CCNL e clausola generale sulla giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.

Claudia Cornaglia
16 Giugno 2023

La sentenza della Corte di Cassazione n. 15140 del 30 maggio 2023 merita di essere commentata per un duplice ordine di motivi. Da un lato, con essa la S.C. torna a ridefinire i confini dell’art. 348 ter c.p.c. in relazione all’art. 360, 1 co., n. 5 c.p.c., in termini che potranno certamente risultare utili anche ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione della disposizione dell’art. 360, co. 4° c.p.c., che ha sostituito, com’è noto, l’art. 348 ter c.p.c., riproponendone il contenuto nell’assetto normativo introdotto dal D. Lgs. 149/2022; dall’altro lato, offre lo spunto per ribadire il principio secondo cui la tipizzazione dei comportamenti contenuta nella contrattazione collettiva e la scala valoriale formulata per ciascuno di essi dalle parti sociali, se non è vincolante per il giudice, è però, pur sempre, uno dei parametri cui occorre far riferimento per riempire di contenuto la clausola generale sulla giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 cc.

Il caso preso in esame dalla Corte ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa di un lavoratore assunto a termine a seguito di recidiva specifica nel medesimo comportamento già posto a fondamento di tre precedenti sanzioni disciplinari nei sei mesi precedenti (l’addebito contestato era consistito nel non avere il lavoratore, addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini).

Dichiarati infondati i primi due motivi di ricorso, la S.C. ha ritenuto inammissibile il terzo[1], essendosi realizzata una “ipotesi di c.d. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348–ter c.p.c. e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”. Al riguardo, la S.C. è tornata a specificare che nel ricorso per cassazione, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, co. 1 n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente “deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass. n. 26774/2016; conf. Cass. 20994/2019; v. anche Cass. 8320/2022); e ha ribadito che ricorre l’ipotesi di “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità del motivo ex art. 360, 1 co., n. 5, c.p.c. “non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice” (Cass. n. 7724/2022, n. 29715/2018; cfr. anche Cass. n. 37382/2022).

Interessante anche la motivazione sottesa al rigetto del quarto motivo di ricorso[2]. Sul punto, la S.C., dopo aver ribadito che “rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del CCNL, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo”, ha altresì precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione al fine di sottoporre a censura il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice del merito sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale, costituito dalle previsioni del codice disciplinare del CCNL. Chiarisce, infatti, la S.C. che, in questa materia, non è sufficiente verificare la riconducibilità dei fatti posti a base del licenziamento con la fattispecie astratta prevista dalla contrattazione collettiva, ma il giudice del merito deve operare la valutazione della sussistenza della gravità e proporzionalità fra il fatto contestato e la sanzione irrogata dal datore di lavoro, dovendo altresì tenere conto se tali fatti siano suscettibili di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali “con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (cfr. Cass. n. 33811/2021, n. 13411/2020, n. 18195/2019).

Sulla base di tali principi, la S.C. ha quindi rigettato il motivo di ricorso avanzato dal lavoratore-ricorrente, avendo ritenuto che la Corte distrettuale avesse, in effetti, operato il giudizio di valutazione di gravità in concreto e di proporzionalità con riferimento al contratto collettivo e alla circostanza della recidiva, e ritenendo quindi giustificata la sanzione espulsiva del licenziamento.


[1] Con il quale il ricorrente aveva dedotto (art. 360, n. 5, c.p.c.) omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e mancata ammissione di CTU.

[2] Con il quale il ricorrente aveva dedotto (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore

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