La questione si pone nei casi in cui, successivamente alla fruizione dell’indennità in questione, il lavoratore abbia ottenuto una sentenza che dichiara illegittimo il licenziamento e ordina al datore di lavoro la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, oppure nel caso in cui venga pronunciata una sentenza che dichiara la nullità del termine apposto contratto di lavoro (con conseguente costituzione ex tunc di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato). In tali ipotesi, la ricostituzione giudiziale del rapporto di lavoro con efficacia retroattiva rende insussistente – dal punto di vista prettamente giuridico – il periodo di disoccupazione involontaria che ha giustificato l’erogazione dell’indennità.
Può pertanto l’I.N.P.S. chiedere la restituzione dell’indennità di disoccupazione sul presupposto che essa, per effetto del successivo pronunciamento giudiziale, sia divenuta un indebito?
Ha preso in esame il predetto quesito l’ordinanza n. 22985 del 21 agosto 2024 con cui la Corte di Cassazione ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della medesima alle Sezioni Unite.
L’occasione è scaturita da un ricorso con cui l’I.N.P.S. ha impugnato una sentenza della Corte di Appello di Perugia che aveva ritenuto illegittima la richiesta dell’Ente previdenziale di restituzione dell’indennità di disoccupazione, che, successivamente alla scadenza del proprio rapporto di lavoro a tempo determinato, un lavoratore aveva percepito in ragione del proprio stato di disoccupazione involontaria. Lavoratore che, peraltro, aveva agito in giudizio, con esiti al medesimo favorevoli, al fine di veder dichiarata la nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro; quest’ultimo aveva pertanto ottenuto una sentenza di accertamento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dal primo rapporto di lavoro a termine.
A fondamento della propria richiesta, l’Ente previdenziale ha sostenuto che, in seguito all’accertamento giurisdizionale, verrebbe meno lo stato di disoccupazione involontaria; inoltre, l’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, L. n. 183/2010, al pagamento della quale il datore è condannato in caso di accertata nullità del termine, sarebbe di per sé idonea a ristorare il pregiudizio subito dal lavoratore nel periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale sia stata ordinata la ricostituzione del rapporto, con il corollario che l’indennità di disoccupazione diverrebbe indebita.
La Corte di Cassazione muove, innanzi tutto, da un riepilogo della disciplina normativa e da una rapida analisi delle proprie pronunce sul tema. Rammenta quindi come sia stato affermato da Cass. 11 giugno 1998 n. 5850 che “l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, proprio dell'atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione stabilita dalla norma, sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento, impugnato dal lavoratore”.
Nella vigenza dell’art. 18 L. n. 300/1970 (nella versione anteriore alla riforma apportata dalla L. n. 92/2012), è stato altresì affermato (Cass. n. 18/10/2022 n. 30553) che l’indennità di disoccupazione spetti al lavoratore illegittimamente licenziato che, nonostante l’ordine di reintegrazione, non sia stato riammesso in servizio: ciò perché “lo stato di disoccupazione è pur sempre involontario, in quanto frutto dell'atto datoriale di risoluzione e non della mancata esecuzione del provvedimento giudiziale e dunque l'erogazione della prestazione previdenziale mantiene la medesima finalità di sostegno al reddito a cui è ordinariamente finalizzata”. Un punto più volte ribadito da diverse pronunce è quello per cui l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore costituisce un diritto e non anche un obbligo, con il corollario per cui la mancata impugnazione del licenziamento non fa venir meno il diritto all’indennità di disoccupazione, posto che “diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che non spetti l'indennità di disoccupazione ogni qual volta il lavoratore ometta di impugnare un licenziamento che pur si presenti manifestamente illegittimo oppure ogni qual volta transiga la lite prima ancora della (possibile) sentenza di reintegra”.
E’ stato quindi precisato, più chiaramente, che il diritto alla ripetizione dell’indennità di disoccupazione sussista solo nel caso in cui la ricostituzione del rapporto, oltre che giuridica, sia stata anche economica, circostanza che non si verifica “nel caso in cui si accerti che la ricostituzione del rapporto non sia mai intervenuta ed il lavoratore non abbia ricevuto le proprie spettanze retributive” (Cass. n. 28295/2019).
E così, recentemente, con l’ordinanza n. 22850 del 21/07/2022 (che si colloca nel solco di quanto sancito da Cass. n. 24950/2021, n. 17793/2020 e n. 28295/201) la Suprema Corte ha ritenuto che, in caso di accertata illegittimità del licenziamento cui sia seguita la reintegrazione nel posto di lavoro, “solo per effetto del ripristino del rapporto l’INPS potrà e dovrà procedere al recupero delle somme indebite non senza ricordare che, se alla pronunzia non segue l'effettiva reintegra anche perché non viene posta in esecuzione la sentenza favorevole, l’erogazione dell’indennità di disoccupazione non diviene indebita”.
Sembrerebbe quindi che, rileva la Corte con l’ordinanza che qui si commenta, il requisito della disoccupazione involontaria potrebbe venir meno per effetto di un sopravvenuto accertamento giudiziale (della nullità del termine o dell’illegittimità del licenziamento) con conseguente diritto dell’Ente previdenziale a ripetere quanto erogato, purché “sia ripristinato lo status di lavoratore occupato sotto tutti i profili, anche quello economico”.
Ribadito dunque il principio per cui l’effettivo ed integrale ripristino – anche economico – del rapporto di lavoro fa venir meno lo stato di disoccupazione involontaria e, per converso, fonda il diritto dell’I.N.P.S. alla ripetizione dell’indennità di disoccupazione, ecco che la Sezione rimettente si confronta con il mutato quadro delle tutele di tipo economico che – a partire dalla Legge n. 183/2010 per il contratto a termine e dalla Legge n. 92/2012 per il licenziamento illegittimo – sono destinate a trovare applicazione, rispettivamente, in caso nullità del termine apposto al contratto di lavoro e in caso di invalidità del licenziamento.
L’innegabile e progressivo ridursi di tali tutele economiche rende necessario chiedersi, ad avviso della Sezione rimettente, se esse siano effettivamente in grado realizzare la finalità di sostegno al reddito a cui è preordinata l’indennità di disoccupazione che, “come ripetutamente affermato da questa Corte, ha natura previdenziale e svolge la funzione di fornire nel periodo di involontaria disoccupazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, in attuazione della previsione dell'art. 38 secondo comma della Costituzione”.
Per questo motivo, ovvero per “la natura intrinsecamente di massima di particolare importanza della questione esposta e il latente contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Corte circa l’interpretazione delle disposizioni sopra richiamate” (riferibile soprattutto a Cass. n. 24645/2023 che per la ripetizione dell’indennità di disoccupazione ritiene sufficiente la sola ricostituzione giuridica del rapporto), la Sezione Lavoro, come accennato, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione dalla medesima alle Sezioni Unite.
Non resta che attendere l’intervento chiarificatore di queste ultime su un tema di notevole rilevanza all’interno del sistema di tutela previdenziale del lavoratore rimasto involontariamente disoccupato.
Con ordinanza del novembre 2023 il Tribunale di Catania ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, D. Lgs. 23/2015, ritenendo che esso sia in contrasto con una pluralità di disposizioni di rango costituzionale. Per quel che riguarda gli aspetti prettamente giuslavoristici, esso è censurato nella parte in cui non prevede che il Giudice possa annullare il licenziamento, e disporre la reintegrazione del lavoratore, nel caso di licenziamento intimato per un fatto per cui il CCNL prevede una sanzione di tipo conservativo. Il giudice rimettente, pertanto, dubita della legittimità costituzionale di una disciplina che, anche in caso di licenziamenti intimati per fatti aventi modesta rilevanza disciplinare, non idonei a compromettere la fiducia datoriale nell’esattezza dei futuri adempimenti e puniti per questo motivo con una sanzione di tipo conservativo, esclude che il lavoratore possa essere reintegrato nel posto di lavoro. Tale disciplina sarebbe pertanto irragionevole, appunto perché permetterebbe di risolvere il rapporto di lavoro in presenza di addebiti di modesto rilievo disciplinare. Osserva il Tribunale di Catania che “la disposizione censurata provocherebbe uno squilibrio irragionevole ed eccessivo in danno della posizione del lavoratore, che dovrebbe poter esplicare la propria attività lavorativa senza temere ingiuste o dannose ripercussioni, quale è certamente quella di essere espulso dal proprio ambiente lavorativo, pur a fronte di violazioni disciplinari di scarsa entità”.
Ripercorsa rapidamente – ma al contempo esaustivamente – l’evoluzione giurisprudenziale e normativa dell’istituto del licenziamento (fondamentale è il richiamo alla pronuncia n. 204/1982 della stessa Corte Costituzionale), la Consulta, in estrema sintesi, rileva innanzi tutto che un principio fondamentale che governa il licenziamento disciplinare è il principio di proporzionalità di cui all’art. 2106 c.c., che vuole appunto che la sanzione disciplinare, e quindi anche il licenziamento, sia commisurato alla gravità dell’addebito commesso dal lavoratore: “nella fattispecie in esame, non è in discussione l’applicazione di tale principio, né è dubbio che la sua violazione comporti che la causa del recesso datoriale non sia “giusta” (art. 2119 cod. civ.) o che il motivo soggettivo dello stesso non sia “giustificato” (art. 3 della legge n. 604 del 1966): il licenziamento, ove il giudice ritenga il difetto di proporzionalità, è certamente illegittimo”.
Pertanto, osserva la Corte, i profili di legittimità costituzionale di cui il giudice rimettente dubita riguardano unicamente il profilo sanzionatorio del licenziamento disciplinare illegittimo e, segnatamente, il fatto che la reintegrazione non trovi applicazione nel caso in cui il licenziamento sia sproporzionato perché intimato per un addebito di modesta rilevanza disciplinare. Ma, in proposito, “questa Corte ha più volte affermato – e qui ribadisce – che la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (art. 35 Cost.); il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva (sentenza n. 7 del 2024). Questa Corte ha, infatti, sottolineato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenze n. 125 del 2022; n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020)”.
Ribadito in ogni caso che il modello di tutela che il legislatore è costituzionalmente tenuto ad apprestare in caso di licenziamento illegittimo debba essere “adeguato” al fine di consentirgli di avere una effettiva efficacia dissuasiva (che, si osserva incidentalmente, è ontologicamente connaturata a qualsiasi “sanzione”, a prescindere dall’ambito giuridico in cui questa sia destinata a trovare applicazione). Adeguatezza dell’apparato rimediale e sufficiente efficacia dissuasiva del medesimo che, osserva la Consulta, “vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo il più incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020” e che “sono requisiti che questa Corte ha già ritenuto sussistenti in riferimento all’indennità di cui all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia per i licenziamenti individuali (sentenza n. 194 del 2018), che per i licenziamenti collettivi (sentenza n. 7 del 2024), anche in una prospettiva temporale, posto che il fluire del tempo giustifica l’applicazione di un trattamento differenziato a situazioni analoghe quando sia rispettato il canone della ragionevolezza”, anche in considerazione del fatto che, come già osservato con la pronuncia n. 148/1999 “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale”. Pertanto, una volta disancorato – per effetto di quanto sancito con la pronuncia n. 194/2018 – il meccanismo di quantificazione dell’indennità risarcitoria che la ancorava rigidamente alla sola anzianità di servizio, così come originariamente previsto dall’art. 3 D. Lgs. 23/2015, l’apparto rimediale che ne risulta deve ritenersi, da un lato, idoneo a realizzare un equilibrato contemperamento degli interessi in conflitto, dall’altro, “un rimedio con adeguata efficacia deterrente in cui alla funzione riparatoria si affianca quella dissuasiva e sanzionatoria”.
Più delicata è la questione della possibile illegittimità costituzionale della disposizione in parola, per contrasto con l’art. 39 Cost., allorquando essa prevede che la reintegrazione sia esclusa in caso di licenziamento intimato per un fatto per cui la contrattazione collettiva prevede una sanzione conservativa.
Premesso che, “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023)”, la Consulta osserva che ove la legge escludesse l’illegittimità (per sproporzione) di un licenziamento punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa “comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva, il cui ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, è stato più volte riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 53 del 2023, n. 153 del 2021, n. 257 del 2016 e n. 178 del 2015)” e sarebbe pertanto illegittima costituzionalmente.
Tuttavia, un’interpretazione adeguatrice della disposizione in parola se ne consente di escludere l’illegittimità costituzionale impone di equiparare l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, posto che “in tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata”; pertanto, “la mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.
Una recente sentenza (la numero 15957/2024) della Cassazione parrebbe prospettare nuove e più ampie ipotesi di tutela del diritto della salute del lavoratore sul luogo di lavoro. Tale sentenza, a dire il vero, si colloca nel solco già tracciato da Cass. n. 3822/2024, Cass. n. 2084/2024; Cass. n. 2870/2024; Cass. n. 3791/2024; Cass. n. 3856/2024; Cass. n. 4664/2024.
Passando all’analisi della pronuncia, è noto che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’inadempimento da parte del datore di lavoro di tale obbligo è fonte di responsabilità risarcitoria, ovviamente in presenza di un danno alla salute del lavoratore che in giudizio si provi essere sussistente e causalmente collegato con il predetto inadempimento.
Fermo quanto sopra, il mobbing è una fattispecie di creazione giurisprudenziale che ricorre in presenza di una pluralità di condotte persecutorie, o comunque pregiudizievoli per la salute del lavoratore, intenzionalmente e sistematicamente adottate dal datore di lavoro (o dai suoi rappresentanti) ed accomunate dall’intendimento di perseguitare, o di isolare dal contesto lavorativo, il lavoratore che ne è vittima.
Si è soliti distinguere altresì tra mobbing verticale e mobbing orizzontale: il primo ricorre quando le condotte lesive del diritto alla salute sono poste in essere da colui/coloro che, nel contesto organizzativo aziendale, è/sono gerarchicamente sovraordinato/i al lavoratore mobbizzato; il secondo invece ricorre quando le predette condotte sono attuate da colleghi gerarchicamente pari ordinati al lavoratore. In quest’ultimo caso, il datore di lavoro è responsabile in quanto non ha impedito che tali condotte venissero poste in essere in danno del lavoratore.
Pertanto, ed in sintesi, affinché possa configurarsi una fattispecie di mobbing sono necessari un elemento oggettivo (pluralità di condotte lesive adottate persistentemente) e un elemento soggettivo, rappresentato dall’intenzione di nuocere alla salute del lavoratore.
Con la sentenza n. 15957/2024 la Suprema Corte ha chiarito tuttavia che “un ambiente di lavoro stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela al diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.”.
Pertanto, come già chiarito dalla Cassazione con la pronuncia n. 3822/2024 (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ambiente-di-lavoro-stressogeno-puo-essere-fonte-di-responsabilita-risarcitoria-per-il-datore-di-lavoro/), anche nel caso in cui non potessero ravvisarsi gli estremi di una fattispecie di mobbing, il Giudice è tenuto a “valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”, così riproducendo lo schema della responsabilità colposa del datore di lavoro (fonte per il medesimo di obbligo risarcitorio) che ricorre nel caso in cui quest’ultimo abbia colpevolmente tollerato, e quindi non abbia tentato di rimuovere, una condizione di lavoro lesiva della salute del lavoratore (si pensi ad un inquinante diffuso nell’aria dell’ambiente di lavoro). Anche a prescindere dall’intento persecutorio, quindi, il datore di lavoro è comunque “tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità frustrazione personale o professionale” possano arrecare un danno alla salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 18164/.2018 e Cass. 7844/2018).
Come accennato, quindi, si prospettano nuove ipotesi in cui il danno alla salute subito dal lavoratore può assumere rilevanza sul piano risarcitorio.