Il post del lavoratore sindacalista su Facebook legittima il licenziamento se diffamatorio

Stefano Guadagno
9 Febbraio 2024

Il post del lavoratore sindacalista su Facebook travalica i limiti del diritto di critica se attribuisce al datore di lavoro, o ai suoi dirigenti, condotte o qualità disonorevoli, non provate, e legittima, pertanto, il licenziamento per giusta causa.

Questo il principio ribadito dalla Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza del 22 dicembre 2023, n. 35922.

La vicenda decisa dalla Suprema Corte trae origine, come si evince dall’antefatto processuale, dalla impugnativa del licenziamento disciplinare disposto nei confronti del lavoratore che aveva pubblicato sulla sua bacheca Facebook, “in maniera visibile dalla generalità degli utenti”, alcuni commenti “gravemente lesivi dell'immagine e del prestigio dell'azienda nonché dell'onorabilità e dignità dei suoi responsabili”.

La Corte di merito - appurata la “generale visibilità e diffusività dei messaggi "postati" su Facebook” – aveva ritenuto il carattere diffamatorio della condotta addebitata al lavoratore, il travalicamento dei limiti di continenza verbale e l'insussistenza dei presupposti della scriminante dell'esercizio del diritto di critica nell'ambito delle relazioni sindacali.

Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, censurando la sentenza di merito, tra l’altro, per avere escluso la scriminante del diritto di critica, sebbene dai post pubblicati non emergesse alcuna lesione della reputazione della società ma solo una dura dialettica sindacale.

La sentenza in commento muove dalla delimitazione del diritto di critica del lavoratore.

Sotto questo profilo la giurisprudenza di legittimità è concorde nell’affermare che “È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che pur esercitando il proprio diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, o superiore gerarchico, utilizza espressioni tali da superare i limiti della continenza sostanziale, intesa come la congruenza dei fatti alla verità, nonché di quella formale quale normalità delle modalità ammissibili nell'esposizione dei fatti”. Detto comportamento, infatti, integrando una condotta lesiva del prestigio aziendale e pertanto una violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede ex art. 2105, c.c., risulta tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto lavorativo (su tutte, Cass., sez. lav., 18 luglio 2018, n. 19092).

Ancora di recente è stato ribadito che la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti “può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli” (Cass. 13 ottobre 2021, n. 27939, pubblicata sul nostro sito con commento di Maria Santina Panarella, Post offensivo pubblicato su Facebook: il licenziamento è legittimo).

Con riguardo al mezzo di diffusione della critica, come pure rilevato nella parte motiva della sentenza in esame, il post su Facebook, in quanto visibile dalla generalità degli utenti, è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e dunque a ledere l’immagine del datore di lavoro e l’onorabilità dei dirigenti coinvolti.

In questa prospettiva è stato ritenuto integrare una “grave insubordinazione, da sanzionare con il licenziamento per giusta causa”,il comportamento del lavoratore che, “a mezzo di tre e-mail e di un messaggio sul proprio profilo Facebook, diffonde comunicazioni dai contenuti gravemente offensivi e sprezzanti nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali. Il mezzo utilizzato è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale” (Cass., sez. lav., 13 ottobre 2021, n. 27939). 

La posizione di sindacalista ricoperta dal lavoratore, poi, non legittima di per sé il travalicamento dei limiti al diritto di critica. La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare, infatti, che “l'esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro … sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 cost., incontra i limiti della correttezza formale imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 cost.), di tutela della persona umana”. Ne consegue che “ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (in questi termini Cass., sez. lav., 17 dicembre 2003, n. 19350).

Applicando tali principi, la sentenza in commento ha condiviso le conclusioni della Corte di merito che aveva “escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, "intrise di assai sgradevole volgarità", prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell'azienda e del suo fondatore”.

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