Via libera al passe sanitarie, equivalente d'Oltralpe del green pass italiano, da parte del Conseil constitutionnel francese (https://www.conseil-constitutionnel.fr/decision/2021/2021824DC.htm).

Il progetto di legge di gestione della crisi sanitaria che lo prevede - adottato il 25 luglio scorso dalla Assemblée Nationale - è stato ritenuto, sul punto, conforme al quadro normativo costituzionale, perché tale da attuare, anche alla luce del circoscritto (allo stato) orizzonte di vigenza temporale dell'obbligo di esibire il passe sanitaire per accedere, tra l'altro, a grandi magazzini, centri commerciali e trasporti pubblici, un adeguato bilanciamento tra libertà di circolazione ed esigenza di tutela della salute.

Grazie alla diversa tecnica di controllo di costituzionalità delle leggi vigente in Francia, dove è possibile anche il controllo, da parte del Conseil, preventivo alla promulgazione della legge, ecco, dunque, già un'indicazione importante ed autorevole circa la legittimità costituzionale del green pass che oggi entrerà in vigore in Italia.

Trib. Roma, sez. Lavoro, sentenza n. 3605/2021: la massima

La temporanea contrazione economica dell’attività produttiva ed il conseguente processo di ridimensionamento dell’organico aziendale adottato dal datore di lavoro per farvi fronte integrano il concetto di “giustificatezza” che rende legittimo il licenziamento del dirigente, categoria legale che non rientra, pertanto, nell’ambito applicativo della misura eccezionale del c.d. “blocco dei licenziamenti”.

La disciplina normativa

Nei termini sopra accennati si è recentemente pronunciato il Tribunale di Roma con la sentenza n. 3605/2021, affermando un principio di diritto esattamente contrario a quello già affermato dal medesimo Tribunale con la precedente ordinanza ex art. 1, comma 49, L. n. 92/2012 del 26 febbraio 2021, anch’essa brevemente annotata su questo sito (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sul-divieto-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative-2/)

La disciplina di legge che ha introdotto nel nostro ordinamento la misura di carattere eccezionale (D.L. n. 18/2020, conv. con modifiche in L. n. 27/2020), comunemente definita con l’espressione “blocco dei licenziamenti”, non indica – perlomeno esplicitamente – a quali categorie di lavoratori essa si applichi, posto che, dall’esordio della disciplina limitativa, il legislatore si è limitato a prevedere che le procedure di licenziamento collettivo non potessero essere avviate per un periodo di sessanta giorni a partire dalla data di entrata in vigore del Decreto Legge (17 marzo 2020), che quelle già avviate alla data del 23 febbraio 2020 restassero sospese per il medesimo periodo di tempo e che non potessero essere intimati licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fino alla scadenza del termine di efficacia di sessanta giorni della predetta misura legislativa. Tuttavia, l’orizzonte temporale della vigenza normativa di tale divieto di licenziamento, così come previsto dall’art. 46 del D.L. n. 18/2020, è stato progressivamente spostato in avanti da Decreti Legge emanati in successione (a cominciare dal D.L. n. 34/2020 e da ultimo dal D.L. n. 41/2021), essendo stato in particolare previsto che restasse precluso l’avvio di procedure di licenziamento collettivo o l’intimazione di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo a tutti quei datori di lavoro che non avessero integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale istituiti specificamente dal legislatore dell’emergenza,oppure nel caso in cui non avessero fatto ricorso all’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali. Del pari, è stata fin dal principio preclusa, e resta tutt’ora vigente la relativa previsione, l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dato lavoratore nel caso in cui il medesimo non abbia fruito dei peculiari trattamenti di integrazione salariale o dell’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali.

Le soluzioni contrastanti offerte dal Giudice romano.

Si è detto che le disposizioni di legge che regolano il c.d. “blocco dei licenziamenti” non indicano la tipologia di lavoratori cui esso è destinato a trovare applicazione. Ci si è allora chiesti se essa proteggesse, o meno, anche la stabilità del rapporto lavorativo dirigenziale.

Nel febbraio 2021, con un’ordinanza emessa a definizione della fase sommaria di un giudizio di licenziamento, il Tribunale di Roma ha ritenuto che il rapporto lavorativo dirigenziale dovesse ricondursi nel novero dei rapporti di lavoro subordinato la cui stabilità è “protetta” dal c.d. blocco dei licenziamenti.

In primo luogo perché tale inclusione sarebbe in un certo senso imposta dalla ratio ispiratrice della misura legislativa di carattere eccezionale del c.d. blocco dei licenziamenti, così come individuabile nella necessità “di evitare che le pressocché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata dei posti di lavoro”. In secondo luogo perché, pur riconoscendo il Tribunale che il c.d. “blocco dei licenziamenti” fa esplicito riferimento al recesso per giustificato motivo oggettivo, una causale di recesso che notoriamente non si applica al licenziamento del dirigente, l’inclusione della categoria dei dirigenti nel novero di quelle protette dalla misura di legge di cui si sta discorrendo si giustificherebbe in ragione della necessità di salvaguardare la “razionalità intrinseca” della normativa in analisi. Infatti, ha rilevato il Tribunale di Roma con l’ordinanza del febbraio 2021, se i dirigenti non possono essere legittimamente coinvolti in misure di licenziamento collettivo, non sarebbe ragionevole ritenere che, al contempo, essi possano essere licenziati individualmente per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di esso. In sintesi, muovendo dal rilievo della sostanziale coincidenza tipologica delle ragioni sottese ad un licenziamento collettivo con quelle sottese ad un licenziamento individuale “di tipo oggettivo” e facendo leva sul fatto – pacifico – che i dirigenti non possano essere (allo stato) coinvolti in procedure collettive di riduzione del personale, il Tribunale, ravvisandone la contrarietà con una disciplina di carattere imperativo, quale quella che ha introdotto e disciplinato il c.d. “blocco dei licenziamenti” , ha concluso per la nullità del licenziamento intimato al dirigente per ragioni inerenti l’attività produttiva o l’organizzazione del lavoro, non ritenendo necessario o utile stabilire se esse integrassero o meno il concetto di “giustificatezza” del recesso.

Viceversa, con la sentenza n. 3605/2021 che qui brevemente si commenta, il Tribunale di Roma ha escluso che la figura del dirigente rientri nel novero di quei dipendenti la cui stabilità è protetta in misura straordinaria ed eccezionale dal c.d. “blocco dei licenziamenti”. Anche in questo caso, tuttavia, il Tribunale di Roma è giunto a tale conclusione – che dunque è esattamente opposta a quella già raggiunta nel febbraio 2021 – per due ordini di ragioni.

La prima ragione si fonda sul tenore letterale della disciplina di legge, e quindi sul dato oggettivo costituito dal riferimento esplicito ai licenziamenti individuali intimati per giustificato motivo, tipologia di licenziamenti che, come noto e come già accennato, non si applica al recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale.

Il secondo motivo che ha indotto il Tribunale di Roma ad escludere il rapporto di lavoro dirigenziale dal novero dei rapporti lavorativi la cui stabilità occupazionale è eccezionalmente protetta dal legislatore dell’emergenza si fonda, invece, sulla ratio della disciplina normativa qui in esame, individuata tuttavia in maniera difforme da quanto già ravvisato e valorizzato dal Tribunale di Roma nel precedente pronunciamento. Infatti, se, come detto, con l’ordinanza del febbraio 2021 il Tribunale ha ritenuto che la necessità “di evitare che le pressocché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata dei posti di lavoro” dovesse tradursi in una protezione diffusa della stabilità dei rapporti lavorativi, tra cui quello dirigenziale, stavolta, invece, per giungere alla conclusione opposta, il Tribunale di Roma ha valorizzato il parallelismo normativamente sancito tra il (presunto) ambito applicativo del c.d. blocco dei licenziamenti, così come desumibile dalla lettera delle disposizioni di legge che lo prevedono, e il recente ampliamento del novero delle aziende che, in deroga agli ordinari requisiti dimensionali, possono beneficiare degli ammortizzatori sociali.

In altri termini, il Tribunale di Roma, da ultimo, muove dalla considerazione per cui il legislatore dell’emergenza, da un lato, ha introdotto il c.d. blocco dei licenziamenti – misura di carattere straordinario, posto che, impedendo appunto il licenziamento del lavoratore o dei lavoratori in una situazione di oggettiva difficoltà economica dell’impresa, limita fortemente la libertà di iniziativa economica privata del datore di lavoro –, dall’altro, ha allargato la platea delle imprese abilitate a fare ricorso alla cassa integrazione guadagni, ricomprendendovi – in via parimenti straordinaria – anche quelle di minori dimensioni che solitamente vi sono escluse. Pertanto, la “chiara ed evidente simmetria tra il blocco dei licenziamenti e soccorso della collettività generale (attraverso gli ammortizzatori sociali)” è la chiave di volta che consente di delimitare i contorni dell’ambito applicativo del c.d. “blocco dei licenziamenti”: infatti, poiché è pacifico che i dirigenti non possano fruire degli strumenti di sostegno del reddito quale la cassa integrazione guadagni, allora deve ritenersi altrettanto pacifico che possano essere oggetto di licenziamento e non rientrino quindi nel novero dei lavoratori la cui stabilità è protetta dal c.d. “blocco dei licenziamenti”, poiché, afferma il Tribunale, se così non fosse, “della categoria dei dirigenti dovrebbe necessariamente farsene carico il datore di lavoro, pur in presenza di motivi tali da configurare un’ipotesi di giustificatezza del recesso. E ciò potrebbe determinare un profilo di incoerenza costituzionale tra estensione del blocco dei licenziamenti e principio di libertà economica”.

Considerazioni

La conclusione cui è pervenuto il Tribunale con la sentenza n. 3605/2021 ha innanzi tutto il pregio di basarsi su di un’interpretazione letterale della norma, così dando concreta applicazione al consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa” (in questi termini, Cass. n. 5128/2001).

Per di più, ove si volesse ritenere che la lettera della disposizione non sia sufficientemente chiara nello stabilire se la categoria dei dirigenti debba o meno rientrare nel novero di quelle protette dal c.d. “blocco dei licenziamenti”, è indubbio che il legislatore dell’emergenza abbia effettivamente sancito un indissolubile legame tra divieto di recesso per ragioni oggettive e ampliamento della platea dei soggetti che possono beneficiare dei trattamenti di sostegno del reddito attraverso una temporanea sospensione del rapporto di lavoro. Ed allora è parimenti indubbia la ragionevolezza e l’equilibrio di cui è espressone una decisione, quale quella che qui è oggetto di commento,  che ritenga che alla mancata possibilità per il datore di ricorrere a tali strumenti di sostegno del reddito per una determinata categoria di lavoratori, quale appunto quella dei dirigenti, debba fare da pendant la possibilità per il medesimo datore di lavoro di sciogliersi dal vincolo contrattuale, ovviamente allorquando ricorrano ragioni di carattere oggettivo che siano effettive non meramente pretestuose ed arbitrarie. Tale assetto normativo parrebbe peraltro realizzare un’equa ed efficiente ripartizione dei costi sociali ed economici correlati alla diffusa contrazione economica causata dalla pandemia ancora in atto, ponendo a carico della fiscalità generale gli strumenti di sostegno del reddito di cui beneficia la stragrande maggioranza dei lavoratori ed evitando che i costi di quei lavoratori che invece non possono beneficiare di tali strumenti di sostegno debbano essere sopportati, in ultima istanza, esclusivamente dalle imprese.

Le indennità corrisposte dal datore in ragione del trasferimento del lavoratore possono essere recuperate nei confronti di coloro che, successivamente alla dichiarazione dello stato emergenziale legato alla diffusione del virus SarsCovid-19, abbiano scelto di lavorare con modalità di lavoro agile?

La questione viene affrontata in via generale e con riferimento al caso del rapporto lavorativo disciplinato dal CCNL Credito.

Senza ombra di dubbio, uno degli aspetti della vita quotidiana degli individui su cui la diffusione del virus Covid-19 ha più inciso è quello relativo alla vita lavorativa. Se, a livello etico, prima ancora che giuridico, grava sul singolo la responsabilità di evitare occasioni che possano agevolare la diffusione del contagio, ad un livello produttivo/professionale i datori di lavoro si sono trovati a dover fronteggiare le problematiche connesse alla sopravvenuta, parziale inidoneità degli spazi lavorativi di uso comune. Infatti, come purtroppo noto, tante più persone sono presenti contemporaneamente in un dato ambiente, quale potrebbe essere appunto un qualsiasi ufficio, tanto più elevato è il rischio di contagio da Covid-19.

Ecco allora che l’adozione generalizzata della modalità lavorativa, c.d. di lavoro agile, è divenuta una soluzione possibile – se non addirittura, in alcune ipotesi, necessitata – per fronteggiare le problematiche relative al sopravvenuto sovraffollamento degli ambienti lavorativi destinati ad uso comune.

La disciplina di legge che regola tale peculiare modalità di svolgimento della lavorativa – dettata agli artt. 18-24 L. n. 81/2017 – prevede che essa non possa essere imposta unilateralmente dal datore di lavoro, ma possa adottarsi solo a seguito e per l’effetto del raggiungimento di un accordo tra le due parti del rapporto di lavoro. Tuttavia, fin dal D.P.C.M. n. 52/2020 del 1° marzo 2020, proprio al fine di contenere quanto più possibile la diffusione del contagio da Sars-Covid19, è stato normativamente previsto che la modalità di lavoro agile potesse essere adottata “anche in assenza degli accordi individuali” previsti dalla L. n. 81/2017. Peraltro, al fine di agevolare l’adozione diffusa di tale peculiare modalità lavorativa, è stata altresì introdotta una facilitazione in punto di assolvimento degli obblighi di comunicazione che devono necessariamente precederne l’adozione con riferimento al singolo rapporto lavorativo. Con il perdurare dell’emergenza sanitaria, inoltre, la possibilità di “collocare” il lavoratore in modalità di lavoro agile prescindendo dal consenso del medesimo è stata poi prevista dal D.L. n. 34/2020, convertito con modificazioni in L. n. 77/2020 e, da ultimo, dal D.L. n. 183/2020, convertito con modificazioni in L. n. 21/2021.

Fine ultimo di questo breve contributo non è quello di descrivere le caratteristiche del c.d. smart working, ma quello di individuare la più corretta soluzione giuridica al quesito se le indennità corrisposte dal datore di lavoro in ragione del trasferimento del lavoratore possano o meno essere recuperate nei confronti di tutti quei lavoratori che, successivamente alla dichiarazione dello stato emergenziale legato alla diffusione del virus SarsCovid-19, abbiano espletato la prestazione lavorativa con modalità di lavoro agile.

Si può subito premettere che, nel caso in cui la prestazione lavorativa sia resa con la modalità di lavoro agile – e quindi “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa” (art. 18 L. n. 81/2017) – viene meno il motivo fondante l’erogazione delle indennità accessorie, riconosciute proprio in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa in una “sede” lavorativa diversa da quella cui il lavoratore era precedentemente assegnato. Quindi, trattandosi di indennità (appunto accessorie al trattamento retributivo relativo ad una data qualifica contrattuale) che vengono riconosciute ai dipendenti in ragione della maggiore gravosità della prestazione lavorativa allorquando questa è resa lontano dalla propria pregressa sede lavorativa, la circostanza che la suddetta maggiore gravosità, appunto per effetto del c.d. smart working, sia venuta temporaneamente meno, legittima la temporanea mancata erogazione (o il successivo recupero) delle anzidette indennità da parte del datore di lavoro. Si tratta, infatti, di voci del trattamento economico del lavoratore che si pongono in uno stretto rapporto causale con le peculiari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che sono destinate a compensare.

In sostanza, si può ritenere che per effetto dello smart working sia temporaneamente venuta meno la causa delle attribuzioni patrimoniali riconosciute ai lavoratori, là dove la causa è intesa come giustificazione giuridica delle stesse, di modo che l’erogazione di tali indennità, originariamente giustificata, diviene successivamente ingiustificata.

E la validità di tale prima conclusione è tale, sia nel caso in cui questa  modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, in ossequio a quanto disposto dall’art. 18 L. n. 81/2017, scaturisca da un accordo delle parti, sia nel caso in cui la modalità di lavoro smart working sia stata, per così dire, “imposta” unilateralmente dal datore di lavoro per effetto delle disposizioni di legge che, nel periodo di maggiore gravità dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, come visto, glielo consentono.

Nel primo caso, infatti, l’esistenza di una manifestazione di volontà del lavoratore il cui effetto primario e principale è quello di consentire lo svolgimento della prestazione lavorativa “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” (art. 18 L. n. 81/2017), consente ragionevolmente di ritenere che tale manifestazione di volontà si estenda anche alla volontà del lavoratore di “evitare” la maggiore gravosità della prestazione lavorativa resa in una sede lontana dalla pregressa sede lavorativa. E’ ragionevole dunque ritenere che il “lavoratore agile” implicitamente esprima la volontà di rinunciare alla percezione di quelle indennità che appunto trovavano la loro giustificazione fondante nella maggiore gravosità della prestazione lavorativa resa in una sede lavorativa lontana da quella cui egli era precedentemente assegnato;caratteristica della prestazione, quest’ultima, che per effetto della scelta consapevole di lavorare “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” è tuttavia venuta meno in maniera consapevole.

Nel secondo caso, ovvero nell’ipotesi di lavoro agile “imposto” ai lavoratori durante il c.d. periodo di lockdown, o durante un periodo in cui per effetto di un provvedimento dell’Autorità è fortemente limitata la circolazione degli individui, si potrebbe ritenere che per il lavoratore agile ricorra un’ipotesi di “impossibilità parziale” della prestazione principale, là dove la parte di prestazione divenuta impossibile è da individuarsi nello svolgimento della prestazione lavorativa nella sede lavorativa lontana da quella cui era precedentemente assegnato. Ed allora, applicando alla suddetta fattispecie concreta le regole codicistiche, ed in particolare quelle di cui agli art. 1258 c.c. e 1464 c.c., da un lato, ed in ossequio alla disciplina di cui all’art. 1258 c.c., il lavoratore si libererebbe dell’obbligazione principale (cioè dell’obbligazione lavorativa) “eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile”, e dunque lavorando con modalità di lavoro agile, conseguendo così il diritto alla retribuzione (che si pone in rapporto di corrispettività con lo svolgimento della sola prestazione lavorativa) ma non anche il diritto alla percezione delle indennità accessorie (che invece abbiamo visto essere in rapporto di corrispettività con quelle peculiari e gravose modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che però sono divenute impossibili). Dall’altro lato del rapporto obbligatorio ed in ossequio a quanto previsto dall’art. 1464 c.c., si può poi coerentemente ritenere che, a fronte della impossibilità parziale della prestazione lavorativa, il datore di lavoro abbia diritto “ad una corrispondente riduzione della prestazione” dovuta, e dunque il diritto a corrispondere al lavoratore la sola retribuzione (che è appunto correlata allo svolgimento della prestazione lavorativa con modalità di smart working) ma non anche le indennità accessorie.

Passando poi ad esaminare la questione sul piano dello specifico rapporto lavorativo disciplinato dal CCNL del credito, la condivisibilità della soluzione più sopra raggiunta in via generale, vale a dire in applicazione dei principi codicistici, sembrerebbe esser stata riconosciuta anche dalle Organizzazioni Sindacali.

Infatti, nel settore bancario, da un lato, è stato decisamente massivo il ricorso allo strumento del c.d. “lavoro agile” nel periodo più emergenziale di contrasto alla diffusione del virus Sars-Covid 19, dall’altro, la regolamentazione collettiva sembrerebbe aver condiviso il giudizio in merito alla sussistenza di un nesso di stretta corrispettività tra l’erogazione delle indennità accessorie ed un determinato e peculiare svolgimento della prestazione lavorativa.

E così, quanto al frequente ricorso alla peculiare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa di cui si sta discorrendo, nel Protocollo sottoscritto da ABI e FABI − FIRST-CISL − FISAC-CGIL – UILCA − UNISIN FALCRI-SILCEA-SINFUB in data 16 marzo 2020 è dato leggere che “in coerenza con i provvedimenti del Governo, l’ampio e diffuso ricorso al lavoro agile viene favorito quale efficace misura per la significativa riduzione delle occasioni di contatto all’interno dei luoghi di lavoro”; analogamente, nel Protocollo Condiviso sottoscritto dalle medesime OO.SS. del 28 aprile 2020 è dato leggere che “l’ampio e diffuso ricorso al lavoro agile continua – in questa straordinaria contingenza - a costituire un utile e modulabile strumento di prevenzione, idoneo a concorrere al contenimento del numero di presenze in contemporanea nei luoghi di lavoro, riducendo significativamente le occasioni di contatto all’interno dei luoghi stessi e favorendo il distanziamento interpersonale”.

Del pari, per quel che attiene al giudizio in merito alla sussistenza di un nesso di corrispettività tra diritto del lavoratore agile alla percezione delle indennità accessorie ed effettiva sussistenza di caratteristiche gravose di svolgimento della prestazione lavorativa, l’art. 11 CCNL Credito del 19 dicembre 2019, sotto la rubrica “diritti e doveri”, prevede che in caso di svolgimento del lavoro agile il buono pasto venga riconosciuto al lavoratore solo in quelle giornate “in cui l’attività lavorativa in modo agile è prestata presso altra sede/hub aziendale”, così appunto sancendo un principio (che potrebbe ritenersi applicabile analogicamente anche alle indennità di cui qui si discute) per cui il presupposto dell’indennità è la sussistenza di una modalità gravosa di svolgimento della prestazione lavorativa.

Per concludere, se, come si è avuto modo di anticipare, tali indennità – in astratto – possono essere oggetto di recupero da parte del datore di lavoro, tuttavia, nel concreto, affinché il recupero sia legittimo e quanto più possibile al riparo da future contestazioni, è necessario che esso abbia ad oggetto singole indennità, del rapporto di corrispettività delle quali con le modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa non sia dato dubitare. In quest’ottica, per fare un esempio, sarebbe da escludere la legittimità del recupero che riguardasse l’indennità una tantum di trasferimento eventualmente corrisposta dal datore in occasione della modifica della sede lavorativa, dato che il predetto trasferimento non viene meno per la sola decisione del lavoratore di rendere la prestazione lavorativa con modalità di lavoro agile.

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