Con l’ordinanza del 07/03/2023 n. 6838 la Corte di Cassazione torna a ribadire principi importanti in materia di onere della prova nel caso di licenziamento motivato dall’intento ritorsivo del datore di lavoro.

1. - I fatti oggetto di causa

Nell’ambito di un procedimento instaurato ai sensi della L. 92/2012, una lavoratrice, dipendente dell’Associazione Albergatori di V., aveva impugnato il proprio licenziamento ritenendolo ritorsivo e non sorretto da giusta causa.

Ritenendo fondato il ricorso, il Tribunale di Savona, accertata la nullità del licenziamento, ordinava all’Associazione la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro.

La Corte di Appello di Genova confermava la pronuncia di primo grado, ritenendo non sorretto da giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato e che la scelta di licenziare la lavoratrice era da "interpretarsi come una reazione al suo rifiuto di rinunciare al superminimo".

Qualificato il recesso come animato da intento ritorsivo, la Corte d’appello al fine di ordinare la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, ribadiva il principio per cui “la tutela reale si applica anche alle cd. organizzazioni di tendenza nel caso di licenziamenti nulli "in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia” (stabilito da Cass. 19695 del 2016).

Contro la sentenza di secondo grado, l’Associazione proponeva ricorso per cassazione affidato a vari motivi.

2. – I motivi di ricorso per cassazione

La ricorrente ha censurato la sentenza d’appello denunciando il mancato riconoscimento della natura di ‘organizzazione di tendenza’ e la conseguente applicazione della tutela reale per la nullità del licenziamento.

Tra gli altri motivi, la sentenza veniva impugnata per violazione delle regole in materia di onere di specifica contestazione delle allegazioni avversarie, nonché quelle in materia di onere e valutazione della prova.

La sentenza veniva altresì criticata per l'erronea applicazione delle norme che individuano i requisiti della prova presuntiva e la sua valutazione giudiziale in relazione all'affermazione della natura ritorsiva del licenziamento.

3. – La decisione della Cassazione

La Cassazione nella sentenza in commento ha ricordato che in forza di un orientamento consolidato[1] per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito “occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011)”.

In altre parole, la domanda di nullità di un licenziamento ritorsivo può essere accolta dimostrando che l’intento ritorsivo abbia determinato in via esclusiva la volontà del datore di recedere dal rapporto di lavoro. E ciò anche alla presenza di altri fatti rilevanti che avrebbero di per sé potuto rilevare quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

È il lavoratore che deve dimostrare, in base alla regola generale posta dall'art. 2697 c.c., la prevalenza dell’intento ritorsivo, non operando l'art. 5 della l. n. 604 del 1966.

Tale onere può essere assolto dal lavoratore anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010), potendo il giudice del merito “valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583 del 2019)”.

In ogni caso, la Corte, ricordato che l'allegazione del carattere ritorsivo del licenziamento da parte del lavoratore non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5 della l. n. 604 del 1966, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso, ha precisato che “ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 27325 del 2017; Cass. n. 26035 del 2018)”.

Nel caso di specie, la situazione di crisi (con conseguente necessità di ridurre i costi del personale) dedotta dall’Associazione a fondamento del recesso non è stata provata dalla datrice di lavoro, sulla quale ricadeva il relativo onere.

L'andamento economico negativo dell'azienda, continua la Corte, non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare, "ove, però, il recesso sia motivato dall'esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l'inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta"; invero, resta "saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso", ovviamente affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito”.

Pertanto, una volta esplicitata la ragione organizzativa o produttiva posta a giustificazione causale della risoluzione del rapporto, anche ove il licenziamento sia motivato dall'esistenza di una crisi aziendale o di un calo del fatturato, ed in giudizio si accerta invece che la ragione indicata non sussiste, “il recesso può essere dichiarato illegittimo dal giudice del merito non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall'imprenditore; ovverosia l'inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento così come giudizialmente verificata rende in concreto il recesso privo di effettiva giustificazione (cfr. Cass. n. 25201 del 2016 e Cass. n. 10699 del 2017)”.

Una volta acclarata l'insussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la Corte d’appello ha ritenuto che non concorresse, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito ed ha considerato provata la natura ritorsiva del recesso sulla scorta di una serie di elementi che, costituendo un accertamento di fatto, non potevano essere riesaminati in sede di legittimità.

Infine, in relazione alla questione dell’applicabilità alle organizzazioni di tendenza della tutela reale, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la norma della L. n. 108 del 1990, art. 3, sull'estensione ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori di cui alla L. n. 604 del 1966 e alla L. n. 300 del 1970, art. 15, delle conseguenze sanzionatorie previste dalla medesima L. n. 300 del 1970, art. 18, a prescindere dal numero dei dipendenti ed anche a favore dei dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo e, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o rappresaglia" (in termini: Cass. n. 5635 del 2006, che cita, in motivazione, Cass. n. 4543 del 1999, Cass. n. 14982 del 2000, n. 3837 del 1997); tale principio più di recente è stato ribadito da Cass. n. 19695 del 2016, esplicitamente richiamata dalla Corte territoriale, secondo cui: "In tema di licenziamento, l'art. 4 della l. n. 108 del 1990, nel riconoscere alle cd. organizzazioni di tendenza il privilegio dell'inapplicabilità dell'art. 18 st.lav., fa salva l'ipotesi regolata dall'art. 3 sull'estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia, sicché, in tale evenienza, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore (nella specie, avente la carica di dirigente sindacale), restando privo di rilievo il livello occupazionale dell'ente e la categoria di appartenenza del dipendente" (v. anche, in motivazione, Cass. n. 17999 del 2019); stante l'applicazione di detto principio di diritto, risulta del tutto irrilevante l'accertamento o meno della qualità di organizzazione di tendenza nell'Associazione ricorrente”.

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[1] Tra le più recenti v. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022.

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