La Corte di Appello di Cagliari, con ordinanza del 24 gennaio 2025 ha rinviato alla CGUE la questione della nullità dei contratti di finanziamento indicizzati ai tassi Euribor illecitamente alterato da un accordo restrittivo della concorrenza.
La vicenda processuale trae origine dalla domanda di nullità della clausola di un contratto di mutuo fondiario a tasso variabile contenente la determinazione del tasso di interesse corrispettivo mediante rinvio al parametro Euribor.
Rigettata la domanda in primo grado, in sede di gravame l’appellante ha sollecitato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, affinché stabilisca se la manipolazione del parametro Euribor per effetto di un accordo restrittivo della concorrenza, accertato dalla Commissione Antitrust, comporti la nullità della clausola del contratto di finanziamento che la recepisce.
L’ordinanza in commento muove dalla definizione dell’Euribor, quale “tasso elaborato sulla media delle quotazioni segnalate per operazioni interbancarie da un gruppo di banche europee (EBF, oggi EMMi)”. Si tratta cioè di un “tasso medio ricavato dalle stime ritenute applicabili in impieghi a breve termine da un primario istituto europeo nei confronti di altro istituto primario, privo di riferimento a specifiche transazioni”.
Con decisioni del 4 dicembre 2013, C-851/2013, e del 7 dicembre 2016, C-8530/2016, la Commissione Antitrust Europea ha accertato un’infrazione unica e continuata nella condotta di alcune banche appartenenti al panel per aver partecipato a un cartello finalizzato ad alterare il procedimento di fissazione del prezzo di alcuni componenti dei derivati e, quindi, il rendimento medio Euribor, pubblicato nel periodo intercorrente tra il 29 settembre 2005 e il 30 maggio 2008, allo scopo di conseguire profitti nel mercato.
Con sentenza del 12 gennaio 2023, C-883/19, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha definitivamente confermato la qualificazione delle condotte censurate alla stregua di una restrizione della concorrenza.
Nell’ambito della giurisprudenza interna si è aperto un dibattito attenente alla questione se dalla nullità dell’intesa anticoncorrenziale discenda la nullità dei parametri manipolati e quindi la nullità della clausola contrattuale che li recepisca.
Richiamato il panorama giurisprudenziale di riferimento, la Corte di Cagliari così delimita la portata della questione che l’appellante ha chiesto rimettersi alla CGUE: se l’art. 101 TFUE, laddove prevede che “gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto”, riferisca la nullità esclusivamente l’intesa anticoncorrenziale “a monte” ovvero anche alla clausola del contratto che richiami l’Euirbor per la determinazione del tasso d’interesse variabile, nel periodo oggetto di manipolazione, a prescindere dal fatto che la banca mutuante avesse o meno partecipato all’intesa illecita.
La Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, con ordinanza del 13 dicembre 2023, n. 34889 ha stabilito che “qualsiasi forma di distorsione della concorrenza del mercato, in qualunque forma venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell'accertamento della violazione dell'art. 2 legge antitrust. La decisione della Commissione Europea del 4 dicembre 2013, sanzionatoria della condotta di manipolazione dell'Euribor, deve essere considerata «prova privilegiata», a supporto della domanda di nullità dei tassi, a prescindere se la Banca mutuante abbia o meno preso parte all'intesa anticoncorrenziale”. Ha quindi aggiunto che “Il valore di prova privilegiata prescinde dalla circostanza che all'intesa illecita abbia o meno partecipato la banca finanziatrice, poiché oggetto del divieto di cui all' art. 2 della l. n. 287/1990 è qualunque contratto o negozio a valle che costituisca applicazione delle intese illecite concluse a monte.”
La successiva sentenza della stessa Terza Sezione, Cass., 3 maggio 2024, n. 12007, ha ritenuto che “Nel caso di contratti di mutuo contenenti clausole che, per determinare la misura del tasso di interesse, facciano riferimento all'Euribor, stipulati con istituti estranei alle intese e alle pratiche anticoncorrenziali censurate dalla Commissione Europea, deve essere esclusa la sussistenza di nullità, salvo la prova della conoscenza di tali accordi illeciti e dell'intento di conformarvi oggettivamente il regolamento contrattuale. Per ritenere la clausola determinativa degli interessi viziata per impossibilità (anche temporanea) di determinazione dell'oggetto, deve essere fornita compiuta prova della manipolazione del parametro Euribor”.
La Corte di Cassazione, pur riconoscendo la validità della clausola di determinazione degli interessi che faccia riferimento a un parametro esterno, quale l'Euribor, ha puntualizzato che “laddove, però, si accerti che il parametro richiamato sia stato alterato da una attività illecita posta in essere da terzi” il parametro assunto a riferimento dalle parti “non potrebbe ritenersi più in grado di esprimere la effettiva volontà negoziale delle parti stesse, almeno con riguardo alla specifica clausola che prevede il richiamo al parametro in questione, per tutto il tempo in cui l'alterazione del meccanismo esterno di determinazione del corrispettivo dell'operazione ha prodotto i suoi effetti”.
Con ordinanza interlocutoria del 19 luglio 2024, n. 19900 (commentata sul nostro sito, con nota di Camilla Maranzano, Euribor manipolato e rimessione alle Sezioni Unite) la Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, ha ritenuto opportuno rimettere la causa alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, al fine di dirimere le seguenti questioni di diritto:
-“se il contratto di mutuo contenente la clausola di determinazione degli interessi parametrata all’indice Euribor costituisca un negozio «a valle» rispetto all’intesa restrittiva della concorrenza accertata, per il periodo dal 29 settembre 2005 al 30 maggio 2008, dalla Commissione dell’Unione Europea con decisioni del 4 dicembre 2013 e del 7 dicembre 2016, o se, invece, indipendentemente dalla partecipazione del mutuante a siffatta intesa o dalla sua conoscenza dell’esistenza di tale intesa e dell’intenzione di avvalersi del relativo risultato, tale non sia, mancando il collegamento funzionale tra i due atti, necessario per poter ritenere che il contratto di mutuo costituisca lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”;
- “se la alterazione dell’Euribor a causa di fatti illeciti posti in essere da terzi rappresenti una causa di nullità della clausola di determinazione degli interessi di un contratto di mutuo parametrata su tale indice per indeterminabilità dell’oggetto o piuttosto costituisca un elemento astrattamente idoneo ad assumere rilevanza solo nell’ambito del processo di formazione della volontà delle parti, laddove idoneo a determinare nei contraenti una falsa rappresentazione della realtà, ovvero quale fatto produttivo di danni”.
In tale provvedimento la Corte si esprime in senso critico rispetto alle considerazioni fatte proprie dalle pronunce della Terza Sezione, da ultimo richiamate, osservando che:
Conseguentemente, i singoli contratti di mutuo “non possono considerarsi "a valle" rispetto all'intesa illecita, tantomeno nell'ipotesi in cui il mutuante sia estraneo all'intesa anticoncorrenziale, non costituendone lo sbocco, né risultando essenziali a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Essi, dunque, non costituiscono il mezzo di violazione della normativa antitrust, in quanto, come osservato, l'intesa illecita concerneva il mercato degli "EIRD", e ciò a prescindere da ogni considerazione in ordine alla conoscenza dell'esistenza dell'intesa illecita e/o dall'intenzione di avvalersi del relativo risultato oggettivo”.
Così ricostruito il panorama giurisprudenziale di riferimento la Corte d’Appello di Cagliari ha ritenuto necessario chiarire se “alla luce del disposto dell’art. 16, comma 1, Reg. CE n. 1/2003, la prova delle manipolazioni dell’EURIBOR, sì come accertate nelle decisioni della Commissione Antitrust Europea e nella sentenza della CGUE C-883/19, debba ritenersi definitivamente raggiunta anche per le giurisdizioni nazionali e se la restrizione della concorrenza costituisca intesa vietata dall’art. 101 TFUE soltanto nel mercato dei derivati o, per converso, in qualunque altro segmento sia stato impiegato il parametro EURIBOR manipolato”.
A giudizio del collegio cagliaritano sarebbe “contraddittorio” ipotizzare che “i dati forniti per la determinazione dell’EURIBOR, nel periodo dell’accertata manipolazione, possano essere utilmente richiamati in qualsiasi mercato, tra cui quello dei mutui a tasso variabile. Ritenere, difatti, che il secondo comma dell’art. 101 TFUE abbia a oggetto soltanto la censura della pratica anticoncorrenziale e non produca, al contempo, effetti a cascata sui rapporti negoziali che li recepiscono, svilirebbe la portata deterrente e ridurrebbe il divieto a mero precetto astratto”. Non resta quindi che attendere che la CGUE si pronunci, potendosi pronosticare che le Sezioni Unite, investite della medesima questione, sospenderanno la loro valutazione.
La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno nonché di diritto europeo sicché non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.
Ne consegue che la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico.
Questo il principio affermato dalla Cassazione, Sezione Lavoro, nella ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025.
La vicenda trae origine dalla domanda di nullità, per discriminatorietà, del licenziamento, giustificato dalla soppressione del posto di lavoro, proposta da una lavoratrice affetta da handicap grave.
I giudici del merito avevano rigettato la domanda proposta dalla lavoratrice, escludendo la natura ritorsiva del licenziamento, a seguito dell'accertamento dell'esistenza di una ragione di natura organizzativa posta a base del provvedimento datoriale. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno poi ritenuto non allegate circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l'intimato licenziamento sotto.
L’ordinanza in esame – dato per acquisito che lo stato di salute della ricorrente integrasse la nozione eurounitaria di disabilità di cui alla direttiva 2000/78/Ce - muove dalla ricognizione della disciplina diretta a garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
In particolare, si rammenta la distinzione tra discriminazione diretta e indiretta tracciata dall’art. 2 D.Lgs. 216/03, a norma del quale, si ha:
“a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.
La Corte riconduce alla nozione di discriminazione per handicap, “il trattamento pregiudizievole posto in essere da un datore di lavoro verso un lavoratore in ragione del fattore di rischio di cui egli sia portatore”. Aggiunge quindi che “il concetto di discriminazione comporta la lesione del principio di parità affermato dall'art. 1 del D.Lgs. 216/2003, perché determina sempre una differenza fra il trattamento svantaggioso che è stato riservato al lavoratore ed il trattamento che gli sarebbe stato riservato se la sua qualità personale, considerata dalla legge come un fattore discriminatorio, non avesse inciso oggettivamente sulla scelta sottesa all'atto datoriale”.
Fatta questa premessa, l’ordinanza rammenta che la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla sentenza n. 6575 del 5 aprile 2016 è consolidata nell’affermare che “La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della L. n. 604 del 1966, l'art. 15 st.lav. e l'art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico” (ancora di recente, negli stessi termini, Cass. n 13934 del 24).
L’ordinanza in esame ritiene di dover dare continuità a questo orientamento, per l’effetto accogliendo il primo motivo di ricorso, che censurava la sentenza d’appello per avere affermato che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell'esistenza dell'elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio.
La Corte passa poi all’esame del secondo motivo di ricorso, con cui era censurata la decisione d’appello per avere erroneamente ritenuto che l'atto discriminatorio non possa consistere nell'atto di licenziamento.
Sul punto, il Supremo Collegio osserva che, a fronte della deduzione che il licenziamento era stato comminato esclusivamente in ragione della disabilità della lavoratrice, il datore non aveva offerto alcuna giustificazione sul perché la scelta del manager da licenziare fosse caduta sulla ricorrente (tra le diverse posizioni di lavoro interscambiabili), pur essendo ella l'unica disabile tra i manager aziendali.
La Corte imputa inoltre alla sentenza di merito di non aver valutato, né valorizzato ai fini della natura illecita del licenziamento, la presenza di atti di discriminazione, accertati in giudizio, commessi subito dopo la comparsa della malattia e fino a poco tempo prima del licenziamento, pur essendo stati gli stessi posti a fondamento della condanna risarcitoria disposta nei confronti del datore di lavoro.
Va infatti considerato che, a norma dell'art. 2 D.Lgs. 216/2003, “sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo"
Sviluppando questi rilievi la Corte ritiene accoglibile anche il terzo motivo di ricorso, che imputava alla sentenza d’appello di avere disatteso i principi in materia di riparto dell’onere probatorio, affermando che la lavoratrice non avesse allegato circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l'intimato licenziamento.
L’ordinanza richiama il punto 4 dell'art. 28 del D.Lgs. 150/2011, a norma del quale “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.
La Corte d’appello - avendo spostato tutto l'onere di allegazione e prova a carico della lavoratrice - ha disatteso la regola di giudizio speciale desumibile dalla norma appena citata su cui la Cassazione ha affermato che “in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006, l'art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto all'art. 2729 c.c.) realizza un'agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell'onere della prova: l'attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell'incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere” (v. Cass. n. 9870 del 28 marzo 2022).
L’ordinanza, dunque, ribadisce che è “il datore di lavoro convenuto a dover dimostrare che il fatto non esista ovvero le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione”.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 33984 del 23 dicembre 2024, è tornata ad occuparsi della responsabilità del produttore farmaceutico per i danni derivanti dall’utilizzo del farmaco.
La vicenda processuale è originata dalla domanda di risarcimento dal danno patrimoniale e non patrimoniale causato dalla produzione e messa in commercio di una pasta dentaria da cui sarebbe derivata una grave patologia neurologica.
I giudici del merito avevano escluso la sussistenza di una responsabilità in capo alla azienda farmaceutica sia da prodotto difettoso che ex art. 2043 c.c., ritenendo che la pasta dentaria non fosse un presidio medico e comunque accertando che la stessa non fosse difettosa, riconducendo invece il danno alla condotta imprudente della utilizzatrice.
La Corte esclude, innanzi tutto, che l'attività di produzione di farmaci sia riconducibile alla disciplina della responsabilità per danni da prodotto difettoso.
In particolare, l’ordinanza muove dal dato normativo dell’art. 1 D.Lgs. 24 aprile 2006, n. 219 che definisce il medicinale come “ogni sostanza (o associazione di sostanze) che presenta proprietà curative o profilattiche delle malattie umane o che viene utilizzata con mera finalità di diagnosi”. Da tale dato normativo la Cassazione trae il corollario che il medicinale “non è un bene voluttuario, venendo di norma utilizzato a seguito di indicazioni promananti da figure professionali terze rispetto al produttore e al distributore, e, soprattutto, è ad esso connaturale un potenziale effetto "collaterale" pregiudizievole per la salute degli utenti, il quale, una volta materializzatosi, diviene causa del danno”.
Le perplessità evocate dall’ordinanza in commento sono alla base dell'orientamento giurisprudenziale (Cass., 7 marzo 2019, n. 6587) in base al quale la produzione del medicinale va qualificata come attività pericolosa, in tal modo innalzandosi la protezione del consumatore-utilizzatore del prodotto medicale in forza del principio di precauzione, “l'impresa farmaceutica essendo ritenuta responsabile anche qualora la causa della pericolosità del farmaco sia ignota ovvero quando la scienza, pur provando la correlazione tra l'assunzione del farmaco e il danno potenziale, non sia in grado di affermare con certezza se e in che misura l'organismo del paziente abbia inciso sulla manifestazione dell'effetto collaterale”.
Tale conclusione si fonda sulla distinzione tra prodotto pericoloso e prodotto difettoso, sottolineando che:
Da tale premessa possono trarsi poi i seguenti corollari:
Pertanto, “il fatto che l'agente abbia osservato una norma cautelare esclude, di norma, la sua colpa specifica, ma tanto non esime dal verificare la sussistenza di una sua colpa generica”.
Nel caso di specie la parte attrice aveva fondato la responsabilità del produttore sul difetto o l’insufficienza di informazioni, date dal produttore, per evitare i rischi connessi all’uso del prodotto.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, “detta informazione, sia quella tratta dalla presentazione del prodotto e dalle sue caratteristiche palesi, sia quella fornita dal produttore con istruzioni e avvertenze aggiuntive, ha un contenuto inversamente proporzionale alle ragionevoli attese di sicurezza del bene e deve essere contemperata con l'uso ragionevole del prodotto” (v. Cass. 15/03/2007, n. 6007).
Rileva la Corte che “il giudice è tenuto a mettere a confronto le condotte delle parti in causa per valutare se il danno poteva essere più facilmente (cioè con minor sacrificio) evitato dalla vittima o dal produttore, alla luce delle informazioni di cui ciascuno dei due poteva disporre nel momento in cui ha agito”.
Tale valutazione deve tenere conto che:
L’ordinanza, quindi, richiama due recenti precedenti di legittimità:
Nello stesso senso di è espressa ancora di recente la Cassazione, nella sentenza n. 6587 del 7 marzo 2019, secondo cui “ai fini dello scrutinio in ordine alla sussistenza della prova liberatoria di cui all'art. 2050 c.c. (e cioè la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno), è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco (questione nella fattispecie, non controversa); dall'altro l'adeguatezza della segnalazione dell'effetto indesiderato, dovendosi solo per completezza qui precisare che non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell'esercente, essendo invece necessario che l'impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori”.
Applicando tali principi al caso di specie la Corte conclude che “le informazioni contenute nel bugiardino non erano affatto tali da rendere edotta la ricorrente del rischio cui sarebbe andata incontro ove avesse ecceduto nell'uso del prodotto”. Infatti, l'utilizzatore era messo sull'avviso circa il fatto che, ove richiedesse un utilizzo frequente, la protesi potesse essere difettosa, ma non già del rischio che, “continuando ad usare l'adesivo in maniera abnorme rispetto a quella consigliata, avrebbe corso il rischio di subire danni così gravi alla propria salute”.
Applicando il principio secondo cui “il danno subito da colui che si serve di una cosa può essere addebitato al produttore solo se questa è stata usata secondo la destinazione che il produttore poteva ragionevolmente prevedere e se il comportamento tenuto dall'utente (e dal quale il danno è dipeso) era ragionevolmente prevedibile” (Cass., 3/3/2005, n. 4662), la Corte ritiene che “non solo la ricorrente non aveva fatto un uso atipico, ma neppure era stata avvertita del tipo di conseguenze cui sarebbe andata incontro se avesse usato in maniera eccessiva il prodotto, pur essendo detto comportamento ragionevolmente prevedibile”.
Affermata la responsabilità del produttore della pasta dentaria, l’ordinanza in commento cassa la sentenza di merito per avere ritenuto interrotto il nesso causale tra idoneità lesiva del prodotto e danno dal comportamento imprudente della danneggiata. Infatti, il comportamento imprudente dell’utilizzatrice non è stato caratterizzato, a giudizio del Supremo Collegio, né dall’imprevedibilità né dall’eccezionalità.