Con l’ordinanza n. 3013 del 1° febbraio 2024 la Corte di Cassazione, nel ribadire il principio generale della prevalenza del diritto all’oblio rispetto al diritto all’informazione, ha ritenuto ammissibile la prova presuntiva in tema di risarcimento del danno all’onore e alla reputazione.

I fatti di causa

Il sig… con ricorso ex art. 702bis c.p.c. davanti al Tribunale di Firenze assumeva di avere patito un danno in conseguenza dell’omessa cancellazione dal sito internet del quotidiano Ge.Ne.Ne. S.p.a. della notizia relativa alla sua condanna giudiziaria, nonché del suo mancato aggiornamento con quella relativa alla sua successiva e definitiva assoluzione all’esito del giudizio di appello.

La Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda risarcitoria proposta dal sig… sul presupposto che la sussistenza del danno all’onore e alla reputazione non era stata provata.

Avverso la sentenza di appello, il sig... ha proposto ricorso per cassazione.

Con l’ordinanza in commento n. 3013 del 1° febbraio 2024 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d’appello di Firenze.

Nell’ordinanza in commento, la Cassazione è tornata a ribadire, in armonia con quanto affermato dalla giurisprudenza europea, il principio generale della prevalenza del diritto all’oblio rispetto al diritto all’informazione.

Il diritto all’oblio può subire una compressione, a favore del diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti e cioè:

1) il contributo arrecato dalla diffusione dell'immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico;

2) l'interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali);

3) l'elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese;

4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione;

5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all'interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico”.

Ciò premesso, sulla configurabilità del danno non patrimoniale in concreto subìto dal ricorrente, la Cassazione ha criticato la sentenza impugnata per non avere il Giudice di secondo grado attribuito rilevanza ai parametri di riferimento, dettati dalla giurisprudenza di legittimità in questa materia, “ovvero la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima”.

Il danno all'onore ed alla reputazione, configurandosi come un danno conseguenza e non in re ipsa deve essere sì oggetto di allegazione e prova, ma tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni.

La prova del danno non patrimoniale poteva essere dunque fornita con ricorso al notorio e tramite presunzioni. Ed appunto come già anticipato, a tal fine avrebbero dovuto assumere rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima.

Il ragionamento presuntivo avrebbe potuto essere svolto dalla Corte d’appello sulla base delle allegazioni, anche documentali, fornite dal ricorrente, il quale, sin dal primo grado, aveva dedotto e chiesto di provare le circostanze idonee alla dimostrazione dei danni subiti, avendo affermato, in particolare:

  • “la potenzialità diffusiva, trattandosi di articoli rinvenibili liberamente sul web, in relazione al contesto ambientale in cui il danneggiato risiede (E, cittadina con circa 40.000 abitanti)”;
  • “i caratteri di gravità assoluta della notizia rimasta on line e non aggiornata (accusato di uno dei reati che suscitano massima riprovazione nella società civile, ovvero quello di detenzione di materiale pedopornografico e di molestie, vicenda processuale risalente al 2008, da cui era stato assolto per non aver commesso il fatto nel 2009)”;
  • “le ripercussioni subite, anche di tipo medico, sulla sua sfera personale e sociale”.

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Con ordinanza in data 8 marzo 2024, n. 6275 la Corte di cassazione, sezione lavoro, si è espressa in materia di prova del danno da demansionamento, ribadendo che la stessa può essere data per presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c.

I fatti di causa

La Corte d’appello di Napoli, nel confermare la sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta da un lavoratore di accertamento di condotte demansionanti da parte del datore di lavoro.

Secondo il giudice di secondo grado, premesso che la prova presuntiva si distingue dalla prova in re ipsa del danno, il lavoratore non aveva dimostrato con il ricorso introduttivo di aver patito in concreto un danno.  

Il lavoratore, impugnata la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi di impugnazione.

Con l’ordinanza in commento, la Corte di cassazione ha ritenuto fondati entrambi i motivi di ricorso, riconfermando un principio già espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui “il danno da demansionamento non è in re ipsa” (cfr. Cass. Sez. Un. n. 6572/2006; Cass. 6.12.2005 n. 26666), ma la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti.

Nel caso di specie, gli elementi presuntivi, seppur puntualmente allegati nel ricorso, non sono stati valutati dal giudice di secondo grado, il quale non ha applicato correttamente “il procedimento presuntivo da cui risalire al fatto ignoto (cioè l’esistenza del danno) da quello noto (dimostrazione comunque di una dequalificazione accertata per le ragioni esplicitate nella gravata pronuncia)”.

Considerato che la prova del danno può essere data anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto tenere in considerazione, quali elementi presuntivi, “la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata dell'adibizione alle mansioni di produzione (da comparare a quelle di natura impiegatizia precedentemente ricoperte), la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo il corso di formazione ricevuto, i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone, tutte caratteristiche specifiche dell'attività svolta dalla ... allegate nel ricorso introduttivo del giudizio (come riprodotto nel ricorso per cassazione) e suscettibili di valutazione ai fini dell'accertamento di un danno professionale, sia nel profilo di un eventuale deterioramento della capacità acquisita sia nel profilo di un eventuale mancato incremento del bagaglio professionale”.

La Corte di appello ha disatteso il principio secondo cui “ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva od interiore, ma oggettivamente accertabile sul fare areddituale del soggetto, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni (cfr. Cass. n. 29832 del 2008)”.

La Corte di merito avrebbe dovuto preliminarmente verificare la sussistenza del demansionamento prospettato dal lavoratore e, in caso di accertamento positivo, valutare la ricorrenza di un eventuale pregiudizio.

In conclusione, nell’ordinanza in commento la Corte ha richiamato i principi espressi da Cass. n. 48/2024 secondo cui “Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Per leggere il testo della sentenza clicca qui https://www.wikilabour.it/wp-content/uploads/2024/03/Cassazione_2024_06275.pdf

Una sola condotta mobbizzante del datore di lavoro ben può dare diritto al risarcimento del danno.

La Cassazione ormai ne è certa: solo questa può essere la conclusione corretta se si fa buon governo delle regole di diritto che vengono in rilievo in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore. Al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, “sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)” (Cass. ord. 19 ottobre 2023, n. 29101).

La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta, potranno incidere eventualmente sul quantum del risarcimento, ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale – quali quelli poc’anzi rammentati – “può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza”.

In effetti, come ha ricordato anche la Cassazione nella pronuncia sopra citata, è ormai noto l’orientamento della medesima Corte secondo cui lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni, ma pur sempre riconducibile all’art. 2087 c.c., con la conseguenza che, se viene accertato lo straining e non il mobbing, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (si vedano, tra le più recenti, Cass. 23 maggio 2022 n. 16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428).

Nel caso affrontato dalla Corte, il giudice d’appello aveva negato l’illiceità della condotta datoriale ritenendo che si era trattato di un episodio isolato, che esulava dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria protratta nel tempo, così negando qualsiasi tutela risarcitoria al lavoratore. E, per la Cassazione, questo è un chiaro esempio di mal governo delle regole di diritto sopra ricordate.

La Corte ha poi evidenziato il valore dirimente dell’ “ambiente lavorativo stressogeno’ quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto “la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.”(Cass., ord. 7 febbraio 2023, n. 3692). Si rammenta, per completezza del quadro espositivo, che la Corte di Cassazione, con una recente, interessante ordinanza (la n. 25191 del 24 agosto 2023), era già tornata a parlare del danno da stress da lavoro, precisando chiaramente che il relativo risarcimento deve comprendere anche il danno morale (si veda, su questo sito, l’approfondimento Anche il danno morale va risarcito nell’ambito della liquidazione del danno professionale

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