Nella sentenza n. 26843 del 2020 la Cassazione ha affrontato il tema dell’ammissibilità dei mezzi di prova nel rito del lavoro, affermando che il rigoroso sistema delle preclusioni processuali trovi un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della verità materiale – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa.

Uniformandosi ad un orientamento ormai consolidato in materia (Cass., Sez. Un., n. 10790/2017; Cass., Sez. Un., n. 8202/2005), la Corte ribadisce che il giudizio di indispensabilità della prova implica "una valutazione sull’idoneità del mezzo istruttorio a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi, smentendo o confermando senza lasciare margini di dubbio".

Infine, la Cassazione riconosce la facoltà per il consulente tecnico di acquisire nuovi documenti nel corso delle operazioni peritali. Anche in tale caso i nuovi documenti sono ammessi solo se idonei “sul piano tecnico” a dare riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti. Resta comunque fermo il divieto per il consulente di ricercare aliunde ciò che costituisce materia rimessa all’onere di allegazione e prova delle parti stesse.

Alla ricerca della piena ed effettiva attuazione del disposto dell’art. 24 Cost e la tutela giudiziaria delle posizioni giuridiche attive. Realtà materiale e verità processuale. Orientamenti giurisprudenziali a confronto.

Per poter dare una definizione più corretta e specifica al concetto di indispensabilità del mezzo di prova ai sensi dell’art. 437, co. 2, c.p.c., applicabile al rito del lavoro, è necessario ripercorrere il dibattito giurisprudenziale sorto intorno al concetto analogo di indispensabilità della prova nel sistema previgente alle modifiche operate dal d.l. 83/2012 all’art. 345 c.p.c. [1] ed operante nel giudizio civile.

Con il d.l. 83/2012, art. 54, co. 1, lett. b), conv. in L. 134/2012, il legislatore, eliminando dall’art. 345 c.p.c. l’inciso “indispensabili ai fini della decisione della causa”, ha ridotto l’ambito dei nova in appello limitandone l’ammissibilità ai soli mezzi di prova “che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

È utile ricordare alcuni degli orientamenti giurisprudenziali che hanno maggiormente contribuito alla definizione giuridica di “prova indispensabile” nel sistema previgente alle modifiche all’art. 345 c.p.c. in quanto il medesimo concetto di indispensabilità resta immutato nell’art. 437, co. 2, c.p.c. e nell’art. 702 quater c.p.c.

Prima di passare all’esame dei diversi approcci giurisprudenziali al tema, occorre dare risposta ad una preliminare domanda: cosa si intende per “prova nuova”?

Secondo la giurisprudenza di legittimità può definirsi nuova tanto la prova avente ad oggetto un fatto nuovo quanto quella intesa a dimostrare un fatto già allegato in primo grado.

Nel primo caso, per “fatto nuovo” si intende un fatto che è stato allegato per la prima volta in appello o perché sopravvenuto o perché, pur preesistente, è divenuto rilevante solo grazie al tenore della sentenza di primo grado o ad una novità normativa sopraggiunta dopo che erano maturate le preclusioni istruttorie. Tale categoria di prove “nuove” può essere pacificamente ricondotta nell’ipotesi prevista dall’art. 345, co. 3, c.p.c.  (peraltro anche nella versione attualmente in vigore) laddove consente di produrre in appello quei documenti e mezzi di prova che la parte non ha potuto proporre o produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Maggiormente dibattuto è invece il tema dell’ammissibilità in appello di un nuovo mezzo di prova volto alla dimostrazione di un fatto che era stato già ritualmente allegato in primo grado, ma rimasto indimostrato. Ed è il caso in cui la parte interessata chieda l’acquisizione della nuova prova in quanto idonea a dissipare ogni possibile incertezza. Ed ecco che viene in luce il concetto di “prova indispensabile” su cui nel corso del tempo si sono formati in giurisprudenza e in dottrina due orientamenti di cui, come si diceva in epigrafe, è opportuno tenere in considerazione, malgrado l’intervenuta modifica dell’art. 345 c.p.c., avendo ancora riflessi sugli artt. 437, co. 2, e 702 quater c.p.c.

Il primo orientamento, quello prevalente, intende “indispensabile” la prova che esplica un’influenza causale più incisiva rispetto a quelle prove già rilevanti ai fini della decisione della controversia (v. Cass., Sez. Un. 8202/2005; Cass., Sez. Un. n. 10790 del 2017). Sono state ritenute prove decisive quelle prove assolutamente necessarie, essenziali, di cui non si può fare a meno.

È stato detto che il giudizio di indispensabilità implica una valutazione sull’idoneità del mezzo istruttorio a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi.

Indispensabili sono state considerate quelle prove che, dissipando ogni certezza sulla ricostruzione fattuale della vicenda sottoposta all’esame del giudice, risultano idonee a determinare la decisione in un senso anziché in un altro.

Al di là delle varie declinazioni terminologiche, la giurisprudenza è concorde nel ritenere "indispensabili" quelle prove che, per il loro spessore contenutistico, risultano in grado di fornire un contributo decisivo all'accertamento della verità.

La previgente formulazione dell’art. 345 c.p.c. aveva il precipuo scopo, permettendo l’ingresso di nuove prove indispensabili, di comporre l’inaccettabile separazione venutasi a creare, a causa delle preclusioni istruttorie, tra realtà materiale e verità processuale.

Il secondo orientamento, minoritario, definito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 10790/2017, a “indispensabilità ristretta”, è dell’avviso che nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove debba apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si sia formata.

Tale orientamento si distingue dal primo non tanto per il significato da attribuire al concetto di indispensabilità della prova, ma sul termine cui esso va relazionato, cioè con la decisione di primo grado.

Il provvedimento di primo grado deve evidenziare a commento delle risultanze istruttorie acquisiste la necessità d’un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario.

Secondo tale approccio ermeneutico, per nuova prova indispensabile deve intendersi solo quella prova la cui utilità non era apprezzabile nel primo grado di giudizio.

Tale orientamento, seppur consente il pieno rispetto della disciplina delle preclusioni istruttorie previste per il primo grado, nonché dei principi della terzietà del giudice rispetto al potere dispositivo delle parti, della regola del giudizio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. e della ragionevole durata del processo (che invece potrebbe soffrire per l’ingresso di nuove prove nel giudizio di gravame), sacrifica inammissibilmente la ricerca della verità materiale.

Inoltre, dal punto di vista sistematico, la tesi della c.d. “indispensabilità ristretta” identifica il concetto di indispensabilità come una sottospecie della seconda ipotesi dell’art. 345, co. 3, c.p.c. (prove indispensabili sarebbero quelle prove che la parte dimostra di non aver potuto chiedere in primo grado per causa ad essa non imputabile). In sostanza tale tesi con lo svuotare di significato la prima delle due ipotesi previste dalla previgente formulazione dell’art. 345, co. 3, c.p.c. laddove parla di prove indispensabili, finisce con il sortire un (non consentito) effetto abrogativo dell’art. 345, comma 3, c.p.c.

Nei confronti del primo orientamento sono state mosse diverse obiezioni, tutte ritenute superabili dalle Sezioni Unite con la sentenza 10790/2017 (secondo cui, ad es., non è vero che l’ammissibilità in appello di documenti indispensabili vanificherebbe il regime delle preclusioni istruttorie proprie del primo grado in quanto il giudizio sull’indispensabilità della prova è pur sempre subordinato al filtro costituito dalla valutazione del giudice che quindi non permette una produzione indiscriminata di nuovi documenti nel 2° grado).

Ammettere nuovi documenti indispensabili nel giudizio di impugnazione non altera la struttura del giudizio d’appello di revisio prioris instantiae trasformandolo in un novum iudicium in quanto “in nessun caso il potere del giudice d’appello di ammettere la prova indispensabile potrebbe essere esercitato riguardo a prove già in prime cure dichiarate inammissibili perché dedotte in modo difforme dalla legge o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto a seguito di particolati vicende occorse nel giudizio di primo grado, non essendo queste – a rigori – neppure prove ‘nuove’” (Cass., Sez. Un., n. 10790/2017).

In ultima analisi, non si tratta di vanificare il regime delle preclusioni istruttorie, ma di bilanciarlo con il principio della ricerca della verità materiale.

Tali strumenti e principi non sono in competizione tra loro, ma concorrono tutti verso il comune obiettivo di dare piena ed effettiva attuazione alla tutela giudiziaria delle posizioni giuridiche attive all’interno della cornice disegnata dall’art. 24 Cost.


[1] L’art. 345 c.p.c., prima delle modifiche intervenute con il d.l. 83/2012, art. 54, co. 1, lett. b), conv. in L. 134/2012, prevedeva due ipotesi di ammissibilità di mezzi di prova in appello: quelli ritenuti dal Collegio indispensabili e quelli che la parte non aveva potuto proporre o produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (v. art. 345 c.p.c. vecchia formulazione: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo [che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero] che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”).

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