Class Action Dieselgate: Volkswagen deve risarcire (solo) il danno non patrimoniale

Stefano Guadagno
5 Dicembre 2023

La Corte d'appello di Venezia, con sentenza 16 novembre 2023, n. 2260, ha confermato la statuizione di accoglimento della class action proposta da acquirenti di automobili Volkswagen, in relazione alla vicenda c.d. Dieselgate, riconoscendo così l’illiceità della condotta della casa automobilistica, ma ritenendo risarcibile ai consumatori il solo danno morale da reato, con esclusione della risarcibilità dei danni patrimoniali, non provati.

La vicenda processuale trae origine dalla class action proposta dall’Associazione Altroconsumo contro le società Volkswagen Aktiengesellschaft e Volkswagen Group Italia S.p.A. ai sensi dell'art.  140 bis d.lgs. n. 206 del 2005 per ottenere l'accertamento della pratica commerciale scorretta posta in essere mediante la diffusione d'informazioni non veritiere in ordine alle emissioni inquinanti di ossidi d'azoto (NOx) dei veicoli diesel equipaggiati con motore EA 189 con marchio Volkswagen, Audi, Skoda e Seat, e la conseguente condanna delle convenute al risarcimento del danno.

Il Tribunale di Venezia - riconosciuta l'omogeneità dei diritti individuali delle proponenti e dei potenziali aderenti in considerazione dell'unicità dell'evento di danno – ha ritenuto integrata la prova dell’illecito conseguente alla installazione, sui motori diesel, del software denominato defeat device o switching logie, non conforme al regolamento (CE) n. 715/2007.

In particolare, il primo Giudice ha ritenuto violati:

  • l’art. 23, co. 1, lett. d), cod. cons., in ragione dell'omessa comunicazione, ai potenziali consumatori, della presenza sui veicoli di dispositivi atti a falsare le rilevazioni di emissioni inquinanti e averli indotti a ritenere erroneamente di acquistare veicoli aventi un impatto ambientale contenuto;
  • gli artt. 21, 1° comma, lett. b) e 22 cod. cons., in quanto i messaggi promozionali - volta a pubblicizzare l’impegno della società sul versante delle tematiche ambientali (c.d. green claim) – erano omissivi e fuorvianti per il consumatore;
  • l’art. 18, lett. b), cod. cons., per essere la condotta di Volkswagen in contrasto con la diligenza professionale.

Il Tribunale ha quindi evidenziato che la violazione del diritto del consumatore all’autodeterminazione integra un illecito extracontrattuale, riconoscendo in favore della parte attrice un danno patrimoniale, individuato “nel maggior aggravio economico, parametrato al maggior prezzo dei veicoli Euro 5, sostenuto per l'acquisto di un veicolo formalmente Euro 5, ma di classe inferiore”.

Muovendo, dalle soluzioni adottate in diversi Paesi dell’Unione europea in relazione al c.d. Dieselgate, il Tribunale ha assunto, quale criterio di liquidazione del danno, un parametro unitario pari al 15% del prezzo medio di acquisto dei veicoli coinvolti in Italia nella vicenda oggetto di causa, condannando Volkswagen a risarcire € 3.000,00 per ciascun consumatore.

Il Giudice di prime cure ha poi accolto la prospettazione attorea secondo cui la pratica commerciale scorretta posta in essere da Volkswagen è riconducibile alla fattispecie del reato di frode in commercio di cui all'art. 515 c.p.. A titolo di danno non patrimoniale è stato riconosciuto a ciascun consumatore un importo, a titolo risarcitorio, pari al 10% del danno patrimoniale.

La sentenza di primo grado è stata appellata dalle società del Gruppo Volkswagen sotto vari profili, attinenti alla violazione della disciplina consumeristica in materia di pratiche commerciali scorrette nonché alla liquidazione dei danni operata dal Tribunale di Venezia. Ha proposto appello incidentale l’Associazione Altroconsumo contro i capi che hanno ritenuto l’illegittimità dell’adesione di parte dei consumatori attori.

La Corte d’Appello, nella sentenza in commento, muove dalla premessa che la condotta della Volkswagen Aktiengesellschaft – consistente nella installazione di dispositivi in grado di aggirare gli standard ambientali statunitensi – è stata accertata dal KBA (Autorità Federale Tedesca per l'Autotrasporto) con ordinanza del 15 ottobre 2015 e dalla Commissione d'inchiesta Volkswagen del Ministero Federale dei Trasporti e delle Infrastrutture digitali tedesco.

L’illiceità della condotta della Volkswagen è stata affermata, in  via definitiva, dall'ordinanza ingiunzione del 13 giugno 2018, emessa dalla Procura tedesca di Braunschwieg – non impugnata - con la quale le è stata irrogata alla casa automobilistica una sanzione pecuniaria di un miliardo di euro.

La Corte sottolinea, quindi, che l’azione (e non omissione) ingannevole, ai sensi dell’art. 21, 1° comma, lett. b), di installare dispositivi vietati, è connotata da antigiuridicità, in quanto in contrasto con il regolamento (CE) n. 715/07 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2007, che fissa norme relative all'omologazione di automobili e veicoli commerciali leggeri (Euro 5 ed Euro 6).

La sentenza, dunque, ritiene integrata la lesione di un interesse meritevole di tutela per l’ordinamento giuridico, consistente nel diritto del consumatore all’autodeterminazione. E, per effetto della condotta tenuta da Volkswagen, “i consumatori sono stati indotti a credere che fossero rispettati tutti i requisiti della classe di omologazione e la classe di omologazione, dipendente dai livelli di emissioni di gas inquinanti, costituisce una caratteristica importante per definire il prodotto”.La Corte precisa poi che “Non si richiede che la condotta abbia indotto i consumatori a una decisione in concreto diversa da quella assunta”. Infatti, “Non è necessario stabilire, ai fini dell'integrazione di un illecito aquiliano, che per effetto dell'azione ingannevole si sia provocato un errore determinante ai fini della conclusione del contratto”.

E, come chiarito dalla Corte di Giustizia UE, con sentenza 21 marzo 2023, nella causa C-100/21, l’inserimento di un impianto di manipolazione vietato assume dunque rilevanza anche rispetto alla tutela del singolo consumatore.

Con riguardo alle domande risarcitorie la Corte d’Appello muove dalla conferma della funzione compensativa del risarcimento del danno da responsabilità civile.

Come è noto, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (sentenza 5 luglio 2017 n. 16601), pronunciando su una questione di delibazione nell’ordinamento giuridico italiano di una pronuncia statunitense recante condanna al risarcimento di un danno punitivo, ha superato il precedente orientamento che era nel senso della radicale incompatibilità dei danni punitivi con l’ordinamento italiano ed in particolare con il principio dell’ordine pubblico. La sentenza ha tuttavia sottoposto i danni punitivi ad un regime di rigorosa tipicità legislativa, desunto dalla norma racchiusa nell’art. 23 della Costituzione, in questo modo escludendo qualsiasi potere creativo del giudice. In effetti, la decisione sottolinea con forza che “ogni imposizione di prestazione personale esige una ‘intermediazione legislativa’ sulla base del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25) che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali…”.

Quindi, il Giudice non può legittimamente riconoscere un risarcimento punitivo se non in presenza di un’espressa previsione di legge.

Allo stesso modo, la Corte d’Appello – attraverso il richiamo ai principi affermati dalle Sezioni Unite con le note sentenze del 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26975 – respinge la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, ribadendo la risarcibilità del danno conseguenza.

Ciò premesso, la sentenza in commento esclude che il riferimento contenuto nel comma dodicesimo dell’art. 140 bis cod. cons. alla liquidazione equitativa del danno nell’ambito di una class action, costituisca indice normativo del riconoscimento dei danni punitivi, posto che “il giudice può procedere a una liquidazione equitativa se il preciso ammontare   del danno non è provabile o è provabile con estrema difficoltà e non anche se permanga incertezza sull'an debeatur”.

Applicando tali principi la sentenza – in riforma delle statuizioni rese in primo grado – rigetta la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, affermando che “non è stata raggiunta la prova del danno patrimoniale”. In particolare, “non vi è prova del maggior prezzo da valorizzare come danno differenziale pagato dai consumatori per l'acquisto di veicoli del gruppo Volkswagen omologati Euro 5 rispetto al reale valore di mercato degli stessi veicoli”. Viene, inoltre, attribuito rilievo alla revisione gratuita avviata da Volkswagen, integrante un risarcimento in forma specifica. In questa prospettiva, se l’acquirente non ha ritenuto di partecipare al piano d’interventi delle misure approvate dall’autorità tedesca “non può reclamare un danno per un pregiudizio patrimoniale che il gruppo Volkswagen si è offerto di eliminare in modo gratuito e non invasivo”.

Residuerebbe, a giudizio della Corte d’Appello, un “danno patrimoniale temporaneo” per l'arco temporale compreso fra l'acquisto del veicolo e il momento in cui il veicolo è stato revisionato ma “si tratta di un pregiudizio che non può essere fatto valere con un'azione di classe perché non suscettibile di standardizzazione”.

La sentenza in esame conferma, invece, la liquidazione del danno morale da reato disposta dal Tribunale, ritenendo ipotizzabile in capo al management Volkswagen il delitto di frode in commercio.

A prescinde dalla sussistenza di tutti gli elementi che rendono irrogabile la sanzione penale il Giudice civile è chiamato “ad accertare se da un fatto astrattamente riconducibile a un reato sia derivato, quanto al profilo del danno non patrimoniale, una condizione di sofferenza o uno stato di frustrazione per il danneggiato”.

Fatte queste premesse, la Corte conclude nel senso della sussistenza del danno morale da reato, la cui quantificazione deve tenere conto dei seguenti parametri:

  • la gravità della condotta fraudolenta di cui il singolo consumatore è rimasto vittima;
  • lo squilibrio della posizione delle parti, tenuto conto che il gruppo Volkswagen è un “colosso dell'industria automobilistica”;
  • il fatto che le informazioni nascoste attenessero alle emissioni inquinanti e quindi a “parametri che finiscono per interferire con beni a cui la Costituzione riconosce primaria importanza quali, l'ambiente e la salute”;
  • l'irrilevanza della campagna di richiamo dei veicoli, che ha “posto rimedio al pregiudizio patrimoniale e non anche a quello non patrimoniale”.

Applicando questi parametri al caso di specie, la sentenza conclude che “la modesta somma di € 300,00 non costituisce certo una forma di overcompensation”; fermo restando che la quantificazione operata dal Tribunale non è stata fatta oggetto di appello incidentale e quindi non avrebbe potuto essere rimodulata in appello.

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