Revoca (illegittima) del mandato rilasciato a società esercente attività di agenzia: quando sorge il diritto al risarcimento dei danni della socia accomandante?

Una recente sentenza (Cass. n. 28130 del 14 ottobre 2021) ha affrontato proprio il caso avente ad oggetto la domanda risarcitoria avanzata da una socia di una s.a.s. nei confronti della S.p.A. che aveva revocato il mandato di agenzia.

La vicenda ed i gradi di giudizio di merito

La socia accomandante aveva agito nei confronti di una società chiedendo il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, asseritamente patiti a causa della illegittima revoca del mandato di agenzia conferito dalla medesima alla società della quale era socia.

L’attrice aveva dedotto, in particolare, che l’illegittimità della revoca era stata accertata nell’ambito di un separato giudizio, concluso con sentenza della Corte di Cassazione del 2008.

La società convenuta, nel costituirsi in giudizio, aveva eccepito l’intervenuta prescrizione delle pretese.

Il Tribunale aveva rigettato la domanda, ritenendo che il diritto avrebbe potuto essere fatto valere sin dalla data della revoca, ed accogliendo, dunque, l’eccezione di prescrizione.

La Corte d’Appello aveva confermato la decisione di primo grado rilevando, tra l’altro, che il diritto di credito vantato dall’attrice non conseguiva all’accertamento di pretese altrui, bensì discendeva dalla illegittima revoca del mandato alla società della quale la stessa era socia accomandante. Pertanto, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento era iniziato a decorrere dal momento della revoca e non da quello (successivo) dell’accertamento della illegittimità della stessa.

In particolare, la Corte territoriale aveva osservato che il danno lamentato non derivava dall’esito del giudizio definito con la sentenza della Corte di Cassazione la quale aveva solo “accertato il presupposto (costituito dalla illegittimità della revoca del mandato) di un diritto al risarcimento, che era sorto già al tempo della revoca del mandato”.

La socia aveva così proposto ricorso per cassazione ed il P.M. aveva chiesto l’accoglimento di uno dei motivi di impugnazione. La Corte, disattendendo – come raramente accade – le conclusioni del Pubblico Ministero, ha rigettato il ricorso.

La pronuncia della Cassazione

La Cassazione si è dapprima soffermata sulle censure prospettate in relazione all’eccezione di prescrizione.

In primo luogo, la Corte ha escluso la fondatezza dell’assunto secondo il quale gli atti interruttivi compiuti dalla s.a.s. sarebbero stati idonei ad impedire la maturazione della prescrizione dei diritti della socia attrice.

Infatti, secondo la Corte, l’applicazione dell’art. 1310, 1° co. c.c. presuppone una solidarietà attiva, non ricorrente nel caso di specie, nel quale la ricorrente ha agito per conseguire il riconoscimento di crediti risarcitori propri e del tutto distinti da quelli della Società. Inoltre – ha aggiunto la Corte – la solidarietà attiva fra più creditori sussiste solo se espressamente prevista in un titolo negoziale preesistente alla richiesta di adempimento, non essendo sufficiente per l’esistenza del vincolo l’identità qualitativa delle prestazioni e delle obbligazioni (in questo senso, Cass. n. 2267/2019).

Per quanto riguarda, poi, il dies a quo di decorrenza della prescrizione, la Suprema Corte ha preso le mosse dalla individuazione della natura della situazione giuridica della ricorrente rispetto alla revoca del mandato alla società.
Secondo la Corte, tale situazione si connotava come una situazione di status e, come tale, aveva certamente un valore economico in sé, sia per il fatto stesso che poteva essere liquidata alla socia con l’uscita dalla società o venendo ceduta, sia quale conseguenza dei diritti verso la società, quali quelli di partecipare alle attività degli organi sociali, di esercitare le attività di controllo e di partecipare agli utili dell’attività sociale.

Con riferimento a questi ultimi, la Cassazione ha sottolineato che la loro percezione costituisce un riflesso dell’attività della società: infatti, gli utili sono in via diretta acquisiti dalla società e solo da questa, in virtù del diritto alla partecipazione espresso dalla quota, trasferiti al socio.

Su tali premesse, la Suprema Corte si è posta il quesito sul come l’attività di un terzo possa danneggiare il socio con riferimento a tal status, affermando che la situazione del socio quanto al valore della sua quota “può essere pregiudicata da un terzo sia con un’attività che danneggi direttamente in primo luogo la società e che arrecando un danno ad essa, determini una ricaduta sul valore economico della quota del socio, sia con un’attività che incida su quel valore senza incidere sulla società”.

La Corte di Cassazione, al fine di spiegare meglio il concetto, ha formulato due esempi:

  1. nel primo caso, fa riferimento al danno subito dalla società da un terzo per colpa del quale perde affari vantaggiosi; con tale perdita risulta diminuito anche il valore della quota sociale, cosicché può dirsi essere stato cagionato, da un lato, il danno sofferto dalla società, e, dall’altro, quello patito dal socio;
  2. se, invece, il danno sofferto dalla società si è risolto solo in una perdita o diminuzione di utili dell’attività in via riflessa, sarà stato leso anche il credito che il socio avrebbe potuto vantare nei confronti della società. Tuttavia, in questo caso, viene in rilevo il fatto che la consecuzione degli utili da parte del socio è espressione del suo diritto di partecipazione alla società che, rappresentando un soggetto giuridico collettivo, comprende anche il socio. La conclusione della Corte è nel senso che, in questo caso, non sarebbe predicabile la contemporanea esistenza del diritto risarcitorio per la perdita degli utili a favore della società e a favore del socio in via riflessa, cioè per la lesione del suo diritto alla distribuzione degli utili. Se così fosse, secondo la Cassazione, si giungerebbe alla situazione paradossale nella quale non solo il terzo dovrebbe risarcire lo stesso danno due volte, ma anche il socio si vedrebbe risarcire due volte un medesimo pregiudizio, atteso che la società, una volta ottenuto il risarcimento del terzo, dovrebbe poi distribuirlo ai soci.

Poste tali basi argomentative, la Corte ha affrontato specificamente la questione della individuazione del dies a quo della prescrizione in relazione ai danni lamentati, valutando, pertanto, quale fosse il momento in cui, ai sensi dell’art. 2935 c.c., la socia – attrice avrebbe potuto agire.

Valutando le singole voci di danno, la Corte ha evidenziato quanto segue:

  • circa il danno emergente ravvisato nella perdita degli utili al 50 % a causa della revoca del mandato di agenzia, tale pregiudizio, secondo la Cassazione, riguardava un danno da perdita di chance che avrebbe potuto chiedere la società (come, in effetti, aveva fatto in altro giudizio), e non la socia. In ogni caso, quest’ultima avrebbe potuto agire per la perdita degli utili anche nell’immediato, dal momento che non occorreva aspettare l’accertamento giudiziale della illegittimità della revoca nel giudizio introdotto dalla società;
  • per quanto riguarda, poi, il danno da perdita dell’affare per mancata disponibilità degli utili, questo avrebbe potuto essere fatto valere dalla socia, essendo un danno riflesso riferibile sono alla stessa, ma la prescrizione era da collegare al momento in cui quella mancata disponibilità si era manifestata, determinando la mancata conclusione dell’affare. Dunque, il giudicato sul giudizio di accertamento della illegittimità della revoca non avrebbe inciso in alcun modo sulla nascita di tale diritto, sorto ben prima ed indipendentemente da tale giudicato;
  • lo stesso discorso è stato richiamato per il danno lamentato dalla ricorrente per aver dovuto ricorrere a prestiti bancari, in mancanza di percezioni degli utili.

Il ricorso è stato così rigettato.

Nessun risarcimento, allora, per la socia che avrebbe potuto, e dovuto, agire sin dalla revoca del mandato.

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Maria Santina Panarella
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