazione omessa (Cass. 12544/2017) riguardata attraverso la lente dell’id quod plerumque accidit, ovvero dimostrando che, se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole. Tale giudizio per sua natura non si presta alla prova diretta ma solo a quella presuntiva, occorrendo desumere (nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 2729 c.c.) dai fatti emersi in sede istruttoria se l’investitore avrebbe tenuto una condotta, quella di recedere dall’investimento - ormai divenuta nei fatti non più realizzabile (Cass. 17194/2016)”.

La Corte territoriale ha quindi ritenuto che le risultanze istruttorie escludevano che la cliente avesse fornito la prova, sia pur presuntiva, che il pregiudizio lamentato fosse conseguenza diretta del comportamento omissivo dell’intermediario piuttosto che della sua volontà di investire in titoli speculativi. Al contrario, sono stati valorizzati dalla Corte alcuni elementi (quali il portafoglio posseduto dall’investitrice al momento degli acquisti contestati e la non pregnanza delle informazioni omesse) dai quali sarebbe emerso che, con alto grado di probabilità, l’investimento sarebbe stato comunque eseguito.

La Corte è così giunta a concludere che “In tale scenario, è dunque lecito presumere – in mancanza di dati contrari che era onere della parte fornire - che la stessa investitrice, già in possesso di una comprovata attitudine ad investire in prodotti speculativi, non si sarebbe distolta dall’investimento in presenza di una informazione del tutto “neutra”, come visto, dal punto di vista dei concreti fattori di rischio del singolo investimento”.

La pronuncia merita di essere segnalata, altresì, anche per quanto riguarda l’aspetto relativo alla prova del danno, anch’essa posta a carico dell’investitore: aspetto che, molto spesso, viene sottovalutato dai giudici di merito che lo commisurano tout court all’intero valore nominale dell’investimento, gravando anche in questo caso, inammissibilmente, l’intermediario della prova contraria atta a ridurne eventualmente l’ammontare.

Altri articoli di 
Francesca Latino
linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram