Lo ha recentemente statuito la Cassazione con la pronuncia n. 37946/2022.

Nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la legittimità di un licenziamento intimato per g.m.o. – dichiarato illegittimo dalla Corte di Appello per manifesta insussistenza del nesso causale tra le ragioni organizzative addotte e l’atto datoriale di recesso –, il datore di lavoro, in via subordinata, ha chiesto venisse detratto dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore quanto quest’ultimo, successivamente al licenziamento, aveva percepito a titolo retributivo in ragione dello svolgimento di un’altra attività lavorativa (è questo, come noto, il c.d. aliunde perceptum).

Sul punto, la Corte ha specificato che per il datore di lavoro non è sufficiente invocare la previsione di legge che prevede la detraibilità di tali somme dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore licenziato illegittimamente, dovendo “essere ritualmente allegati...dalla parte che lo deduca... gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum”. Solo l’allegazione di quei fatti che sono rilevanti in punto di percezione da parte del lavoratore di altri redditi e, come ovvio, la loro successiva prova in giudizio (sia per effetto della mancata contestazione da parte del lavoratore degli stessi, sia in ragione della loro dimostrazione tramite prova diretta o presuntiva) rende operante la previsione circa la detraibilità dell’aiunde perceptum, non essendo sufficienti richieste istruttorie quali la richiesta di documentazione all’I.N.P.S. o all’Agenzia delle Entrate, “tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati”.

Un principio di diritto che si va consolidando

Già la recente pronuncia n. 33341/2022 della Corte di Cassazione (per un commento della quale si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lobbligo-di-repechage-onere-probatorio-e-conseguenze-in-caso-di-inadempimento/) ha affermato che la prova dell’impossibilità di collocare altrove il lavoratore che si intende licenziare per giustificato motivo oggettivo – in conformità di quanto statuito dall’art. 5 L. n. 604/1966 sulla ripartizione degli oneri probatori – ricade sul datore di lavoro.

Cass. n. 34051/2022, che qui brevemente si commenta, si colloca nel solco di tale orientamento, specificando altresì che “fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”.

Quindi, richiamato un passo della recente Corte Cost. n. 125/2022 (su cui si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/), la Corte di Cassazione ha affermato che in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo (ipotesi che appunto si determina ove non sia stato provato uno dei fatti costitutivi del g.m.o., tra cui il c.d. repêchage), il testo dell’art. 18, comma 7°, L. n. 300/1970, “quale risultante all’esito degli interventi della Corte Costituzionale”, prevede che il Giudice applichi il regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 4°, L. n. 300/1970, disponendo la reintegrazione del lavoratore e la contestuale corresponsione in favore del medesimo di un’indennità ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram