Ambiente di lavoro stressogeno: può essere fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro?

Roberto Lama
5 Marzo 2024

Il caso

Il Tribunale di Monza ha ravvisato una fattispecie di mobbing posta in essere a danno del lavoratore; la Corte di Appello di Milano, invece, in riforma della sentenza di primo grado, ha escluso che le condotte vessatorie poste in essere in danno del lavoratore potessero integrare una fattispecie di mobbing.

Il lavoratore è pertanto ricorso in Cassazione.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 3822/2024

Va innanzi tutto premesso che l’ordinanza che qui viene brevemente commentata si colloca nel solco di altre sei recenti ordinanze (2084/2024; 2870/2024; 3791/2024; 3856/2024; 4664/2024) con cui la Suprema Corte ha apportato un contributo interpretativo fortemente innovativo al tema della tutela risarcitoria del lavoratore per la violazione della regola di cui all’art. 2087 c.c. Come è noto, tale disposizione di legge impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Senza voler anticipare le conclusioni di questo breve scritto, non è azzardato affermare che, per effetto delle anzidette ordinanze – tutte pronunciate nei primi due mesi dell’anno 2024 – anche un ambiente lavorativo stressogeno, in determinate ipotesi, può essere fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro.

Ciò premesso, con riferimento al mobbing è principio consolidato quello secondo il quale tale articolata fattispecie si compone di un elemento oggettivo (costituito da una pluralità di reiterati comportamenti pregiudizievoli per la persona, interni al rapporto di lavoro) e da uno soggettivo (costituito dall’intendimento persecutorio nei confronti del lavoratore che accomuna le molteplici condotte, e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun singolo comportamento).

Fermo quanto sopra, la Corte ha fornito alcune indicazioni a cui i giudici di merito devono attenersi nel caso in cui il lavoratore lamenti di essere stato vittima di una condotta mobbizzante. Più nel dettaglio, la Cassazione ha affermato che “anche nel caso in cui dovesse essere confermata l’assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”. E ciò sulla falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro (fonte di obbligo risarcitorio) che si è soliti riconoscere allorquando quest’ultimo abbia tollerato indebitamente una condizione di lavoro lesiva della salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 2692/2023 e Cass. n. 3291/2016). Ed ancora, richiamando alcuni propri precedenti, la Cassazione ha ribadito che, a prescindere dalla prova dell’intento persecutorio – inteso come minimo comune denominatore di una pluralità di condotte lesive – il datore di lavoro è comunque “tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità frustrazione personale o professionale” possano arrecare un danno alla salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 18164/2018 e Cass. 7844/2018).

Come per il mobbing, grava sul lavoratore l’onere di provare il danno alla salute ed il nesso di causalità tra questo e le situazioni stressogene che caratterizzano l’ambiente lavorativo; grava invece sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto l’obbligo di adottare tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica erano idonee ad evitare il determinarsi di tale peculiare ambiente di lavoro.

La “portata” di tale nuovo orientamento

E’ indubbio che per effetto di tale nuovo – ma per certi versi già consolidato – orientamento acquistano rilevanza ai fini risarcitori anche le disfunzioni organizzative che potrebbero derivare, ad esempio, da una aspra conflittualità dei rapporti tra colleghi di lavoro, o, comunque da quelle disfunzioni che sono tali da determinare un ambiente lavorativo stressogeno, nocivo e fonte di tangibili pregiudizi psico-fisici alla salute dei lavoratori (si pensi al caso di carichi di lavoro usuranti). Il datore di lavoro, infatti, ha l’obbligo di intervenire al fine di eliminare tali disfunzioni organizzative, posto che, ove venissero colpevolmente ignorate dal medesimo (indipendentemente dal fatto che esse siano isolatemolestie o integrino una fattispecie di mobbing orizzontale) e ove da tale inerzia derivasse un danno alla salute del lavoratore, quest’ultimo avrebbe diritto al relativo risarcimento. Con l’importante precisazione – che si rinviene però in Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084 e in Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101 – che la quantificazione del risarcimento sarà differenziata a seconda che si tratti di mobbing o di responsabilità colposa nel tollerare un ambiente lavorativo stressogeno: nell’ipotesi siano accertate condotte persecutorie adottate dolosamente e sistematicamente, il risarcimento sarà più sostanzioso rispetto al caso di una mera negligenza o imperizia datoriale nel non rimuovere, o nel tollerare, un ambiente lavorativo stressogeno.

Da questo punto di vista, verrebbe, dunque, in considerazione, in materia, un’ipotesi - di particolare interesse sul piano sistematico - di risarcimento aggravato dalla condotta, caratterizzato da una chiara coloritura sanzionatoria della condanna risarcitoria.

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