Trib. Roma, sez. Lavoro, sentenza n. 3605/2021: la massima

La temporanea contrazione economica dell’attività produttiva ed il conseguente processo di ridimensionamento dell’organico aziendale adottato dal datore di lavoro per farvi fronte integrano il concetto di “giustificatezza” che rende legittimo il licenziamento del dirigente, categoria legale che non rientra, pertanto, nell’ambito applicativo della misura eccezionale del c.d. “blocco dei licenziamenti”.

La disciplina normativa

Nei termini sopra accennati si è recentemente pronunciato il Tribunale di Roma con la sentenza n. 3605/2021, affermando un principio di diritto esattamente contrario a quello già affermato dal medesimo Tribunale con la precedente ordinanza ex art. 1, comma 49, L. n. 92/2012 del 26 febbraio 2021, anch’essa brevemente annotata su questo sito (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sul-divieto-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative-2/)

La disciplina di legge che ha introdotto nel nostro ordinamento la misura di carattere eccezionale (D.L. n. 18/2020, conv. con modifiche in L. n. 27/2020), comunemente definita con l’espressione “blocco dei licenziamenti”, non indica – perlomeno esplicitamente – a quali categorie di lavoratori essa si applichi, posto che, dall’esordio della disciplina limitativa, il legislatore si è limitato a prevedere che le procedure di licenziamento collettivo non potessero essere avviate per un periodo di sessanta giorni a partire dalla data di entrata in vigore del Decreto Legge (17 marzo 2020), che quelle già avviate alla data del 23 febbraio 2020 restassero sospese per il medesimo periodo di tempo e che non potessero essere intimati licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fino alla scadenza del termine di efficacia di sessanta giorni della predetta misura legislativa. Tuttavia, l’orizzonte temporale della vigenza normativa di tale divieto di licenziamento, così come previsto dall’art. 46 del D.L. n. 18/2020, è stato progressivamente spostato in avanti da Decreti Legge emanati in successione (a cominciare dal D.L. n. 34/2020 e da ultimo dal D.L. n. 41/2021), essendo stato in particolare previsto che restasse precluso l’avvio di procedure di licenziamento collettivo o l’intimazione di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo a tutti quei datori di lavoro che non avessero integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale istituiti specificamente dal legislatore dell’emergenza,oppure nel caso in cui non avessero fatto ricorso all’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali. Del pari, è stata fin dal principio preclusa, e resta tutt’ora vigente la relativa previsione, l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dato lavoratore nel caso in cui il medesimo non abbia fruito dei peculiari trattamenti di integrazione salariale o dell’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali.

Le soluzioni contrastanti offerte dal Giudice romano.

Si è detto che le disposizioni di legge che regolano il c.d. “blocco dei licenziamenti” non indicano la tipologia di lavoratori cui esso è destinato a trovare applicazione. Ci si è allora chiesti se essa proteggesse, o meno, anche la stabilità del rapporto lavorativo dirigenziale.

Nel febbraio 2021, con un’ordinanza emessa a definizione della fase sommaria di un giudizio di licenziamento, il Tribunale di Roma ha ritenuto che il rapporto lavorativo dirigenziale dovesse ricondursi nel novero dei rapporti di lavoro subordinato la cui stabilità è “protetta” dal c.d. blocco dei licenziamenti.

In primo luogo perché tale inclusione sarebbe in un certo senso imposta dalla ratio ispiratrice della misura legislativa di carattere eccezionale del c.d. blocco dei licenziamenti, così come individuabile nella necessità “di evitare che le pressocché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata dei posti di lavoro”. In secondo luogo perché, pur riconoscendo il Tribunale che il c.d. “blocco dei licenziamenti” fa esplicito riferimento al recesso per giustificato motivo oggettivo, una causale di recesso che notoriamente non si applica al licenziamento del dirigente, l’inclusione della categoria dei dirigenti nel novero di quelle protette dalla misura di legge di cui si sta discorrendo si giustificherebbe in ragione della necessità di salvaguardare la “razionalità intrinseca” della normativa in analisi. Infatti, ha rilevato il Tribunale di Roma con l’ordinanza del febbraio 2021, se i dirigenti non possono essere legittimamente coinvolti in misure di licenziamento collettivo, non sarebbe ragionevole ritenere che, al contempo, essi possano essere licenziati individualmente per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di esso. In sintesi, muovendo dal rilievo della sostanziale coincidenza tipologica delle ragioni sottese ad un licenziamento collettivo con quelle sottese ad un licenziamento individuale “di tipo oggettivo” e facendo leva sul fatto – pacifico – che i dirigenti non possano essere (allo stato) coinvolti in procedure collettive di riduzione del personale, il Tribunale, ravvisandone la contrarietà con una disciplina di carattere imperativo, quale quella che ha introdotto e disciplinato il c.d. “blocco dei licenziamenti” , ha concluso per la nullità del licenziamento intimato al dirigente per ragioni inerenti l’attività produttiva o l’organizzazione del lavoro, non ritenendo necessario o utile stabilire se esse integrassero o meno il concetto di “giustificatezza” del recesso.

Viceversa, con la sentenza n. 3605/2021 che qui brevemente si commenta, il Tribunale di Roma ha escluso che la figura del dirigente rientri nel novero di quei dipendenti la cui stabilità è protetta in misura straordinaria ed eccezionale dal c.d. “blocco dei licenziamenti”. Anche in questo caso, tuttavia, il Tribunale di Roma è giunto a tale conclusione – che dunque è esattamente opposta a quella già raggiunta nel febbraio 2021 – per due ordini di ragioni.

La prima ragione si fonda sul tenore letterale della disciplina di legge, e quindi sul dato oggettivo costituito dal riferimento esplicito ai licenziamenti individuali intimati per giustificato motivo, tipologia di licenziamenti che, come noto e come già accennato, non si applica al recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale.

Il secondo motivo che ha indotto il Tribunale di Roma ad escludere il rapporto di lavoro dirigenziale dal novero dei rapporti lavorativi la cui stabilità occupazionale è eccezionalmente protetta dal legislatore dell’emergenza si fonda, invece, sulla ratio della disciplina normativa qui in esame, individuata tuttavia in maniera difforme da quanto già ravvisato e valorizzato dal Tribunale di Roma nel precedente pronunciamento. Infatti, se, come detto, con l’ordinanza del febbraio 2021 il Tribunale ha ritenuto che la necessità “di evitare che le pressocché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata dei posti di lavoro” dovesse tradursi in una protezione diffusa della stabilità dei rapporti lavorativi, tra cui quello dirigenziale, stavolta, invece, per giungere alla conclusione opposta, il Tribunale di Roma ha valorizzato il parallelismo normativamente sancito tra il (presunto) ambito applicativo del c.d. blocco dei licenziamenti, così come desumibile dalla lettera delle disposizioni di legge che lo prevedono, e il recente ampliamento del novero delle aziende che, in deroga agli ordinari requisiti dimensionali, possono beneficiare degli ammortizzatori sociali.

In altri termini, il Tribunale di Roma, da ultimo, muove dalla considerazione per cui il legislatore dell’emergenza, da un lato, ha introdotto il c.d. blocco dei licenziamenti – misura di carattere straordinario, posto che, impedendo appunto il licenziamento del lavoratore o dei lavoratori in una situazione di oggettiva difficoltà economica dell’impresa, limita fortemente la libertà di iniziativa economica privata del datore di lavoro –, dall’altro, ha allargato la platea delle imprese abilitate a fare ricorso alla cassa integrazione guadagni, ricomprendendovi – in via parimenti straordinaria – anche quelle di minori dimensioni che solitamente vi sono escluse. Pertanto, la “chiara ed evidente simmetria tra il blocco dei licenziamenti e soccorso della collettività generale (attraverso gli ammortizzatori sociali)” è la chiave di volta che consente di delimitare i contorni dell’ambito applicativo del c.d. “blocco dei licenziamenti”: infatti, poiché è pacifico che i dirigenti non possano fruire degli strumenti di sostegno del reddito quale la cassa integrazione guadagni, allora deve ritenersi altrettanto pacifico che possano essere oggetto di licenziamento e non rientrino quindi nel novero dei lavoratori la cui stabilità è protetta dal c.d. “blocco dei licenziamenti”, poiché, afferma il Tribunale, se così non fosse, “della categoria dei dirigenti dovrebbe necessariamente farsene carico il datore di lavoro, pur in presenza di motivi tali da configurare un’ipotesi di giustificatezza del recesso. E ciò potrebbe determinare un profilo di incoerenza costituzionale tra estensione del blocco dei licenziamenti e principio di libertà economica”.

Considerazioni

La conclusione cui è pervenuto il Tribunale con la sentenza n. 3605/2021 ha innanzi tutto il pregio di basarsi su di un’interpretazione letterale della norma, così dando concreta applicazione al consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa” (in questi termini, Cass. n. 5128/2001).

Per di più, ove si volesse ritenere che la lettera della disposizione non sia sufficientemente chiara nello stabilire se la categoria dei dirigenti debba o meno rientrare nel novero di quelle protette dal c.d. “blocco dei licenziamenti”, è indubbio che il legislatore dell’emergenza abbia effettivamente sancito un indissolubile legame tra divieto di recesso per ragioni oggettive e ampliamento della platea dei soggetti che possono beneficiare dei trattamenti di sostegno del reddito attraverso una temporanea sospensione del rapporto di lavoro. Ed allora è parimenti indubbia la ragionevolezza e l’equilibrio di cui è espressone una decisione, quale quella che qui è oggetto di commento,  che ritenga che alla mancata possibilità per il datore di ricorrere a tali strumenti di sostegno del reddito per una determinata categoria di lavoratori, quale appunto quella dei dirigenti, debba fare da pendant la possibilità per il medesimo datore di lavoro di sciogliersi dal vincolo contrattuale, ovviamente allorquando ricorrano ragioni di carattere oggettivo che siano effettive non meramente pretestuose ed arbitrarie. Tale assetto normativo parrebbe peraltro realizzare un’equa ed efficiente ripartizione dei costi sociali ed economici correlati alla diffusa contrazione economica causata dalla pandemia ancora in atto, ponendo a carico della fiscalità generale gli strumenti di sostegno del reddito di cui beneficia la stragrande maggioranza dei lavoratori ed evitando che i costi di quei lavoratori che invece non possono beneficiare di tali strumenti di sostegno debbano essere sopportati, in ultima istanza, esclusivamente dalle imprese.

Il licenziamento intimato ad un dirigente in ragione della riorganizzazione aziendale conseguente a calo dell’attività aziendale”, quest’ultimo a sua volta imputabile alla contrazione economica generale causata dalla pandemia di Covid-19, è nullo per contrarietà a norma imperativa.

E’ questo il decisum di una recente pronuncia con cui la Terza Sezione lavoro del Tribunale di Roma ha definito un giudizio ex art. 1, comma 48, L. n. 92/2012, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente illegittimamente estromesso.

La disciplina normativa

Come già rilevato in una breve nota di commento a Trib. Mantova n. 112/2020 comparsa su questo sito (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-stabilita-del-mercato-del-lavoro-ed-il-blocco-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative/) tra le diverse misure adottate dal Legislatore per far fronte elle esigenze, anche sociali, poste dalla diffusione della pandemia da Covid-19 vi è quella del divieto di licenziamento per ragioni economiche, organizzative e produttive (introdotto dall’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e successivamente prorogato da successivi Decreti Legge).

Più in particolare, il c.d. “blocco” dei licenziamenti per ragioni economiche è stato previsto e disciplinato tenendo conto della circostanza per cui – in linea generale ed astratta, e dunque a prescindere dalla, purtroppo ancora attuale, situazione emergenziale – il recesso dal singolo rapporto lavorativo, per ragioni inerenti l’attività produttiva, può essere disposto sia nell’ambito di una procedura collettiva di licenziamento (evento che, come noto, si verifica allorquando la risoluzione del singolo rapporto lavorativo si inserisce in una pluralità di risoluzioni individuali, tutte motivate dalla stessa ragione organizzativa addotta dal datore di lavoro recedente), sia ad un livello meramente individuale, circostanza che si verifica quando il singolo lavoratore viene licenziato ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966, per giustificato motivo oggettivo.

E così l’art. 14 D.L. n. 104/2020, al primo comma, ha previsto che “resti precluso” l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo ai tutti quei datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale istituiti ad hoc (cioè quelli appositamente previsti per fronteggiare la situazione economica imposta dall’emergenza sanitaria) ovvero non abbiano fatto ricorso all’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali; parimenti, ma a livello individuale, il secondo comma prevede che il datore di lavoro non possa procedere ad intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove non abbia fruito dei peculiari trattamenti di integrazione salariale o dell’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali con riferimento al singolo lavoratore che intende licenziare.

La questione posta dal caso concreto e le motivazioni poste a base della decisione

Una delle questioni interpretative che tale disciplina ha posto è quella relativa al suo ambito applicativo: ci si è chiesti, in particolare, se essa trovasse o meno applicazione al rapporto lavorativo dirigenziale. A quanto consta, la pronuncia qui in commento è la prima affermazione giudiziale di applicabilità alla categoria dirigenziale del divieto di licenziamento per ragioni di carattere economico/produttivo. Nonostante l’estensore dell’ordinanza premetta che l’esplicito riferimento all’art. 3 della L. n. 604/1966 (come noto, non applicabile alla categoria dirigenziale) operato dalla disciplina di legge che sancisce il divieto di licenziamento lasci ragionevolmente presumere che essa non debba appunto riguardare i dirigenti, giunge poi a ritenere che tale categoria sia “protetta” dalle iniziative di recesso datoriali motivate da ragioni economiche; e ciò, in base a due distinti percorsi argomentativi, sviluppati anche alla luce del canone ermeneutico dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

Il primo tende a valorizzare la ratio sottesa alla previsione del c.d. “blocco” dei licenziamenti e dunque l’esigenza che le conseguenze economiche negative derivanti dalla diffusione della pandemia da Covid-19 non siano “scaricate” sulle spalle dei lavoratori attraverso una soppressione generalizzata dei posti di lavoro da questi occupati. Peraltro, rileva l’estensore, in linea con tale esigenza si pongono le misure di sostegno economico alle imprese simultaneamente varate al divieto di licenziamento per motivi economici/produttivi. Il secondo, invece, fa leva sulla necessità di salvaguardare la ragionevolezza intrinseca della disciplina che sancisce l’anzidetto divieto: se essa, sostiene il Tribunale, esclude i dirigenti dal novero di coloro che – allo stato – possono essere interessati da procedure di licenziamento collettivo, non sarebbe dato comprendere perché gli stessi dirigenti possano invece essere licenziati per giustificato motivo oggettivo, data la sostanziale coincidenza tipologica delle ragioni sottese ad un licenziamento collettivo con quelle sottese ad un licenziamento individuale. In questo senso, afferma il Tribunale, “il riferimento della legge all’art. 3 mira ad identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto; funzione che, se il legislatore avesse inteso perseguire, si sarebbe presumibilmente tradotta in una diversa tecnica normativa (soggettiva e non tipologica)”.

Considerazioni

La conclusione cui è pervenuto il Tribunale, per quanto suggestiva e foriera di significativi spunti di interesse, si pone in netto contrasto con l’inequivocabile lettera della norma, finendo altresì per realizzare un’applicazione estensiva di una norma eccezionale, qual è appunto quella che, ponendo un divieto assoluto di licenziamento, comprime la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost. A questo proposito, è fin troppo noto che l’art. 14 delle Preleggi stabilisce chiaramente che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

Tale caposaldo del diritto viene radicalmente disapplicato, tant’è che il Tribunale, pur in presenza di una chiara ed univoca volontà legislativa, attraverso la valorizzazione della finalità della legge, finisce per attribuire ad essa un significato diverso da quello che appunto risulta in maniera immediata e diretta da un’interpretazione letterale della stessa.  A questo proposito, si rammenta che Cass. n. 5128/2001 ha chiaramente affermato che “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa”.

D’altra parte, e com’è noto, in presenza di un dato letterale inequivoco della disposizione, anche l’interpretazione costituzionalmente orientata non può condurre il giudice a fuoriuscire dal campo semantico disegnato dalla lettera, imponendosi semmai, a questo punto, la prospettazione, da parte sua, della questione di legittimità costituzionale (così, tra le molte altre, Corte Cost. sentenza n. 78/2012). Pertanto, pure l’argomento imperniato sulla ritenuta (ed ove pure sussistente, data l’obiettiva diversità, anche in termini di impatto socio – economico, di un licenziamento collettivo rispetto ad uno individuale) irragionevolezza della differenza di trattamento tra le due ipotesi di fatto da ultimo evocate, avrebbe semmai dovuto essere posto a base di un incidente di costituzionalità, senza potersi risolvere, invece, in una sostanziale riscrittura del testo della disposizione.

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