Con l’ordinanza interlocutoria n. 19900 del 2024 la Corte di Cassazione ha disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite delle questioni legate alla validità dei contratti di finanziamento che fanno riferimento all’indice Euribor illecitamente alterato da un accordo restrittivo della concorrenza.
1. – Lo scopo dell’intesa anticoncorrenziale volta all’alterazione dell’Euribor e i contratti ‘a valle’
Nell’ordinanza in commento la Corte ha ritenuto di dover prendere le distanze dall’orientamento giurisprudenziale formatosi in seno alla Terza Sezione Civile della Cassazione ed espresso dall’ordinanza n. 34889 del 13 dicembre 2023 e successivamente puntualizzato dalla più recente sentenza n. 12007 del 3 maggio 2024.
La Cassazione, esaminati gli scopi dell’intesa anticoncorrenziale illecita realizzata da alcuni operatori economici e sanzionata dalla Commissione Europea, dubita che i contratti di finanziamento parametrati al tasso Euribor, proprio in ragione dello scopo per cui l’intesa era stata raggiunta, possano considerarsi propriamente contratti “a valle” non risultando essenziali a realizzare e ad attuare gli effetti dell’accordo illecito.
Secondo la ricostruzione operata nell’ordinanza interlocutoria, l’intesa restrittiva accertata dalla Commissione Europea“era orientata alla riduzione dei flussi di cassa che i partecipanti avrebbero dovuto pagare a titolo degli «EIRD» o dall’aumento di quelli che essi dovevano ricevere a tale titolo e ha, dunque, riguardato un mercato, quello degli «EIRD», diverso da quello dei mutui a tasso variabile, di cui partecipa sia il contratto dedotto in giudizio, sia quelli interessati dalle richiamate pronunce della Terza Sezione”.
Ciò premesso, afferma la Corte, concernendo l’intesa illecita il diverso mercato degli «EIRD», i contratti di finanziamento che richiamano per la determinazione del tasso l’indice Euribor non possono costituire il mezzo di violazione della normativa antitrust “e ciò a prescindere da ogni considerazione in ordine alla conoscenza dell’esistenza dell’intesa illecita e/o dall’intenzione di avvalersi del relativo risultato oggettivo”.
La Corte ritiene che sia opportuno rivedere l’orientamento della Terza Sezione che, muovendo dai principi espressi dalla richiamata decisione delle Sezioni Unite n. 41994 del 30 dicembre 2021, è giunto alla conclusione per cui “l’accertamento dell’intesa restrittiva della concorrenza determina sempre la nullità dei contratti «a valle» che ne costituiscono attuazione”.
Secondo la Corte, un’indiscriminata estensione del principio a tutti i contratti “a valle” di intese restrittive della concorrenza “potrebbe condurre a conclusioni inappaganti o, comunque, inefficienti nelle ipotesi in cui tali contratti siano vantaggiosi – quanto meno nel breve periodo – per il contraente del mercato a valle, esponendo quest’ultimo all’azione di nullità del concorrente pregiudicato dall’intesa illecita”.
Per tali ragioni, nell’ordinanza in commento, la Corte ritiene che sia preferibile “una lettura restrittiva” dei principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021 resa con riguardo ad uno specifico fenomeno relativo alla riproduzione in contratti di fideiussione di clausole rispondenti allo schema predisposto dall’ABI dichiarate frutto di intesa restrittiva della concorrenza dalla Banca d’Italia e il cui effetto era proprio quello di rendere la disciplina più gravosa per il contraente, imponendogli maggiori obblighi e senza riconoscergli alcun corrispondente diritto.
La Corte ritiene che, nel caso di specie, l’alterazione dell’indice Euribor ad opera dell’intesa anticoncorrenziale – e quindi per fatto illecito del terzo – non possa determinare, alla luce dell’impianto codicistico, la nullità dei contratti di finanziamento che per la determinazione degli interessi dovuti facevano riferimento proprio al predetto parametro.
L’illecito del terzo, secondo quanto affermato nell’ordinanza interlocutoria, “oltre a non determinare nullità nel quadro della disciplina antitrust, una volta escluso che contratti come quello in discorso possano essere considerati quali contratti «a valle», produce, nell’impianto codicistico, limitate ricadute, quanto a validità, sul contratto al quale il terzo è estraneo e, comunque, non in termini di nullità, ma semmai di annullabilità, giusta il disposto del secondo comma dell’art. 1439 cod. civ., cui la citata sentenza della Terza sezione parrebbe del resto voler alludere, laddove discorre di «prova della conoscenza di tali intese e/o pratiche da parte di almeno uno dei contraenti»; il che rende, però, disagevole ricostruire quale sia la base normativa della «eventuale possibilità di sostituzione del parametro richiamato dalla clausola contrattuale con un altro valore»”.
A ciò la Corte aggiunge che la clausola determinativa degli interessi del contratto di mutuo a mezzo dell’Euribor non possa considerarsi nulla neppure facendo riferimento alla disciplina consumeristica “se si considera che l’art. 33 cod. cons. colloca al di fuori della presunzione di vessatorietà le pattuizioni concernenti «prodotti o servizi il cui prezzo è collegato alle fluttuazioni … di un tasso di mercato finanziario non controllato dal professionista»”.
L’illecito del terzo non sarebbe in grado neppure di far venir meno l’esistenza del consenso delle parti. Ciò varrebbe, dice la Cassazione, non solo per quanto riguarda i contratti stipulati prima del 29 settembre 2005, ma anche per quelli stipulati nell’arco temporale del triennio coperto dalla decisione (si precisa che la Commissione Europea con la decisione del 4 dicembre 2013 aveva accertato l’illecita alterazione dell’indice Euribor per il periodo dal 29 settembre 2005 al 30 maggio 2008).
L’ordinanza interlocutoria partendo dalla premessa per cui “l'Euribor non è il tasso di interesse applicato in contratto, ma un mero indice di mercato impiegato quale fattore di calcolo della misura del tasso di interesse” ritiene che “l’accordo contrattuale si forma – e, in tal senso, si obiettivizza – sull’applicazione dell’indice Euribor, così come ufficialmente stabilito e dunque inteso nel suo dato formale, indipendentemente dalla correttezza del procedimento seguito per la sua rilevazione”.
L’indicazione dei tassi di interesse solitamente convenuti nei contratti di finanziamento “mediante rinvio a parametri elaborati da istituzioni sovranazionali” – come quello oggetto di giudizio che prevede quale parametro di riferimento l’Euribor –, per la Cassazione, sarebbe quindi conforme al principio della determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto ex art. 1346 cod. civ. in quanto, nei predetti casi, le parti si limiterebbero “a richiamare, volendo guardare realisticamente al tema, non già la complessa formula di calcolo dell’Euribor, plausibilmente ignota al mutuatario, e non di rado forsanche al mutuante, bensì un fatto esterno al contratto che è assunto nel regolamento negoziale nella sua oggettività, per come risultante dal dato numerico ufficiale che ne esprime il significato, ossia il suo valore”.
L’alterazione del parametro richiamato in contratto ai fini della determinazione del tasso di interesse del finanziamento rileverebbe piuttosto nel processo di formazione della volontà delle parti determinando una “falsa rappresentazione della realtà”, con la conseguenza che la parte potrà fare ricorso agli ordinari rimedi previsti per i vizi del consenso o per la violazione del generale principio del neminem ledere.
Su tale ultimo punto, la Corte precisa che la violazione del principio del neminem ledere dovrà essere fatta “valere ovviamente nei confronti di chi l’illecito ha commesso”.
Tale soluzione sarebbe da preferire, in quanto, contrariamente al rimedio della nullità, non esporrebbe il mutuatario alla restituzione del capitale residuo mutuato o comunque al versamento di maggiori interessi.
2. – Sintesi delle questioni rimesse alle Sezioni Unite
A conclusione dell’ordinanza interlocutoria in commento, la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno rimettere la causa alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, al fine di dirimere le seguenti questioni di diritto:
-“se il contratto di mutuo contenente la clausola di determinazione degli interessi parametrata all’indice Euribor costituisca un negozio «a valle» rispetto all’intesa restrittiva della concorrenza accertata, per il periodo dal 29 settembre 2005 al 30 maggio 2008, dalla Commissione dell’Unione Europea con decisioni del 4 dicembre 2013 e del 7 dicembre 2016, o se, invece, indipendentemente dalla partecipazione del mutuante a siffatta intesa o dalla sua conoscenza dell’esistenza di tale intesa e dell’intenzione di avvalersi del relativo risultato, tale non sia, mancando il collegamento funzionale tra i due atti, necessario per poter ritenere che il contratto di mutuo costituisca lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”;
- “se la alterazione dell’Euribor a causa di fatti illeciti posti in essere da terzi rappresenti una causa di nullità della clausola di determinazione degli interessi di un contratto di mutuo parametrata su tale indice per indeterminabilità dell’oggetto o piuttosto costituisca un elemento astrattamente idoneo ad assumere rilevanza solo nell’ambito del processo di formazione della volontà delle parti, laddove idoneo a determinare nei contraenti una falsa rappresentazione della realtà, ovvero quale fatto produttivo di danni”.
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Con l’ordinanza interlocutoria n. 18903 del 10 luglio 2024, la Seconda Sezione Civile della Cassazione ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di alcune questioni giuridiche di massima importanza riguardanti il mutuo solutorio, cioè quel mutuo utilizzato per il ripianamento di debiti pregressi.
1. - I fatti oggetto di causa
Una banca otteneva un decreto ingiuntivo contro due propri clienti, i quali venivano condannati a pagare l’importo di € 50.742,86 a titolo di saldo negativo del conto corrente acceso presso la banca stessa e garantito da ipoteca.
Contro il predetto decreto ingiuntivo i clienti proponevano opposizione davanti al Tribunale di Ferrara, deducendo di avere stipulato con la Banca nel corso del tempo ben cinque contratti di mutuo, il primo ipotecario nel 1990, il secondo ipotecario nel 1995, due nel 1998, dei quali uno chirografario e l’altro ipotecario, e l’ultimo nel 2000, quale mutuo ipotecario per Lire. 900.000.000 con contestuale apertura di credito su conto corrente e sulla base del quale la creditrice aveva proposto il ricorso per decreto ingiuntivo.
In particolare, con l’opposizione denunciavano l’illegittimità del comportamento della Banca per aver concesso mutui sempre regolati su conti correnti ipotecari che servivano a pagare il debito pregresso, già maturato per capitale e interessi. Rilevavano altresì che la Banca aveva solo apparentemente erogato le somme, posto che le stesse non erano mai uscite dalle casse dell’asserita mutuante, ma erano state utilizzate quale pagamento dei mutui e delle aperture di credito precedenti.
Contro la sentenza del Tribunale di Ferrara n. 195/2016 che aveva solo parzialmente accolto l’opposizione, i clienti. proponevano appello, poi rigettato dalla Corte d’Appello di Bologna con la sentenza n. 905/2020, pubblicata il 4 marzo 2020, condannando gli appellanti alla rifusione delle spese di lite.
Nello specifico la Corte d’appello di Bologna aveva ritenuto infondate le deduzioni sulla nullità del contratto di mutuo per mancata erogazione della somma ritenendo che l’accredito sul conto corrente equivaleva alla consegna prevista dall’art. 1813 c.c.
Il Giudice di secondo grado riteneva altresì che il fatto che la somma mutuata era stata poi utilizzata dalla Banca per estinguere il mutuo precedente non escludeva l’avvenuta consegna e dimostrava l’esistenza di una causa concreta del negozio, che era servito al debitore a ripianare le passività pregresse.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna i clienti hanno proposto ricorso per cassazione affidato a nove motivi.
2. - I motivi di ricorso per cassazione
Con il primo motivo di ricorso è stata censurata la sentenza impugnata per avere la Corte d’appello di Bologna ritenuto che la decisione di impiegare le somme mutuate per estinguere i debiti precedenti fosse stata una libera scelta dei ricorrenti al fine di mantenere il rapporto con la Banca. Secondo i ricorrenti risultava del tutto mancante la prova degli atti di disposizione del denaro.
Il giudice di secondo grado avrebbe dovuto spiegare da dove avesse ricavato che le operazioni erano state volute e autorizzate dai ricorrenti.
Secondo i ricorrenti, in mancanza di dimostrazione dell’accordo sulla destinazione della somma, “viene confermata la tesi che la traditio era stata assente, in quanto unilateralmente e contestualmente la Banca aveva accreditato e stornato la somma di Lire. 897.000.000 mediante un mero giroconto”.
La Corte d’appello di Bologna avrebbe dunque erroneamente escluso la rilevanza del precedente costituito dall’ordinanza della Cassazione n. 20896 del 2019, poiché secondo i ricorrenti anche nel loro caso “non è avvenuto alcun trasferimento di proprietà ma una semplice operazione contabile, definita tecnicamente dalla Banca "operazione di giro", con la quale la Banca ha utilizzato le somme per estinguere i finanziamenti pregressi dei correntisti, in assenza di alcuna istruzione in tal senso”.
Il mero accredito sul conto corrente a cui consegua l’immediata riappropriazione autonoma delle somme da parte della Banca mutuante, secondo i ricorrenti, impedisce “di fare ritenere acquisita la disponibilità delle somme in capo al mutuatario, in quanto nel caso di specie l’operazione non risultava autorizzata dai ricorrenti”.
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti hanno evidenziato che l’estratto conto del 31 dicembre 2000 qualificava come “operazione di giro” quello che la Corte d’Appello aveva qualificato erroneamente come mutuo. Secondo i ricorrenti il giudice di secondo grado avrebbe dovuto prendere posizione sul problema della valenza dell’affermazione contenuta nel documento e, ritenendola come ammissione di un fatto a sé sfavorevole, cioè come ammissione di non avere mai messo a effettiva disposizione del correntista le somme oggetto del mutuo inesistente, avrebbe dovuto accogliere l’impugnazione.
3. - L’ordinanza interlocutoria: gli orientamenti giurisprudenziali a confronto
Sulle questioni poste dai primi due motivi di ricorso, relative alla qualificazione del cosiddetto ‘mutuo solutorio’, si sono registrate soluzioni non uniformi nella giurisprudenza di legittimità.
Di tale contrasto la Cassazione dà atto nell’ordinanza interlocutoria in commento, auspicando l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
Secondo l’orientamento prevalente, il mutuo solutorio – cioè quel mutuo stipulato al fine di ripianare una pregressa esposizione debitoria - non sarebbe nullo e non potrebbe essere qualificato come una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente oppure quale pactum de non petendo “poiché l’accredito in conto corrente delle somme erogate è sufficiente a integrare la datio rei giuridica propria del mutuo e il loro impiego per l'estinzione del debito già esistente purga il patrimonio del mutuatario di una posta negativa” (v. Cass. n. 23149 del 2022).
Il predetto indirizzo maggioritario si pone in continuità con alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità più risalenti nel tempo – e cioè Cass. n. 5193 del 1991 e Cass. n. 1945 del 1999 – secondo cui “il perfezionamento del contratto di mutuo, con la consequenziale nascita dell'obbligo di restituzione a carico del mutuatario, si verifica nel momento in cui la somma mutuata, ancorché non consegnata materialmente, sia posta nella disponibilità del mutuatario medesimo, non rilevando, a detto fine, che sia previsto l'obbligo di utilizzare quella somma a estinzione di altra posizione debitoria verso il mutuante”.
In senso difforme si è espressa altra parte della giurisprudenza di legittimità, sostenendo che “l’utilizzo di somme da parte di un istituto di credito per ripianare la pregressa esposizione del correntista, con contestuale costituzione in favore della banca di una garanzia reale, costituisce un’operazione meramente contabile in dare e avere sul conto corrente, non inquadrabile nel mutuo ipotecario, il quale presuppone sempre l'avvenuta consegna del denaro dal mutuante al mutuatario; tale operazione determina di regola gli effetti del pactum de non petendo ad tempus, restando modificato soltanto il termine per l'adempimento, senza alcuna novazione dell’originaria obbligazione del correntista” (v. Cass. n. 1517 del 2021 oggetto di un nostro precedente commento a cura di S. Guadagno, Quale è la natura del mutuo contratto con lo scopo di estinguere un pregresso debito?).
L’indirizzo minoritario si fonda sul fatto che il mutuo solutorio provoca l’effetto sostanziale di dilatare le scadenze dei debiti pregressi.
La dottrina, facendo leva sul fatto che l’art. 1231 cod. civ. non attribuisce un effetto novativo alle modificazioni accessorie dell’obbligazione, ha evidenziato come “tra le diverse modificazioni non novative di un rapporto obbligatorio siano annoverate dalla giurisprudenza anche l'apposizione di diverse condizioni economiche, la modificazione di clausole relative al tasso di interessi e l'aggiunta di garanzie”
Il rapporto obbligatorio, seppur modificato, in forza dell’orientamento in esame, “conserva la propria precedente identità anche dopo la conclusione del mutuo solutorio; ciò in quanto manca, per qualificare il mutuo solutorio in termini di novazione, anche l'animus novandi, posto che nei contratti di mutuo solutorio non si rintraccia in genere alcuna espressa e inequivoca volontà di estinguere l'obbligazione precedente”.
L’indirizzo minoritario se, da una parte, non nega che per il perfezionamento del mutuo sia sufficiente la dazione giuridica delle somme e che l’accredito in conto corrente possa bastare a questo fine; dall’altra, afferma che la traditio deve realizzare il passaggio delle somme dal mutuante al mutuatario, e cioè comportare l’acquisizione della loro disponibilità da parte del mutuatario, effetto che non si ravvisa “nel caso in cui la banca già creditrice con tali somme realizzi il ripianamento del precedente debito”.
In conclusione, nell’ordinanza interlocutoria in commento, la Corte di Cassazione si è chiesta “se sia corretto ritenere che il ripianamento delle precedenti passività eseguito dalla Banca autonomamente e immediatamente con operazione di giroconto, […], soddisfi il requisito della disponibilità giuridica della somma a favore del mutuatario, per cui il ripianamento delle passività abbia costituito una modalità di impiego dell'importo mutuato entrato nella disponibilità del mutuatario; in caso di risposta positiva, ci si chiede se in tale ipotesi il contratto di mutuo possa costituire anche titolo esecutivo”.
La Corte ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, affinché possa valutare l'opportunità di assegnare la predetta questione allo scrutinio delle Sezioni Unite.
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Con l’ordinanza interlocutoria n. 16477 del 13 giugno 2024, la Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza attinente alla possibilità di configurare la tacita rinuncia dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, come effetto automatico della cancellazione dal registro delle imprese, con conseguente estinzione, nella pendenza del giudizio teso a farli accertare.
Nell’ordinanza in commento, la Cassazione, dato atto dell’esistenza di un contrasto sul punto, ha ricostruito i vari orientamenti giurisprudenziali.
A partire dalla sentenza n. 6070/2013 delle Sezioni Unite che ha chiarito che “qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale, tuttavia, dal lato attivo, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, “con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”, si sono sviluppati due indirizzi.
Un indirizzo conforme ritiene che l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, determini anche l'estinzione delle mere pretese azionate, nonché dei diritti ancora incerti o illiquidi.
Espressione di tale principio è sicuramente Cass., Sez. 1, n. 25974/2015 secondo cui “l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina il trasferimento della corrispondente azione in capo ai soci, atteso che dal fenomeno di tipo successorio derivante dalla suddetta vicenda, riguardante esclusivamente gli eventuali rapporti giuridici (afferenti le obbligazioni ancora inadempiute, oppure i beni o i diritti non compresi nel bilancio finale di liquidazione) non venuti meno a causa di quest'ultima, esulano le mere pretese, benché azionate in giudizio, e i diritti ancora incerti o illiquidi necessitanti dell'accertamento giudiziale non concluso, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente, quindi, di ritenere che la società vi abbia implicitamente rinunciato con conseguente cessazione della materia del contendere”.
Nel solco di questo indirizzo si è inserita Cass., Sez. 3, n. 15782/2016 precisando che si verificherebbe una sorta di presunzione qualificata di rinuncia alle pretese così definibili.
In forza della predetta presunzione non si determina alcun fenomeno successorio nella pretesa sub iudice, “sicché i soci della società estinta non sono legittimati ad impugnare la sentenza d'appello che abbia rigettato questa pretesa”.
Le conclusioni di cui sopra non sono state condivise dall’orientamento giurisprudenziale successivo.
In particolare, per Cass., Sez. 1, n. 9464/2020 la cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio, non determinerebbe l'estinzione della pretesa azionata, “salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare”.
Anche per Cass, Sez. 6-1, n. 30075/2020 non può ritenersi automaticamente rinunciato il credito controverso “atteso che la regola è la successione in favore dei soci dei residui attivi, salvo la remissione del debito ai sensi dell'art. 1236 cod. civ., che deve essere allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione della dichiarazione ad uno specifico creditore”.
Ponendosi in contrasto con i predetti precedenti giurisprudenziali, la Cassazione con la sentenza, Sez. 3, n. 21071/2023 ha invece ritenuto che: “la successione dei soci non opera in relazione ai crediti illiquidi e inesigibili non compresi nel bilancio finale di liquidazione, i quali si presumono tacitamente rinunciati a beneficio della sollecita definizione del procedimento estintivo della società, salva la prova contraria da parte di colui che intenda far valere la corrispondente pretesa, senza che assuma rilievo, a tal fine, la dichiarata qualità di ex socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione dal lato passivo nel correlativo obbligo”.
Ricostruito il contrasto giurisprudenziale sul tema, la Corte, nell’ordinanza interlocutoria in commento, ha poi rilevato come l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite – e che propende per il verificarsi di una presunzione assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione – determini non poche criticità.
La Cassazione ha evidenziato come sia irrazionale configurare come elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, ponendosi il predetto criterio discretivo in contrasto col principio contabile generale per cui “ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.)”.
Altresì problematica è la configurazione di un’automatica riconduzione della cancellazione dal registro delle imprese alla fattispecie della rinuncia, “pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore”.
In ragione delle oggettive difficoltà riscontrate, le due sentenze dapprima citate – ci si riferisce a Cass. n. 9464/2020 e a Cass. n. 30075/2020 – hanno trovato un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente ogni automatismo (“la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata”.
Con Cass. n. 21071/2023 la Terza Sezione della Cassazione ha posto nuovamente al centro la questione riguardante l’automatismo, ma questa volta dal punto di vista della ripartizione dell’onere della prova avendo affermato che “la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato”.
Rilevato il predetto contrasto giurisprudenziale, la Cassazione, dando altresì atto che, per la particolare importanza della questione, la stessa sia suscettibile di riproporsi in un numero indeterminato di casi, ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.