Licenziamento illegittimo e contratto a tutele crescenti: per la Corte Costituzionale è urgente una riforma del Jobs Act per garantire tutele adeguate

È indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti, materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo.

Questo è l’incipit del Comunicato del 22 luglio 2022 per mezzo del quale l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale ha dato notizia del deposito della sentenza n. 183. Pur dichiarando inammissibili le censure del Tribunale di Roma sull’indennità prevista dal Jobs Act per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, la Corte Costituzionale ha rivolto al legislatore un monito ad intervenire con urgenza in questa materia, predisponendo tutele adeguate.

Il Tribunale di Roma aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 23/2015, che, come è noto, regola l’indennità spettante nel caso di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro che non possiedono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, co 8° e co 9°. della l. n. 300/1970.

Il Giudice rimettente aveva denunciato il contrasto con gli artt. 3, 1° co. 4, 35, 1° co., e 117, 1° co. della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea.

Le censure prospettate, come ha rilevato la Corte, riguardavano l’ammontare dell’indennità prevista dall’art. 9, co. 1 del d.lgs. n. 23/2015, quantificata in un importo dimezzato rispetto a quello stabilito dall’art. 3, co. 1 del medesimo decreto.

Nel prospettare i dubbi di illegittimità costituzionale, il rimettente aveva richiamato le precedenti pronunce (la n. 194 del 2018 e la n. 150 del 2020) nell’ambito delle quali la medesima Corte aveva ribadito che la modulazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi è demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare le specificità del caso concreto.

Con specifico riferimento all’assetto delineato dal d. lgs. n. 23 del 2015, il Giudice rimettente, in continuità con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, aveva segnalato le disarmonie insite nella predeterminazione dell’indennità stabilita nell’ipotesi di datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.

Su tale premessa, la Corte ha precisato che tali disarmonie traggono origine, per un verso, dall’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati.

Quanto al primo profilo, ha rilevato che un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, “nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.

Quanto al secondo profilo, ha evidenziato che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, però, “non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete”.

Orbene, secondo la Corte, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e della trasformazione dei processi produttivi, il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.

Pertanto, tale sistema non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.

Premessa, dunque, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per tali licenziamenti illegittimi, la Corte ha dato atto di non potervi porre rimedio.

Spetta, infatti, alla valutazione discrezionale del legislatore la scelta delle soluzioni più appropriate per garantire tutele adeguate. A questo riguardo, il Tribunale di Roma aveva prospettato varie soluzioni dirette a superare le incongruenze censurate, alle quali corrispondono differenti opzioni di politica legislativa. Vi sarebbero, dunque, “ineludibili valutazioni discrezionali”, che, però, investendo il rapporto tra mezzi e fine, non possono competere alla Corte, atteso che “rientra nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di “una normativa di importanza essenziale” (sentenza n. 150 del 2020), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso”.

In conclusione, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni sottoposte, la Corte ha segnalato che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà descritte.

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Maria Santina Panarella
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