Ferie non godute: al dirigente spetta l’indennità sostitutiva delle ferie?

Il potere del dirigente pubblico di organizzare autonomamente il godimento delle proprie ferie, pur se accompagnato da obblighi previsti dalla contrattazione collettiva di comunicazione al datore di lavoro della pianificazione delle attività e dei riposi, non comporta la perdita del diritto, alla cessazione del rapporto, all’indennità sostitutiva delle ferie se il datore di lavoro non dimostra di avere, nell’esercizio dei propri doveri di vigilanza ed indirizzo sul punto, formalmente invitato il lavoratore a fruire delle ferie e di avere assicurato altresì che l'organizzazione del lavoro e le esigenze del servizio cui il dirigente era preposto non fossero tali da impedire il loro godimento. Questo è il principio confermato dalla Corte di Cassazione, sulla base di una interessante motivazione che ha richiamato anche principi di diritto comunitario (cfr. la recentissima sentenza n. 18140 pubblicata il 6 giugno 2022).

Nell’accogliere il ricorso proposto da un dirigente medico, la Suprema Corte ha dichiarato di voler dare continuità a quanto dalla medesima di recente affermato laddove, in relazione alle ferie, aveva precisato che “il dirigente il quale, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non ne abbia fruito, ha diritto a un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un'adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo” (Cass. 2 luglio 2020, n. 13613).

In passato, si era consolidato - invero - un diverso principio.

In particolare, si era affermato che il lavoratore con qualifica di dirigente e con il potere di decidere autonomamente il periodo nel quale godere delle ferie, senza alcuna ingerenza da parte del datore di lavoro, nel caso in cui non avesse usufruito delle stesse, non aveva diritto ad alcun indennizzo, in quanto, se il diritto alle ferie è irrinunciabile, il mancato godimento imputabile esclusivamente al dipendente esclude l’insorgenza del diritto all’indennità sostitutiva, salvo che il lavoratore non dimostri la ricorrenza di eccezionali ed obiettive esigenze aziendali ostative a quel godimento (nel lavoro privato, si vedano Cass. 7 giugno 2005, n. 11786; Cass. 7 marzo 1996, n. 179; nel lavoro pubblico, Cass., S.U., 17 aprile 2009, n. 9146).

Sennonché, come ha ricordato la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, la normativa comunitaria ha senz’altro dispiegato una influenza decisiva sul tema. In particolare, va richiamata la direttiva 2003/88/CE concernente alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (in tema di orario di lavoro, si veda anche l’approfondimento Le ore di formazione imposte al lavoratore costituiscono orario di lavoro?).

Secondo la Corte di Giustizia (6 novembre 2018, Max-Planck), l’art. 7 della suddetta direttiva, e l’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea devono essere interpretati nel senso che “ostano a una normativa nazionale, come quella discussa nel procedimento principale, in applicazione della quale, se il lavoratore non ha chiesto, nel corso del periodo di riferimento, di poter esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite, detto lavoratore perde, al termine di tale periodo automaticamente e senza previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto dal datore di lavoro, segnatamente con un'informazione adeguata da parte di quest'ultimo, in condizione di esercitare questo diritto”.

Del resto, la Direttiva estende i propri effetti in tema di ferie anche ai dirigenti (cfr. art. 17 Direttiva 2003/88/CE, che, nel consentire agli Stati membri un diverso trattamento rispetto ai diritti dei dirigenti, esclude dalle norme derogabili l'art. 7, riguardante, appunto, le ferie). Nel contesto della pronuncia citata, la Corte di Giustizia ha evidenziato la necessità che il giudice nazionale operi prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi ermeneutici  riconosciuti da quest'ultimo al fine di pervenire ad un’interpretazione di tale diritto che sia in grado di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione.

La Corte di Giustizia ha individuato nel proprio ragionamento tre aspetti dell’accertamento demandato al giudice nazionale, al fine di assicurare che il lavoratore sia stato messo effettivamente nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alle ferie, consistenti:

  1. nella necessità che il lavoratore sia invitatose necessario formalmentea fruire delle ferie e “nel contempo informandolo in modo accurato e in tempo utile... (che) se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento”;
  2. nella necessità di “evitare una situazione in cui l’onere di assicurarsi dell’esercizio effettivo del diritto alle ferie annuali retribuite sia interamente posto a carico del lavoratore”;
  3. infine, sul piano processuale, nel prevedere che “l’onere della prova, in proposito, incombe al datore di lavoro .... sicché la perdita del diritto del lavoratore non può aversi ove il datore "non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto”.

Attesa la normale posizione di minor debolezza e maggiore conoscenza dei dati giuridici del dirigente, le predette condizioni possono trovare, in concreto, applicazioni di minor rigore, sotto il profilo dell’intensità informativa o del grado di diligenza richiesta al datore di lavoro, ma – secondo la Corte - certamente essi permangono a governare l’istituto dell’attribuzione, perdita o monetizzazione delle ferie.

Secondo la Corte di Cassazione, la lettura della Corte di Giustizia si coordina con l’orientamento interpretativo della Corte Costituzionale manifestato in relazione alla questione di legittimità della previsione, in questo caso non applicabile ratione temporis, del D.L. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8, conv., con mod. in L. n. 135 del 2012.

La decisione della Corte Costituzionale del 6 maggio 2016, n. 95, ha ritenuto che la legge non fosse costituzionalmente illegittima in quanto da interpretare nel senso che la perdita del diritto alla monetizzazione non può aversi allorquando il mancato godimento delle ferie sia incolpevole, non solo perché dovuto ad eventi imprevedibili non dovuti alla volontà del lavoratore, ma anche quando ad essere chiamata in causa sia la “capacità organizzativa del datore di lavoro”. Quest’ultima, infatti, va esercitata in modo da assicurare che le ferie siano effettivamente godute nel corso del rapporto, quale diritto garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro n. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con L. 10 aprile 1981, n. 157) e da quelle Europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea direttiva 23 novembre 1993, n. 93/104/CE del Consiglio), sicché non potrebbe vanificarsi “senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso ... da ... causa non imputabile al lavoratore”.

Così delineato il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, la Corte di Cassazione ha reputato erronea l’argomentazione della Corte territoriale che aveva valorizzato gli obblighi del lavoratore previsti dalla contrattazione collettiva, in ordine alla comunicazione al datore di lavoro della pianificazione delle ferie ed al potere del lavoratore di autoorganizzare le stesse, vanificando il diritto alla monetizzazione, pur a fronte di un accumulo esorbitante di ferie non godute ed un’accertata situazione diffusa di insufficienza di organico.

Invece, seguendo l’indirizzo della Corte di Giustizia, occorreva muovere dalla verifica di che cosa fosse stato fatto dal datore di lavoro affinché quelle ferie fossero godute e quali fossero i rapporti tra l’insufficienza di organico, non imputabile al lavoratore, e la necessità di assicurare la prosecuzione del servizio.

Il tutto con una regola ultima di giudizio, individuata sempre dalla Corte di Giustizia, che, nei casi incerti, l’onere probatorio è a carico del datore di lavoro e non del lavoratore.

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Maria Santina Panarella
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