Quando il licenziamento può dirsi ritorsivo?

Maria Santina Panarella
19 Febbraio 2021

Sono stato ingiustamente fatto fuori, impugno il licenziamento perché è ritorsivo”.

Capita molto spesso che il lavoratore, dopo aver ricevuto il provvedimento espulsivo, pronunci tali parole.

Ma quando il licenziamento può davvero dirsi ritorsivo?

La domanda è alquanto importante dal momento che tale tipo di licenziamento è stato ricondotto, data l’analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604/1966, 15 della legge n. 300/1970 e 3 della legge n. 108/1990, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie previste dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (cfr., altresì, art. 2 del d.lgs. n. 23/2015).

Orbene, la risposta si può agevolmente trovare nelle pronunce della Corte di Cassazione che hanno delineato i tratti caratteristici della fattispecie in esame.

Alla luce di tale orientamento, si può senz’altro affermare che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, assimilabile a quello discriminatorio, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 21194/2020, nonché Cass. n. 9468/2019 e Cass. n. 23583/2019).

Nella recentissima sentenza n. 1514 del 25 gennaio 2021, la Corte di Cassazione ha chiaramente dimostrato di voler dare seguito al proprio consolidato orientamento.

Difatti, nella pronuncia ora citata, il Supremo Collegio ha ribadito che, in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere:

  • determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso;
  • ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti “insussistente nel riscontro giudiziale”.

Ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, co. 1 Statuto dei Lavoratori, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta alla base del licenziamento.

In sintesi, il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se il medesimo motivo non vi fosse stato; in altre parole, questo deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.

Pertanto il giudice di merito, dopo aver riscontrato che il datore di lavoro non ha assolto gli oneri su di lui gravanti in ordine alla dimostrazione del giustificato motivo oggettivo, deve procedere alla verifica delle allegazioni del lavoratore poste a fondamento della domanda di accertamento della nullità per motivo ritorsivo. E solo il positivo riscontro di tali allegazioni dà luogo all’applicazione della più ampia tutela prevista dal citato art. 18, 1° co., l. n. 300/1970.

Come si è sopra accennato, l’onere della prova dell’esistenza di un motivo di ritorsione nel licenziamento e del suo carattere determinante la volontà del datore grava sul lavoratore che lo deduce in giudizio (cfr., in questo senso, tra le tante altre, Cass. 17 giugno 2020, n. 11705) e che, dunque, deve dimostrare che l’intento discriminatorio abbia avuto “efficacia determinativa ed esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso" (tra le altre, Cass. 14 luglio 2005 n. 14816).

La stessa Suprema Corte ha osservato che si tratta di “prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” (Cass. n 17087/2011).

In questa prospettiva, il giudice di merito ben può valorizzare tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche, appunto, in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583/2019 cit.).

Solo in presenza di tale prova il lavoratore avrà allora diritto alla tutela reale piena.

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