L’obbligo di repêchage: onere probatorio e conseguenze in caso di inadempimento

Roberto Lama
2 Dicembre 2022

Breve nota a Cass. 33341/2022

Il c.d. obbligo di repêchage.

Come è noto, affinché un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo sia legittimo è necessario che il datore sia in grado di provare che, prima di determinare l’interruzione del rapporto di lavoro, abbia adempiuto il c.d. obbligo di repêchage. E’ necessaria, in altri termini, la prova dell’impossibilità di collocare altrove il lavoratore che si intende licenziare; con la precisazione che tale soluzione di impiego alternativa deve potere offrire pari utilità al datore recedente, dovendosi peraltro individuare, come ovvio, entro il perimetro della propria organizzazione produttiva.

Si è soliti ritenere che tale obbligo, di matrice giurisprudenziale, sia posto a presidio della genuinità delle ragioni economiche che fondano il recesso datoriale; ad esso, in altri termini, è attribuita la funzione di “cartina di tornasole” dell’effettività delle ragioni che giustificano il licenziamento per g.m.o.. Infatti, solo nel caso in cui il lavoratore non possa essere collocato aliunde potranno ritenersi effettive, e non pretestuose, le ragioni economiche-organizzative sottese al recesso.

Il principio di diritto espresso da Cass. n. 33341/2022 in materia di onere probatorio.

Con la pronuncia qui in commento, la Corte di Cassazione ha innanzi tutto individuato la parte sulla quale ricade l’onere di provare l’adempimento dell’obbligo di repêchage..

Al riguardo, i principi generali che regolano la prova vogliono che spetti al debitore provare di avere adempiuto l’obbligo sul medesimo gravante, mentre il creditore ha solo l’onere di allegare l’inadempimento altrui. Nel caso di licenziamento per g.m.o., e segnatamente con riferimento all’obbligo di repêchage, se si ricorresse ad una meccanica applicazione dei predetti principi generali, se ne dovrebbe dedurre che per il lavoratore sia sufficiente allegare in giudizio l’inadempimento dell’obbligo di repêchage, mentre l’onere di provare il fatto contrario dell’esatto adempimento spetti al datore di lavoro. Tuttavia, a ben vedere, nelle imprese aventi dimensioni organiche ragguardevoli (si pensi a quelle aventi migliaia di sedi produttive e decine di migliaia di dipendenti), l’assolvimento di tale onere probatorio per il datore di lavoro sarebbe in un certo qual senso…“diabolico”, posto che esso, per potersi ritenere assolto, dovrebbe riguardare ogni posizione lavorativa alternativa a quella cui era assegnato il lavoratore licenziato, così come esistente nell’ambito dell’intera organizzazione produttiva datoriale ed in ipotesi vacante. Per tale motivo, per attenuare cioè le conseguenze che si produrrebbero in caso di un’applicazione rigida dei principi generali in materia di onere della prova, e quindi per rendere al datore di lavoro materialmente possibile l’assolvimento di tale onere probatorio, la giurisprudenza era solita ritenere che tale prova avrebbe dovuta essere fornita dal datore di lavoro nei limiti delle allegazioni offerte in giudizio dal lavoratore. Quest’ultimo, in sostanza, avrebbe dovuto cooperare, allegando ed individuando nei propri atti difensivi le posizioni lavorative alternative a quella presso cui era occupato, implicanti lo svolgimento di mansioni di equivalente contenuto professionale a quelle precedentemente svolte. Una volta individuate tali posizioni lavorative, nel caso in cui il datore di lavoro non fosse riuscito a provare in giudizio l’impossibilità di impiegarvi proficuamente il lavoratore, allora sarebbe stato ritenuto inadempiente all’obbligo di repêchage, con conseguente dichiarazione di illegittimità del licenziamento. E’ espressione di questo orientamento, tra le tante, Cassazione civile, sez. lav., 12/08/2016, n. 17091, a mente della quale “in caso di licenziamento per giustificato motivo obiettivo, la prova della impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell'ambito dell'organizzazione aziendale non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento del possibile repêchage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione corrisponde l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti”.

Viceversa, con la pronuncia n. 33341/2022 che qui si commenta, la Suprema Corte ha statuito che “spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repêchage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”; ciò in quanto, afferma la Corte, “incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. “repêchage”, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore”.

Benché tale statuizione si collochi nel solco di un indirizzo giurisprudenziale che recentemente si è andato consolidando[1], a parere di chi scrive essa è espressione di un principio di diritto che, dietro lo “schermo” dell’ossequio alle regole in materia di accollo dell’onere della prova, finisce per addossare al datore di lavoro un onere probatorio che, di fatto, è assai arduo da assolvere, soprattutto nei casi in cui le dimensioni organiche dell’apparato produttivo siano particolarmente estese. In altri termini, ritenere che sul lavoratore che abbia impugnato il licenziamento non gravi l’onere di indicare, sia pure in maniera non necessariamente specifica e puntuale, “i posti assegnabili” perché “una divaricazione tra i suddetti oneri” sarebbe contraria “agli ordinari principi processuali”, rischia di trascurare le serie difficoltà probatorie a cui va incontro il datore di lavoro recedente, soprattutto nel caso in cui la sua organizzazione produttiva sia di notevoli dimensioni.

Va a peraltro dato atto della circostanza che le predette difficoltà probatorie potranno essere attenuate per mezzo dell’uso della prova presuntiva: infatti, e non potendo ovviamente essere sindacata la scelta del datore di lavoro di imprimere alla propria azienda un dato assetto dimensionale, la totale mancanza di nuove assunzioni di lavoratori di qualifica analoga a quella del licenziato entro un certo arco temporale dal recesso potrà essere apprezzata dal giudice, accanto alla prova positiva della integrale saturazione dei posti contemplati dall’organigramma aziendale, ove esistente, per la qualifica in considerazione, per ritenere assolta la prova dell’impossibilità del repêchage.

…ed il principio di diritto espresso in materia di rimedio sanzionatorio applicabile.

Particolarmente interessante, e senz’altro innovativa, è l’affermazione del principio – che pare desumersi dall’ordinanza oggetto di queste considerazioni -  per cui, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non abbia provato di aver adempiuto l’obbligo di repêchage, il lavoratore licenziato avrà diritto ad esser reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18, comma 4°, L. n. 300/1970

Infatti, ha rilevato la Suprema Corte nella pronuncia qui annotata, “nelle more della definizione del giudizio è intervenuta la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022” con cui la Corte Costituzionale ha previsto che, in caso di illegittimità di un licenziamento intimato per g.m.o., affinché la reintegrazione possa essere disposta, è sufficiente che il fatto posto alla base del medesimo sia ritenuto dal giudice “insussistente”, non essendo più necessario che esso, invece, sia “manifestamente insussistente” (per un più esaustivo commento della pronuncia della Corte Costituzione summenzionata sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/).

Pertanto, è dato leggere in Cass. n. 33341/2022, la sentenza della Corte di appello che, reputato violato l’obbligo di repêchage, aveva applicato l’indennità risarcitoria di cui all’ar.t 18, comma 5°, L. n. 300/1970, appunto ritenendo che il fatto posto a base del licenziamento non fosse “manifestamente insussistente”, “ha negato la tutela reintegratoria al xxx sulla base di un parametro normativo oramai espunto dall’ordinamento”, con il corollario che essa dovrà essere cassata “per consentire al giudice del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo”.

Al riguardo, si deve allora evidenziare che la pronuncia qui in commento si pone nel solco tracciato dalla Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 125/2022, aveva in effetti chiarito che il “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. deve ritenersi composto da una pluralità di elementi oggettivi: dalle ragioni tecnico-organizzative, dal nesso causale tra le stesse e il recesso di quel dato lavoratore (elemento la cui sussistenza e verificabilità in giudizio consente di escludere la pretestuosità del singolo recesso), nonché dall’impossibilità di utilizzare quel lavoratore aliunde in maniera altrettanto proficua per l’azienda, ossia dal c.d. obbligo di repêchage. Se, dunque, questo ultimo aspetto compone, al pari degli altri, il presupposto oggettivo del licenziamento, la sua mancanza dovrebbe risolversi nella insussistenza del fatto, cosicché – una volta accertato nel giudizio di merito l’inadempimento dell’obbligo di repêchage – il corollario ineludibile, sul piano dei rimedi, dovrebbe essere la reintegra; eppure l’ordinanza in commento, in termini – a questo punto, non del tutto consequenziali – rimette al Giudice del rinvio di verificare “quale sia la tutela in concreto applicabile alla fattispecie sulla base della nuova dizione letterale dell’art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970…”, senza decidere la causa nel merito, con la pronuncia dell’ordine di reintegra. La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità consentirà di capire se si sia trattato di un’incoerenza della pronuncia qui commentata o – ma è davvero l’ipotesi meno probabile – se l’inadempimento dell’obbligo di repêchage possa essere destinato, sul piano dei rimedi, a ricevere un trattamento diverso da quello dell’insussistenza degli altri elementi che compongono la fattispecie del giustificato motivo oggettivo.


[1] In termini analoghi a Cass. 33341/2022 si sono già espresse:

  • Cassazione civile, sez. lav., 12/02/2020, n. 3475: “In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”;
  • Cassazione civile, sez. lav., 05/01/2017, n. 160: “Poiché onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione, non incombe sul lavoratore l'onere di indicare posizioni di lavoro in cui essere utilmente riallocato”;
  • Cassazione civile, sez. lav., 13/06/2016, n. 12101: “In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spettano al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione a carico del secondo, perché contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi gravanti sulla parte deducente”;
  • Cassazione civile, sez. lav., 22/03/2016, n. 5592: “In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”.
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