Con la sentenza n. 9479 del 6 aprile 2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato principi importanti in tema di tutela del consumatore con specifico riferimento al procedimento di ingiunzione, allineando la normativa nazionale ai principi espressi nelle sentenze del 17 maggio 2022 dalla Corte di Giustizia.

1. - I fatti di causa

Nel 2007 T.N. stipulò un contratto di fideiussione con il Credito Valtellinese a garanzia delle obbligazioni assunte dalla Magnus Costruzioni s.r.l. verso il predetto istituto di credito.

Il Credito Valtellinese, dopo aver escusso senza esito la garanzia, otteneva dal Tribunale di Sondrio un decreto ingiuntivo per le somme dovute da T.N.

Contro il decreto ingiuntivo non veniva proposta opposizione.

Nel frattempo contro T.N. era stata intrapresa da altro creditore (Italfondiario S.p.A.) davanti al Tribunale di Busto Arsizio una procedura di espropriazione immobiliare.

Il Credito Valtellinese, dopo essere intervenuto nella predetta procedura esecutiva, cedeva

il proprio credito a Elrond NPL 2017 s.r.l., che, a sua volta, interveniva in veste di cessionaria.

L’esecutata contestava il progetto, depositato dal giudice dell’esecuzione, di distribuzione della somma ricavata in seguito alla vendita dei beni immobili oggetto di espropriazione adducendo l'insussistenza del diritto di credito della cessionaria Elrond s.r.l. in ragione della nullità del titolo costituito dal decreto ingiuntivo in quanto emesso da giudice territorialmente incompetente.

Avverso l’ordinanza con il quale il giudice dell’esecuzione aveva dichiarato esecutivo il progetto di distribuzione T.N. proponeva opposizione ex art. 617 c.p.c., ribadendo la precedente contestazione sulla nullità del titolo per essere stato il decreto ingiuntivo emesso da giudice territorialmente incompetente, “in quanto adito sulla scorta di una clausola del contratto di fideiussione illegittimamente derogatrice del foro del consumatore (ossia, il Tribunale di Busto Arsizio, comune di residenza dell'ingiunta), qualità che essa poteva vantare anche come fideiussore alla luce del mutamento di giurisprudenza nella materia”.

Il Tribunale di Busto Arsizio riconosceva a T.N. l'anzidetta qualità di consumatore e individuava nell'opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. il rimedio per farla valere “compatibilmente con il diritto Europeo”.

In ogni caso, l'opposizione ex art. 617 c.p.c. veniva rigettata non avendo T.N. utilizzato tempestivamente il rimedio previsto.

Contro la sentenza T.N. ha proposto, ai sensi della Cost., art. 111, co. 7, ricorso straordinario deducendo “la violazione e/o errata interpretazione della direttiva 93-13 e dell'art. 19 del TUE, con riferimento al principio di effettività della tutela del consumatore, mettendo in discussione l'impossibilità, a fronte di decreto ingiuntivo non opposto, sia di "un secondo controllo d'ufficio nella fase dell'esecuzione sulla abusività delle clausole contrattuali", sia di "una successiva tutela, una volta spirato il termine per proporre opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo"”.

Le intimate non hanno svolto attività difensiva in sede di legittimità.

Successivamente T.N. rinunciava al ricorso.

Il pubblico ministero chiedeva l’estinzione del giudizio, sollecitando, però, la Corte ad enunciare, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., il principio di diritto nell'interesse della legge reputando ciò necessario "a fronte della particolare rilevanza della questione e della situazione di grave incertezza interpretativa determinata dalle quattro recenti sentenze del 17 maggio 2022 della Corte di Giustizia, tutte relative ad analoghe vicende, inerenti le sorti del giudicato nazionale dinanzi alla normativa Eurounitaria qualificata inderogabile dalla CGUE".

Il ricorso veniva così affidato alle Sezioni Unite civili.

La questione è sorta a seguito delle quattro pronunce della Corte di Giustizia, emesse dal Collegio della Grande Sezione in data 17 maggio 2022[1].

2. – La vicenda in esame quale esempio paradigmatico di una futura virtuosa applicazione del nuovo istituto del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363-bis c.p.c. introdotto dalla ‘Riforma Cartabia’.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di doversi soffermare sulla questione sollecitata dal ricorso, trattandosi di questione di particolare importanza in relazione alla quale la rinuncia al ricorso da parte di T.N. non impedisce l’enunciazione del principio nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c.

La questione di diritto che scaturisce dalle citate pronunce della Corte di Giustizia (si v. in particolare, la sentenza ‘SPV/Banco di Desio’ nelle cause riunite), secondo le Sezioni Unite, per i connotati che la caratterizzano e per le implicazioni che ne discendono, si presta, ad essere “esempio paradigmatico di come possa trovare virtuosa applicazione l'istituto, di nuovo conio, del rinvio pregiudiziale di cui all'art. 363 bis c.p.c. - introdotto dalla Riforma Cartabia - “rimesso alla valutazione del giudice di merito in base a concorrenti presupposti (questione di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio non ancora risolta da questa Corte di cassazione, che presenta gravi difficoltà interpretativa e che è suscettibile di porsi in numerosi giudizi)”.

3. – La sentenza della Corte di Giustizia “SPV/Banco di Desio”.

Partendo dall’esame di una delle quattro pronunce citate, segnatamente dalla sentenza “SPV/Banco di Desio” (resa all’esito di un rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Milano), le Sezioni Unite hanno affermato la rilevanza dei principi espressi in quella sede dalla Corte di Giustizia in relazione all’interpretazione da dare agli articoli 6 e 7 della Direttiva 93/13/CEE, concernente l'abusività di clausole presenti in un contratto concluso tra il professionista e il consumatore.

Al fine di garantire l’uniforme applicazione del diritto unionale, l’interpretazione fornita nelle sentenze dalla Corte di Giustizia, alla luce del disposto degli artt. 19, § 1, TUE e 267 TFUE, deve ritenersi cogente per il giudice nazionale.

Le Sezioni Unite in una precedente occasione (v. sent. 30 ottobre 2020, n. 24107) avevano già messo in risalto quel rapporto di complementarità tra Corte di Giustizia e giudice nazionale, il quale è tenuto ad applicare il diritto unionale come interpretato dalla Corte di Giustizia.

Ciò detto, la pronuncia del principio di diritto da parte delle Sezioni Unite non poteva non prendere le mosse dalla risposta che la Corte di Giustizia ha dato alle questioni pregiudiziali sollevate con la già menzionata ordinanza di rinvio del Tribunale di Milano.

Secondo la Corte di Giustizia, al fine di ovviare allo squilibrio esistente tra consumatore e professionista, il giudice nazionale è tenuto a esaminare d'ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricada nell'ambito di applicazione della Direttiva 93/13/CEE, laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto a tal riguardo necessari.

Premesso che gli Stati membri, ai sensi dell’art. 7 della predetta direttiva, sono tenuti a “fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori”, la Corte di Giustizia nella sentenza ha precisato che le procedure applicabili a tal fine, in assenza di armonizzazione, devono essere rispettose del principio di equivalenza (non devono cioè essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno) e del principio di effettività (non devono cioè rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell'Unione).

Dopo aver riconosciuto l’importanza che il principio dell'autorità di cosa giudicata riveste sia nell'ordinamento giuridico europeo sia negli ordinamenti giuridici nazionali, la Corte di Giustizia ha affermato come il diritto dell'Unione non imponga "di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione di una disposizione, di qualsiasi natura essa sia, contenuta nella direttiva 93/13”.

Viene espressamente fatto salvo il caso, però, in cui vi sia una violazione dei principi di equivalenza e di effettività.

Nel caso di specie, secondo la Corte di Giustizia, il principio di equivalenza sarebbe rispettato, in quanto la normativa nazionale non consente al giudice dell'esecuzione “di riesaminare un decreto ingiuntivo avente autorità di cosa giudicata, anche in presenza di un’eventuale violazione delle norme nazionali di ordine pubblico”.

Quanto al rispetto del principio di effettività, vi è da dire che lo stesso, pur non potendo “supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato”, impone di garantire l'effettività dei diritti spettanti ai singoli, implicando una tutela giurisdizionale effettiva.

Alla luce di ciò, la Corte di Giustizia ha affermato che “in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito”.

Una normativa nazionale, continua la Corte, “secondo la quale un esame d'ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall'autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell'importanza dell'interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93-13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l'obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d'ufficio dell'eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”.

Da tale affermazione deriva, sempre secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, che il giudice dell'esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione.

In conclusione, la Corte di giustizia ha dato la seguente risposta al quesito di diritto formulato dal Tribunale di Milano nell’ordinanza di rinvio, affermando che:  “L'art. 6, paragrafo 1, e l'art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell'esecuzione non possa - per il motivo che l'autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l'eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come "consumatore" ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo".

4. – La decisione delle Sezioni Unite

In un contesto che vede primeggiare l'ordinamento sovranazionale, l'autonomia procedurale degli Stati membri è un valore, affermano le Sezioni Unite, che “la stessa Corte di Giustizia si preoccupa di tenere ben fermo, configurandolo come recessivo solo a certe condizioni, ossia per dare piena espansione ai principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale”.

D’altra parte, non può essere dimenticato che i Trattati assegnano un ruolo centrale "nella definizione e nell'attuazione di altre politiche o attività dell'Unione" (art. 12 TFUE) alla figura del consumatore, sulla cui persona convergono gli obiettivi valoriali comuni ai Paesi dell'Unione.

Gli artt. 6 e 7 della citata direttiva, alla stregua della lettura che ne ha dato la Corte di Giustizia con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, hanno come scopo quello di riequilibrare la posizione strutturalmente minorata del consumatore sia sotto il profilo del potere negoziale, che per il livello di informazione.

L’obiettivo della normativa europea è raggiungibile “solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattualeossia, nella sede processuale, tramite il dovere del giudice investito dell'istanza di ingiunzione di esaminare d'ufficio il carattere abusivo della clausola contrattuale e di dare conto degli esiti di siffatto controllo”.

In applicazione del principi affermati a livello eurounitario, continuano le Sezioni Unite sostenendo che “l’inattività del giudice del procedimento monitorio, ove non rimediabile in una sede successiva, impedirebbe definitivamente di colmare proprio nel processo quel dislivello sostanziale esistente tra i contraenti, facendo gravare la violazione dell'obbligo del rilievo officioso della abusività della clausola negoziale sul consumatore, sebbene questi sia rimasto privo di tutte le "informazioni" che gli sono dovute per porlo in condizione di determinare la portata dei suoi diritti al fine di poter esercitare, per la prima volta, la propria difesa in sede di opposizione al decreto ingiuntivo "con piena cognizione di causa".

La carente attivazione del giudice del monitorio (mancato rilievo officioso e omessa motivazione) comporta, secondo l'interpretazione vincolante della Corte di Giustizia, che la decisione adottata, sebbene non fatta oggetto di opposizione, sia comunque insuscettibile di dar luogo alla formazione, stabile e intangibile, di un giudicato.

In altri termini, affermano le Sezioni Unite, “sarebbe monca la provocatio ad opponendum (ossia la "provocazione a contraddire": Cass., S.U., 1 marzo 2006, n. 4510) che il decreto ingiuntivo innesca, richiedendo che il debitore si attivi entro un certo termine per evitare altrimenti la c.d. impositio silentii (il giudicato o la c.d. "preclusione da giudicato": la citata Cass., S.U., n. 4510/2006) sul provvedimento d'ingiunzione emesso”.

In altri termini è l'omissione del giudice a frustrare il diritto di azione e difesa del consumatore, vulnerandone in modo insostenibile la tutela giurisdizionale effettiva.

Nonostante l’importanza che l’istituto del giudicato riveste anche per l’ordinamento europeo, le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, presidiate dal principio di immutabilità della decisione, non possono prevalere su quelle di effettività della tutela del consumatore imposte dalla Direttiva 93/13/CEE.

5. – La nuova disciplina individuata dalle Sezioni Unite

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite della Cassazione sono poi passate ad una ricostruzione della disciplina del procedimento per ingiunzione, con evidenti profili di novità, improntandola al pieno rispetto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia.

Come abbiamo visto, secondo la giurisprudenza eurounitaria, il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d'ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, connessa all'oggetto della controversia e, nel caso, anche a richiedere d’ufficio “informazioni complementari ovvero la produzione di ulteriori documenti dalla parte interessata”.

Secondo le Sezioni Unite gli approdi della giurisprudenza eurounitaria non pongono problemi di compatibilità con l'assetto processuale interno, delineato dagli artt. 633-644 c.p.c., “il quale rende certamente praticabile il doveroso controllo, da parte del giudice, sull'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore”.

Tant’è vero che, rilevata d’ufficio la vessatorietà della clausola incidente, in tutto o in parte, sull'oggetto della domanda monitoria, il giudice deve addivenire al rigetto del ricorso (che non preclude la riproposizione della domanda: art. 640, ultimo comma, c.p.c.), ovvero al suo consentito accoglimento parziale (v., per tutte, Cass., S.U., n. 4510/2006).

Le Sezioni Unite affermano poi come non sia possibile seguire “la diversa tesi secondo la quale il c.d. "diritto all'interpello" del consumatore imporrebbe al giudice di emettere il decreto ingiuntivo, evidenziando la presenza di uno o più profili di abusività delle clausole contrattuale, per invitare, poi, il consumatore stesso a prendere posizione sul punto mediante la proposizione dell'opposizione”.

Peraltro, costringere il consumatore a proporre l'opposizione per far valere i propri diritti, risulta in contrasto con lo stesso principio del rilievo d'ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali.

Al fine di rispettare il diritto eurounitario, il giudice “dovrà sollecitare il ricorrente a "provvedere alla prova" del credito anche sotto il profilo che la relativa spettanza, in parte o per l'intero, non sia esclusa dai profili di abusività negoziale rilevati, a tal fine richiedendo che sia prodotta pertinente documentazione (anzitutto, il contratto su cui si basa il credito azionato) e/o che siano forniti i chiarimenti necessari”.

Così letto il sistema, le Sezioni Unite affermano che “l'istanza di tutela che il diritto dell'Unione impone di soddisfare non trova ostacoli nel modello processuale di diritto interno, il quale con detta istanza verrebbe, invece, a confliggere ove interpretato nel senso che il controllo sull'abusività delle clausole non possa compiersi nel procedimento d'ingiunzione”.

5.1. – Il nuovo avvertimento di cui all’art. 641, co.1, c.p.c. e la motivazione del provvedimento monitorio

Una ricaduta immediata dei principi affermati dalla Corte di Giustizia riguarda proprio la motivazione del decreto ingiuntivo.

Nel caso in cui venga accolta la domanda del creditore, il provvedimento di ingiunzione, affermano le Sezioni Unite, dovrà essere provvisto di una motivazione che dia atto della sussistenza dell'esame in base al quale il giudice ha ritenuto che le clausole in discussione non abbiano carattere abusivo, in modo da consentire al debitore consumatore di valutare con piena cognizione di causa se occorra proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo.

L’assolvimento di tale obbligo motivazionale può essere strutturato anche per relationem al ricorso monitorio.

Altro importante corollario riguarda l’avvertimento previsto all’art. 641, co. 1, c.p.c., che, interpretato in senso conforme al diritto eurounitario di cui alla direttiva 93/13/CEE, dovrà, altresì, rendere edotto “il consumatore che, in assenza di opposizione, "decadrà dalla possibilità di far valere l'eventuale carattere abusivo" delle clausole del contratto”.

In ultima analisi, ritengono le Sezioni Unite che, una volta che il decreto ingiuntivo presenti la motivazione e l'avvertimento anzidetti, “la tutela del consumatore è da reputarsi rispettosa del canone dell'effettività e la maturazione del termine di cui all'art. 641 c.p.c., senza che sia stata proposta opposizione, non consentirà più successive contestazioni sulla questione di abusività delle clausole contrattuali”.

5.2. – La portata retroattiva delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Il rimedio dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.

Vista la portata retroattiva delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia, la questione si fa più problematica con riferimento ai decreti ingiuntivi in precedenza emessi in difetto dell’esame sull’abusività delle clausole e divenuti irrevocabili, ma anche in relazione ai conseguenti procedimenti esecutivi ancora in corso.

Le soluzioni individuate dalla dottrina al fine di garantire una tutela piena ed effettiva al consumatore sono molte, ma la risposta che le Sezioni Unite hanno inteso privilegiare e declinare in principio nomofilattico “è quella che, a valle del rilievo sui profili di abusività della clausola contrattuale ad opera del giudice dell'esecuzione, fa applicazione della disciplina dell'opposizione tardiva a decreto ingiuntivo dettata dall'art. 650 c.p.c., con gli adeguamenti che per essa si rendono necessari in ragione di una piena conformazione al diritto unionale di cui alla direttiva 93/13/CEE, secondo l'interpretazione della CGUE”.

5.3. – Il rilievo d’ufficio da parte del G.E. è consentito sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito.

Secondo la soluzione individuata dalle Sezioni Unite il giudice dell'esecuzione avrebbe il potere/dovere di rilevare d'ufficio l'esistenza di una clausola abusiva, che incida sulla sussistenza o sull'entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo, sino al momento della vendita o dell'assegnazione del bene o del credito.

A tal fine, il Giudice dell’esecuzione, secondo un modello strutturalmente deformalizzato, dovrà, nel contraddittorio delle parti, provvedere, ove detto rilievo non sia possibile solo in base agli elementi di diritto e di fatto già in atti, ad una sommaria istruttoria, rispetto alla quale si presenterà la necessità di acquisire anzitutto il contratto fonte del credito ingiunto.

Il Giudice dell’esecuzione, continuano le Sezioni Unite, “se rileva il possibile carattere abusivo di una clausola contrattuale, ma anche se ritenga che ciò non sussista, ne informa le parti e avvisa il debitore consumatore (ciò che varrà come interpello sull'intenzione di avvalersi o meno della nullità di protezione) che entro 40 giorni da tale informazione - che nel caso di esecutato non comparso è da rendersi con comunicazione di cancelleria - può proporre opposizione a decreto ingiuntivo e così far valere (soltanto ed esclusivamente) il carattere abusivo delle clausole contrattuali incidenti sul riconoscimento del credito oggetto di ingiunzione”.

Prima della maturazione del predetto termine, il Giudice dell’esecuzione si asterrà dal procedere alla vendita o all'assegnazione del bene o del credito.

5.4. – Il caso in cui sia stata già proposta opposizione all’esecuzione.

Nel caso in cui il debitore/consumatore abbia già proposto un'opposizione all'esecuzione ai sensi dell’art. 615, co. 1, c.p.c. - dunque, prima dell'inizio dell'esecuzione, a seguito della notificazione del precetto - intendendo elidere il titolo esecutivo costituito dal decreto ingiuntivo divenuto irrevocabile proprio a motivo dell'abusività delle clausole contrattuali incidenti sul riconoscimento del credito del professionista, secondo le Sezioni Unite, il giudice adito dovrà riqualificare “l'opposizione come opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.” e rimettere “la decisione al giudice di questa, fissando un termine non inferiore a 40 giorni per la riassunzione (in applicazione dell'art. 50 c.p.c., in forza di interpretazione adeguatrice)”.

5.5. – Il caso in cui sia in corso un’opposizione esecutiva.

Le Sezioni Unite passano poi ad esaminare il caso in cui sia, allo stato, già in corso un'opposizione esecutiva ed emerga un problema di abusività delle clausole del contratto concluso tra consumatore e professionista. In tal caso, il giudice dell'opposizione dovrà rilevare d'ufficio la questione e interpellare il consumatore se intende avvalersi della nullità di protezione. Nel caso in cui il consumatore voglia avvalersene, “il giudice darà al consumatore termine di 40 giorni per proporre l'opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e, nel frattempo, il G.E. si asterrà dal disporre la vendita o l'assegnazione del bene o del credito”.

5.6. – La sospensione dell’esecutorietà del decreto ingiuntivo illegittimo.

Secondo le Sezioni Unite, il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo avrà “il potere, ex art. 649 c.p.c. (quale disposizione richiamata dal comma 2 dell'art. 650 c.p.c.), di sospendere l'esecutorietà del decreto ingiuntivo in modo totale o parziale, a seconda degli effetti che potrebbe comportare l'accertamento sulla abusività clausola che viene in rilievo”.

Il giudizio di opposizione procederà, quindi, secondo il rito.

6. – L’assenza di motivazione del decreto ingiuntivo integra un’ipotesi di ‘caso fortuito o forza maggiore’ ai sensi dell’art. 650 c.p.c.

Le Sezioni Unite, al fine di uniformare la normativa interna ai principi espressi dalla Corte di Giustizia, si spingono fino ad affermare che “attraverso un'interpretazione conforme del comma 1 dell'art. 650 c.p.c., è dato ritenere che l'assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in punto di valutazione della vessatorietà delle clausole e (specialmente) il mancato avvertimento circa la possibilità di far valere detta abusività solo entro un certo termine configurino un'ipotesi riconducibile alla previsione normativa del "caso fortuito o forza maggiore".

Le già indicate carenze formali del decreto ingiuntivo, continuano le Sezioni Unite, “vengono a configurare per il consumatore, privo della necessaria informazione per esercitare con piena consapevolezza i propri diritti, una causa non imputabile impeditiva della proposizione tempestiva dell'opposizione sul profilo della abusività delle clausole contrattuali e, dunque, il requisito richiesto dall'art. 650 c.p.c. per accedere all'opposizione tardiva”.

7. – I principi di diritto da enunciarsi ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, infine, enunciato i seguenti principi di diritto.

7.1. – I principi di diritto per la fase monitoria

In relazione alla fase monitoria, hanno affermato che “Il giudice del monitorio:

a) deve svolgere, d'ufficio, il controllo sull'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all'oggetto della controversia;

b) a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell'art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d'ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d'ingiunzione:

b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;

b.2) ove l'accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un'istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l'istanza d'ingiunzione;

c) all'esito del controllo:

comma 1) se rileva l'abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all'accoglimento parziale del ricorso;

comma 2) se, invece, il controllo sull'abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell'art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione;

comma 3) il decreto ingiuntivo conterrà l'avvertimento indicato dall'art. 641 c.p.c., nonché l'espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile”.

7.2. – I principi di diritto per la fase esecutiva

In relazione alla fase esecutiva, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Il giudice dell'esecuzione:

a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell'abusività delle clausole, ha il dovere - da esercitarsi sino al momento della vendita o dell'assegnazione del bene o del credito - di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull'esistenza e/o sull'entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;

b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;

c) dell'esito di tale controllo sull'eventuale carattere abusivo delle clausole - sia positivo, che negativo - informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l'eventuale abusività delle clausole, con effetti sull'emesso decreto ingiuntivo;

d) fino alle determinazioni del giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all'assegnazione del bene o del credito;

e) se il debitore ha proposto opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 1, c.p.c., al fine di far valere l'abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);

f) se il debitore ha proposto un'opposizione esecutiva per far valere l'abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l'opposizione tardiva - se del caso rilevando l'abusività di altra clausola - e non procederà alla vendita o all'assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell'opposizione tardiva sull'istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.

7.3. – I principi di diritto per la fase di cognizione

In relazione alla fase di cognizione, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Il giudice dell'opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:

a) una volta investito dell'opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l'esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l'accertamento sull'abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;

b) procederà, quindi, secondo le forme di rito”.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui: https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/9479_04_2023_civ_no-index.pdf

Sullo stesso argomento leggi anche: Tutela del consumatore e decreto ingiuntivo non opposto. La parola alla Corte di Giustizia.

In chiave critica, sullo stesso argomento, leggi anche https://www.judicium.it/la-tutela-del-consumatore-secondo-la-cgue-e-le-sezioni-unite-e-lo-stato-di-diritto-secondo-la-civil-law/


[1] Si tratta delle seguenti pronunce:

- sentenza in C-600/19, Ibercaja Banco;

- sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza;

- sentenza in C-725/19, Impuls Leasing Romania;

- sentenza in C-869/19, Unicaja Banco.

Con la sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023 le Sezioni Unite della Cassazione si sono espresse in merito alla meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c. di un contratto di leasing immobiliare con clausola di ‘rischio cambio’ in valuta estera, escludendone la natura di strumento finanziario derivato.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla Corte riguarda la validità o meno di un contratto di leasing immobiliare in valuta estera (franco svizzero) con clausola di ‘rischio cambio’.

In primo grado, in seguito all’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla soc. utilizzatrice, il Tribunale di Udine aveva ritenuto che la clausola in cui era prevista la variazione del canone in funzione sia del tasso LIBOR che del tasso di cambio tra l'Euro ed il franco svizzero contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto al contratto di leasing. Pertanto, il contratto doveva ritenersi nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d.lgs. 58/98.

L’impugnazione proposta dalla concedente è stata rigettata dalla Corte d’appello di Trieste, seppur con motivazione diversa da quella del Tribunale.

Secondo la Corte d'appello l'intero contratto sottoposto al suo esame era da configurare come “una sorta di swap”, da qualificarsi come un contratto ‘aleatorio’ e rientrante nel genus delle scommesse.

La Corte ha poi aggiunto che “la clausola di ancoraggio del canone al tasso di cambio tra franco svizzero ed Euro era "astrusa, macchinosa, complessa e oscura", e provocava uno "squilibro nelle prestazioni", in quanto la formula di calcolo del "rischio cambio" differiva a seconda che la variazione fosse favorevole o sfavorevole al concedente; che il contratto era stato qualificato come "contenente elementi riconducibili a strumenti finanziari derivati" anche dal consulente d'ufficio nominato in primo grado; che al momento della stipula - sempre ad avviso del c.t.u. - era "prevedibile un apprezzamento del franco" rispetto all'Euro”.

Ciò premesso, la Corte d'appello accoglieva l'opposizione al decreto ingiuntivo sulla base del fatto che la clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, comma 2, c.c.”, e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98, come invece aveva ritenuto il Tribunale.

L’ordinanza interlocutoria

In seguito al ricorso per cassazione promosso dalla società concedente, con ordinanza interlocutoria 16 marzo 2022 n. 8603 la Terza Sezione civile della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché fosse valutata l'opportunità di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Nella predetta ordinanza, ravvisata l'esistenza di contrastanti decisioni circa la validità di clausole come quella in esame, è stato sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite in merito alle seguenti questioni:

  • a) se la clausola di cui si discorre sia un mero meccanismo di indicizzazione, oppure costituisca una "scommessa", o comunque abbia una finalità speculativa”;
  • b) se la suddetta clausola muti la causa del contratto di leasing, "inquinandola", ed in questo caso con quali effetti”;
  • c) se la relativa pattuizione, a causa della sua oscurità, violi i doveri di correttezza e buona fede da parte del predisponente”.

Il giudizio di meritevolezza e lo ‘scopo pratico’ del contratto

Le Sezioni Unite hanno ritenuto fondato il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente aveva censurato la sentenza impugnata per violazione dell’art. 1322 c.c.

Il giudizio di “meritevolezza” di cui all'art. 1322, comma 2, c.c., dicono le Sezioni Unite, richiamando un orientamento consolidato (S.U. 4222/2017), è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato che con esso hanno avuto di mira le parti (cioè lo scopo pratico, la causa concreta).

La causa concreta del contratto è immeritevole solo quando sia contraria “alla coscienza civile, all'economia, al buon costume od all'ordine pubblico”.

Tali principi, già affermati nella Relazione al Codice Civile, risultano oggi consacrati agli artt. 2, secondo periodo, 4, comma 2, e 41, comma 2 Cost.

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno altresì precisato che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell'art. 1322 c.c., non è sufficiente che il contratto sia poco conveniente per una delle parti, ma “è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati”.

Le argomentazioni della Corte d’appello sono state considerate, come vedremo, irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza della clausola ‘rischio cambio’ contenuta nel contratto di leasing immobiliare in valuta estera.

Il contratto con clausola ‘astrusa’

La presenza nel contratto di una clausola contrattuale “astrusa” non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c., ma impone al Giudice di fare ricorso agli strumenti legali di ermeneutica (“la clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.)”.

Il contratto con clausola ‘macchinosa’

Neppure la presenza di una clausola contrattuale “macchinosa” è idonea a fondare il giudizio di non meritevolezza. Al più la stessa potrà rendere il contratto annullabile laddove abbia inciso sulla formazione del consenso del contraente (consenso dato per errore o carpito con dolo) o potrà influire sulla violazione del dovere di fornire tutte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dalla buona fede.

Le Sezioni Unite ricordano come siano stati elaborati dalla prassi commerciale numerosi contratti che prevedono necessariamente clausole articolate e complesse (ad es. i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica), ma non per questo gli stessi devono essere considerati immeritevoli di tutela.

Il contratto aleatorio

Secondo la Corte d’appello, la clausola di ‘rischio cambio’ nel contratto in esame era caratterizzata da “aleatorietà e squilibrio”, in quanto prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento.

Per le Sezioni Unite un contratto aleatorio non può dirsi, per ciò solo, immeritevole di tutela: “la sentenza impugnata mostra di confondere l'alea economica, insita in ogni contratto, con l'alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo”.

La vendita del raccolto futuro, l'assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia, ricordano le Sezioni Unite, sono tutti contratti aleatori previsti dalla legge.

Allora se è la stessa legge a consentire la stipula di contratti aleatori, la stessa aleatorietà non può ritenersi di per sé caratteristica idonea a rendere il contratto ‘immeritevole’ ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c.

Non solo la legge, ma anche l’autonomia negoziale consente alle parti di stipulare contratti aleatori atipici non espressamente previsti dalla legge (v. il caso del vitalizio atipico di cui è stata affermata in giurisprudenza la liceità e la meritevolezza).

Lo squilibrio delle prestazioni

Per le Sezioni Unite, lo “squilibrio” delle prestazioni, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, non è idoneo a fondare un giudizio di immeritevolezza contrattuale.

La clausola di ‘rischio cambio’, secondo il giudice di secondo grado, determinava uno squilibrio tra le obbligazioni dei contraenti non essendo simmetrica la variazione del saggio degli interessi tra il concedente e l’utilizzatore.

Le Sezioni Unite non concordano sul fatto che il concetto di ‘equilibrio delle prestazioni’ in un contratto sinallagmatico debba consistere in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni.

Evocando in modo suggestivo l’immaginedel ‘letto di Procuste’, le Sezioni Unite sostengono che ogni minimo disallineamento della predetta parità non possa essere sindacato dal giudice “amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità”.

La ragione è che “il diritto dei contratti… non impone l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali”.

Un’interpretazione diversa si porrebbe in contrasto con il principio cardine del nostro ordinamento della libertà negoziale.

Nello svolgimento della libera iniziativa economica, ciascuno ha il diritto di pianificare in piena libertà le proprie scelte imprenditoriali e commerciali pur sempre nel rispetto delle regole e della buona fede.

Alla luce di ciò lo squilibrio tra prestazione e controprestazione, laddove sia la conseguenza di una decisione assunta in piena libertà ed autonomia, non determina l’immeritevolezza del contratto.

Contro lo squilibrio (economico) tra le prestazioni, precisano le Sezioni Unite, quando lo stesso è genetico, è ammesso come rimedio il ricorso alla rescissione per lesione, quando è sopravvenuto il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Il giudizio di meritevolezza va formulato in concreto ed ex post

La valutazione circa la validità o la meritevolezza di un patto contrattuale - in forza del principio per cui cum nulla subest causa, constare non potest obligatio - non può mai limitarsi all'esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa.

Il giudizio sulla meritevolezza, affermano le Sezioni Unite, non può essere formulato in astratto ed ex ante, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti.

La clausola di ‘rischio cambio’, affermano le Sezioni Unite, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di secondo grado, avrebbe potuto avere varie giustificazioni (“Se infatti il franco svizzero si fosse apprezzato rispetto all'Euro, il concedente avrebbe ricevuto una prestazione (in Euro) di valore nominale inferiore a quella che gli sarebbe spettata in valore reale, e tale riduzione avrebbe riguardato l'intero credito: sia la parte pagata dall'utilizzatore a titolo di rimborso del finanziamento, sia la parte pagata a titolo di imposta. Il concedente, dunque, in tal caso avrebbe ricevuto un corrispettivo inferiore a quello preventivato, e ciò avrebbe alterato il suo piano finanziario: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA. Se invece il franco svizzero si fosse deprezzato rispetto all'Euro, l'utilizzatore avrebbe versato (in Euro) una prestazione in valore nominale superiore a quella che avrebbe dovuto versare in valore reale. Ma degli importi versati dall'utilizzatore, però, il concedente doveva necessariamente stornarne un'aliquota a titolo di IVA, e di tale importo non sarebbe stato in potere del concedente pretenderne la restituzione dall'erario, per restituire l'eccedenza all'utilizzatore: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA.”

In conclusione, le circostanze accertate dalla Corte di appello (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni) sono irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza previsto dall’art. 1322 c.c.

Sulle questioni poste dall’ordinanza di rimessione. La definizione di strumento finanziario derivato.

In relazione alle questioni poste dall’ordinanza interlocutoria e più sopra riassunte, le Sezioni Unite hanno escluso che la clausola inserita nel contratto di leasing che faccia dipendere gli interessi dovuti dall'utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, costituisca uno strumento finanziario derivato o piuttosto un ‘derivato implicito’.

La clausola di ‘rischio cambio’ non rientra nella nozione di derivato contenuta dell’art. 1 del d.lgs. 58/1998 nè in base alla normativa vigente né in base a quella ratione temporis applicabile (anteriore alle modifiche operate dal d.lgs. 303/2006).

Secondo le Sezioni Unite la clausola in esame non costituisce derivato “per la semplice ragione che attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla; né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati”.

Per effetto del contratto, avente ad oggetto la locazione finanziaria dell'immobile, la società concedente ha assunto l'obbligo di acquistare l'immobile, la società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate.

Non era interesse delle parti, dicono le Sezioni Unite, concludere quel contratto “per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito”.

La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un contratto di leasing ad un indice monetario non costituisce una compravendita né un'opzione, e tanto meno aveva lo scopo di coprire un certo rischio o "scommettere" sull'andamento dei cambi.

La clausola, continuano le Sezioni Unite, “si limitava ad agganciare il debito dell'utilizzatore ad un valore monetario, e questa Corte ha già stabilito che rientrano nella categoria degli "strumenti finanziari collegati alla valuta" soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull'andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d'una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque determinato (Sez. 1, Sentenza n. 19226 del 04/09/2009, in motivazione)”.

Gli elementi fondanti uno strumento finanziario derivato sono principalmente tre (e sono stati individuati dalle S.U. Cass. 8770/2020):

  1. la c.d. "differenzialità", e cioè l'intento delle parti di trarre vantaggio dalla differenza di due valori variabili;
  2. l'esistenza di un "capitale nozionale", cioè la somma di denaro astrattamente assunta quale base di calcolo dei reciproci flussi finanziari tra le parti:
  3. la possibilità - tipica dei derivati - di sciogliersi da esso avvalendosi dell'opzione "mark to market".

I predetti tre requisiti non sussistono nel caso del leasing immobiliare in valuta estera con clausola di ‘rischio cambio’ in quanto l’oggetto del negozio è indubitabilmente l'acquisto di un immobile e non la speculazione su un titolo; il capitale produttivo dei flussi finanziari è reale e realmente dovuto, e non già nozionale; non è prevista la possibilità di sciogliersi avvalendosi dell’opzione.

La clausola di rischio cambio non ‘inquina’ la causa del contratto di leasing

In relazione poi all’altra questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria e cioè “se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing”, le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa.

Per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto al suo schema tipico, abbia mutato causa e natura, occorre attenersi a tre criteri:

  • la qualificazione del contratto come “atipico” deve dipendere dai suoi effetti giuridici, non da quelli economici” nel senso che occorre “avere riguardo all'intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti”;
  • un contratto non muta natura e causa, sol perché uno dei suoi elementi presenti un'occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico” nel senso che il rapporto deve divenire del tutto estraneo al tipo normativo;
  • le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico”.

Ciò premesso, le Sezioni Unite giungono alla conclusione che “la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto, merce' la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa e natura”.

Alla luce dei predetti principi la presenza della clausola di rischio cambio nel contratto di leasing non consente di affermare “che, mercè essa, scopo dell'utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale”.

La clausola di rischio cambio non è contraria a buona fede.

In merito all’ultima questione sollecitata dall’ordinanza interlocutoria, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudizio di meritevolezza del contratto e quello riguardante il rispetto del dovere di buona fede servono a stabilire cose diverse.

Il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre effetti, mentre quello sul rispetto della buona fede serve a stabilire ad esempio, prima della stipula, se il consenso di una delle parti sia stato carpito con dolo o dato per errore, e, dopo la stipula, a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.). Ancora, dopo l'adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto (art. 1375 c.c.).

Mentre il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.

Alla luce di questi noti principi, le Sezioni Unite, hanno affermato che “la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario”.

I principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite

A conclusione della disamina, le Sezioni Unite hanno affermato con la sentenza in commento i seguenti principi di diritto:

- “il giudizio di "immeritevolezza" di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà";

- "La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno "strumento finanziario derivato" implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d.lgs. 58/98".

Per leggere il contenuto integrale della sentenza delle Sezioni Unite clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/5657_02_2023_civ_no-index.pdf

Con la sentenza n. 33719 del 16 novembre 2022 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ponendo fine ad un’annosa querelle giurisprudenziale, si sono espresse circa la sorte del mutuo fondiario concesso in violazione dei limiti previsti dall’art. 38, co. 2, t.u.b. escludendo la nullità dello stesso.

La questione, ritenuta di particolare rilevanza, era stata rimessa allo scrutinio delle Sezioni Unite dalla Prima Sezione della Cassazione con l’ordinanza interlocutoria del 9 febbraio 2022, n. 4117 (oggetto di un nostro precedente commento, clicca qui per leggere l’articolo: “La sorte del mutuo fondiario in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38 del Testo Unico Bancario”).

1. - L’orientamento seguito dalla sentenza della Cassazione n. 26672 del 2013

L’orientamento più risalente ripercorso dalle Sezioni Unite è quello seguito dalla sentenza n. 26672 del 2013 (v. conformi sentenze successive: cfr. n. 27380 del 2013, n. 22446 del 2015, n. 13164 del 2016) che ha escluso che la previsione del limite di finanziabilità di cui all'art. 38, co. 2, t.u.b. possa rientrare nell'ambito applicativo dell'art. 117, co. 8, t.u.b.

Tale norma risulta attribuire alla Banca d'Italia “un potere conformativo o tipizzatorio”, in ragione del quale essa può stabilire il contenuto di certi contratti prevedendo clausole-tipo da inserirenel regolamento negoziale a tutela del contraente debole, mentre l’art. 38, co. 2, t.u.b. conferisce all’organismo di vigilanza “non già il potere di stabilire una certa clausola del contratto di mutuo fondiario bensì solo quello di determinare la percentuale massima del finanziamento che costituisce l'oggetto del contratto e che è quindi un elemento di per sé già tipizzato e costituente una clausola necessaria”.

Le due norme secondo l’orientamento in esame andrebbero poi a tutelare interessi diversi.

L’art. 117 t.u.b. è una norma orientata alla tutela dei contraenti più deboli ed ha lo scopo di “prevenire, tramite l'inserimento di clausole standard, l'utilizzazione da parte delle banche di schemi contrattuali di difficile lettura od interpretazione da parte del cliente ovvero recanti clausole onerose o eccessivamente vessatorie” con l’ovvia conseguenza che le violazioni delle disposizioni della Banca d'Italia attuative dell'art. 117 t.u.b., costituendo fonti di nullità relative, possono essere fatte valere solo dal cliente, cioè dal contraente più debole.

Diversa è invece la situazione sottostante all’art. 38, co. 2, t.u.b., in cui vi è un soggetto, il cliente, che ha tutto l’interesse ad ottenere il finanziamento, peraltro, nel massimo importo possibile e quindi anche a prescindere dal limite di finanziabilità.

Secondo l’orientamento seguito da Cass n. 26672 del 2013, l’art. 38, co. 2, t.u.b. non rileverebbe in quanto norma inderogabile sulla validità del contratto, ma piuttosto come norma di buona condotta la cui violazione comporta l’irrogazione delle sanzioni previste dall'ordinamento bancario, nonché eventuale responsabilità.

Tale giurisprudenza ha escluso che il mutuo fondiario concesso in violazione dei limiti di cui all’art. 38, co. 2, t.u.b. debba ritenersi nullo per contrarietà a norme imperative, in base agli argomenti qui di seguito riassunti:

  • la violazione della norma, pur se imperativa, scaturente dall'art. 38, comma 2, t.u.b. è insuscettibile di provocare la nullità del contratto, non incidendo sul sinallagma contrattuale e, quindi, non concernendo la validità dello stesso, ma investendo esclusivamente il comportamento della Banca tenuta ad attenersi al limite prudenziale ivi stabilito”;
  • "il rispetto del limite del finanziamento non risulta essere una circostanza rilevabile dal contratto, in quanto l'accertamento in proposito può avvenire solo tramite valutazioni estimatorie dell'immobile oggetto di finanziamento suscettibili di opinabilità e soggette a margini di incertezza valutativa e come tali non rilevabili dal testo del contratto”;
  • "la ratio della nuova normativa sul credito fondiario per un verso tende a favorire il ricorso al mutuo fondiario nell'interesse degli imprenditori e, dall'altro, si propone di meglio garantire e tenere indenni le banche che effettuano siffatte operazioni finanziarie con una serie di norme quali, ad esempio, quella sulla revocabilità in sede fallimentare delle ipoteche sottoposta ad un brevissimo termine di dieci giorni”;
  • il limite di finanziamento dei mutui fondiari è una “norma volta ad impedire che le banche si espongano oltre un limite di ragionevolezza a finanziamenti a favore di terzi che, se non adeguatamente garantiti, potrebbero portare a possibili perdite di esercizio”;
  • "essendo il limite di erogabilità del mutuo ipotecario stabilito anche e soprattutto in funzione della stabilità patrimoniale della banca erogante, far discendere dalla violazione di quel limite la conseguenza della nullità del mutuo ormai erogato ed il venire meno della connessa garanzia ipotecaria condurrebbe al paradossale risultato di pregiudicare ancor più proprio quel valore della stabilità patrimoniale della banca che la norma intendeva proteggere".

2. – L’orientamento giurisprudenziale seguito dalla sentenza della Cassazione n. 17352 del 2017: il limite di finanziabilità come elemento essenziale del contratto e l’art. 38, co. 2, t.u.b. come norma imperativa.

Successivamente è andato affermandosi nella giurisprudenza di legittimità un orientamento diverso - inaugurato dalla sentenza della Cassazione n. 17352 del 2017 (seguita da sentenze successive conformi: cfr. sez. I, n. 19016 del 2017, n. 6586, 11201, 13286 e 29745 del 2018, n. 10788 del 2022) - che, pur condividendo con il precedente la non riconducibilità dell’art. 38, co. 2, t.u.b. alla nullità di cui all’art. 117, co. 8, t.u.b., ha tuttavia ritenuto che “la prescrizione del limite massimo di finanziabilità da parte della Banca d'Italia in forza della fattispecie in esame "si inserisce in ogni caso tra gli elementi essenziali perché un contratto di mutuo possa dirsi "fondiario"”.

Dal punto di vista della finalità delle norme in esame, secondo l’orientamento espresso da Cass. 17352 del 2017, l’art 38, co. 2, t.u.b. “risponde a una necessità di analitica regolamentazione dettata da obiettivi economici generali (...) attesa la ripercussione che tali tipologie di finanziamenti possono avere sull'economia nazionale" e a una simile ratio della norma - che "non è volta a tutelare la stabilità patrimoniale della singola banca, ma persegue interessi economici nazionali (pubblici)" - è correlato il trattamento di favore accordato alla banca che eroghi un tal tipo di finanziamento, sul versante del consolidamento breve dell'ipoteca fondiaria (art. 39 del T.u.b.) e della peculiare disciplina del processo esecutivo individuale attivabile pur in costanza di fallimento (art. 41)”.

Data la finalità di ordine pubblico perseguita, l’orientamento in esame non dubitache l'art. 38, co. 2, t.u.b. sia norma imperativa.

Considerato poi che il limite di finanziabilità attiene alla struttura del negozio, il suo superamento non può essere confinato ad una questione di mera responsabilità da comportamento (“la fissazione di un limite di finanziabilità (...) non è confinabile nell'area del comportamento nella fase prenegoziale: l'area cioè della contrattazione tra banca e cliente. Nè è correlabile, ovviamente, alla fase attuativa"; "il punto è che tutte le regole giuridiche sono regole di condotta, con la conseguenza che, se è indubbio che l'art. 38, comma 2, del T.u.b. incide su un contegno della banca, è altrettanto indubbio che la soglia stabilita per il finanziamento ha la funzione di regolare il quantum della prestazione creditizia, per modo da incidere direttamente sulla fattispecie”).

In conclusione, secondo l’orientamento in esame, il limite fissato dall’art. 38, co. 2, t.u.b. costituisce un limite inderogabile all’autonomia privata da cui deriva, nel caso del suo superamento, “la nullità dell'intero contratto fondiario” che può essere, però, ai sensi dell’art. 1424 c.c., su istanza di parte – e non d’ufficio dal Giudice – convertito in un contratto diverso (mutuo ordinario).

3. – L'ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione n. 4117 del 2022

L'ordinanza interlocutoria n. 4117 del 2022 ha evidenziato aspetti critici dell’uno e dell’altro orientamento, in vista di una soluzione diversa della questione controversa (v. il nostro approfondimento al seguente link: La sorte del mutuo fondiario in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38 del Testo Unico Bancario).

4. – La decisione delle Sezioni Unite.

4.1. – Il limite di finanziabilità non è elemento essenziale del contratto.

In accordo con i diversi orientamenti giurisprudenziali sopra descritti, nella sentenza in commento le Sezioni Unite hanno affermato che il contratto di mutuo fondiario con superamento del limite massimo di finanziabilità, in mancanza di un’espressa previsione normativa (non riscontrabile nell'art. 117, comma 8, t.u.b.), sicuramente non configura un’ipotesi di nullità testuale.

Controverso è invece il tema se lo stesso possa essere ricondotto ad un’ipotesi di nullità virtuale.

Le Sezioni Unite ricordano che “la mancanza di una espressa sanzione di nullità non è decisiva al fine di escludere la nullità dell'atto negoziale in conflitto con norme imperative, potendo intendersi che ad essa sopperisca l'art. 1418 c.c., comma 1, in quanto letto come espressivo di un principio di indole generale, rivolto a prevedere e disciplinare proprio il caso in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagni una previsione espressa di nullità del negozio”.

Occorre allora verificare quali siano gli indici sintomatici della imperatività di una norma, che consentono al giudice di dichiarare la nullità del contratto anche nel silenzio del legislatore.

Le norme imperative, secondo la giurisprudenza prevalente, sono quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale. Più in generale ci si riferisce a quelle norme inderogabili concernenti la validità del contratto in modo da distinguerle dalle regole di comportamento che attengono invece alla fase precontrattuale ed esecutiva del contratto.

Per essere imperativa la norma deve disciplinare “direttamente e chiaramente il contenuto specifico ed essenziale del contratto, prima di ogni valutazione inerente alla caratura dell'interesse protetto ed eventualmente leso …In altri termini, una norma prima di essere imperativa dev'essere prescrittiva di un contenuto, specifico e caratterizzante, inerente al sinallagma contrattuale che possa definirsi essenziale, la mancanza del (o difformità dal) quale renderebbe nullo il contratto (ex art. 1418, commi 1 e 2, in relazione agli artt. 1343,1345 e 1346 c.c.)”.

Secondo le Sezioni Unite l’art. 38, co. 2, t.u.b., non individuando un elemento essenziale del contratto, può essere fatto rientrare all’interno di quella categoria di “disposizioni indicative di elementi meramente specificativi, integrativi o accessori di uno dei requisiti del contratto, ovvero genericamente conformativi del modo di atteggiarsi del sinallagma in concreto”.

Il comma 1 e il comma 2 dell’art. 38 t.u.b. sono disposizioni non omogenee diversamente orientate.

Solo la prima delle due disposizioni è volta a stabilire il contenuto essenziale del contratto di mutuo fondiario. Il comma 2, invece, regolamenta il rapporto dell'organismo di vigilanza con le banche vigilate, assegnando alla Banca d'Italia il compito di determinare l'ammontare massimo dei finanziamenti.

Con la conseguenza che tale comma 2 non consente automaticamente di trasferire sul piano del rapporto negoziale con i clienti a valle le conseguenze delle condotte difformi delle banche, al fine di provocare il travolgimento del contratto che si assume viziato per superamento del limite dell’importo finanziabile.

4.1.1. - Gli elementi che portano ad escludere la natura imperativa ed inderogabile dell’art. 38, co. 2, t.u.b.

Un primo elemento che porta ad escludere l’inderogabilità dell’art. 38, co. 2, t.u.b. è dato dal fatto che il limite dell’80% possa essere aumentato sino al 100% in presenza di garanzie integrative offerte dalla parte mutuataria.

Su tale valutazione incide anche il fatto che la norma in esame non indica con precisione gli elementi in grado di determinare il superamento del limite di finanziabilità del mutuo. Ad es. non vengono indicati i criteri di stima del valore dell'immobile, cui viene rapportato in via percentuale l'ammontare massimo del finanziamento. Né viene indicata l'epoca di riferimento della stima. Secondo le Sezioni Unite non si può trascurare “che la determinazione del valore del bene è oggetto di un comportamento dell'istituto di credito che si dispiega nella fase precontrattuale e contrattuale, il cui esito, trasfuso nel testo negoziale, è suscettibile di un giudizio non rispondente a criteri di validità o invalidità contrattuale, ma appropriato alla valutazione di comportamenti negoziali delle parti (e' significativo l'obbligo dei finanziatori di applicare "standard affidabili" di valutazione dei beni immobili nell'attigua normativa sul "credito ai consumatori", art. 120 duodecies del t.u.b.)”.

Un ulteriore elemento contrario alla qualificazione dell’art. 38, co. 2, t.u.b. in termini di imperatività della norma è dato dal fatto che nel contratto di mutuo fondiario l'indicazione del valore del bene offerto in garanzia, o del costo delle opere, non assurge a requisito di forma prescritto ad substantiam.

La nullità, affermano le Sezioni Unite, “è predicabile per violazione di norme di fattispecie o di struttura negoziale solo se immediatamente percepibile dal testo contrattuale, senza laboriose indagini rimesse a valutazioni tecniche opinabili compiute ex post da esperti del settore, come sono invece quelle compiute dai periti cui sia demandato il compito di stimare il bene, ai fini del giudizio sul rispetto del limite di finanziabilità”.

Il rischio – continuano le Sezioni Unite nella loro riflessione - è quello “di minare la sicurezza dei traffici e di esporre il contratto in corso a intollerabili incertezze derivanti da eventi successividipendenti dai comportamenti delle parti nella fase esecutiva (come l'inadempimento o l'insolvenza del mutuatario), tali da innescare la crisi del rapporto negoziale con l'esigenza di verificare ex post l'osservanza del limite di finanziabilità”.

Tali elementi non dovrebbero interferire sulla questione della validità del contratto, questione “che è formale prima che sostanziale”.

Le Sezioni Unite condividono quanto evidenziato dall'ordinanza interlocutoria e cioè che l’art. 38, co. 2, t.u.b., nel conferire alla Banca d'Italia il potere di determinare la percentuale massima del finanziamento, interferisce sul contenuto del contratto non ‘per aggiunta’, ma solo ‘per specificazione’ “imponendo che un elemento intrinseco già presente nel contratto (cioè il suo oggetto) possegga una determinata caratteristica di tipo quantitativo, restando però del tutto invariata la struttura della fattispecie nei suoi fondamentali elementi tipizzati".

Pertanto, le Sezioni Unite escludono che sia configurabile una nullità per un vizio incidente su elementi essenziali intrinseci alla fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto.

4.1.2. – Il silenzio serbato dal legislatore e l’interesse tutelato dall’art. 38, co. 2, t.u.b.

Le Sezioni Unite si volgono poi a verificare se l’art. 38, co. 2, t.u.b. possa integrare una norma imperativa con riguardo alla caratura dell'interesse protetto ed eventualmente leso.

A tal fine nella sentenza in commento viene fatto richiamo ai principi espressi in tema di nullità negoziale dalle Sezioni Unite con la diversa sentenza n. 8472 del 2022 in cui è stato osservato che: "pur nel polimorfismo che caratterizza la nozione di nullità negoziale, un elemento accomunante nella evoluzione giurisprudenziale si coglie nella tendenza attuale a utilizzare tale nozione - e quella di norma imperativa - come strumento di reazione dell'ordinamento rispetto alle forme di programmazione negoziale lesive di valori giuridici fondamentali"; che "nella ricordata evoluzione giurisprudenziale si è intravisto in dottrina il segno del passaggio dal "dogma della fattispecie" al "dogma dell'interesse pubblico", intendendosi con quest'ultima espressione segnalare, in termini critici, l'eccessiva genericità della nozione e discrezionalità rimessa al giudice nella individuazione di sempre nuove ipotesi di nullità, in potenziale frizione con i valori di libertà negoziale e di impresa, seppur nel bilanciamento con altri valori costituzionali”.

Partendo da tale premessa, se è vero che il rimedio della nullità costituisce strumento idoneo a rimodellare il rapporto contrattuale secondo canoni e criteri valutativi fondamentalmente preordinati ad obiettivi di equità, proporzionalità e giustizia, però, d’altra parte, - precisano le Sezioni Unite nella sentenza in commento – tali obiettivi “dovrebbero pur sempre essere vagliati preventivamente dal legislatore il cui silenzio, lungi dall'essere irrilevante o neutro, molto spesso è decisivo nel senso di escludere la nullità”.

Il silenzio del legislatore nel caso dell’art. 38, co. 2, t.u.b. non è, dunque, irrilevante. Secondo le Sezioni Unite l'assenza di un’esplicita previsione legislativa, che stabilisca l’invalidità del mutuo concesso oltre i limiti imposti dalla norma in esame, “costituisce un elemento che esclude una voluntas legis volta a sanzionare con l'invalidità un finanziamento bancario con garanzia insufficiente”. Nel caso di specie non sussiste neppure un interesse del mutuatario in caso di superamento del limite di finanziabilità del mutuo.

Nel proseguire nella loro analisi interpretativa, le Sezioni Unite trovano arduo identificare l'interesse tutelato dalla norma in esame nelle “ripercussioni che tali tipologie di finanziamenti possono avere sull'economia nazionale o nel fatto di essere (la norma) espressione della "politica economica" o di "obiettivi economici generali"”.

Lo scopo dell’art. 38, co. 2, t.u.b., che è sicuramente quello di preservare la stabilità patrimoniale degli istituti di credito e di impedire il verificarsi di situazioni di squilibrio tra garanzie acquisite e concessione di credito, pur presentando profili di interesse pubblico, non basta a connotare l’art. 38, co.2, t.u.b. in termini imperativi.

Le Sezioni Unite non ritengono convincenti i ragionamenti svolti da alcune decisioni (cfr. Cass. sez. I n. 11201 e 13286 del 2018) secondo cui l'interesse pubblico sottostante all’art. 38, co. 2, t.u.b. dovrebbe essere inteso come "interesse alla corretta concorrenzialità del mercato del credito" e “a contrastare "i rischi espoliativi" cui sarebbe soggetto il mutuatario per il pericolo che il debitore, avendo ottenuto un finanziamento eccessivo, possa subire l'esproprio della residua parte del proprio patrimonio”.

In particolare con riferimento alla corretta concorrenzialità del mercato del credito, le Sezioni Unite ritengono che tale concorrenzialità si realizza proprio offrendo alla clientela maggiori possibilità di accesso al credito: risultato questo cui non si perviene con la sanzione della nullità.

A conclusione del ragionamento, affermano le Sezioni Unite che “la scelta di politica economica compiuta dal legislatore è stata, come si è detto, di favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare ampliando la possibilità di far ricorso ai finanziamenti, contemperandola però con l'esigenza di contenere il rischio per le banche erogatrici a tutela della loro stabilità finanziaria. Intravedere in tale esigenza (alla sana e prudente gestione delle banche) un interesse corrispondente a un valore giuridico fondamentale, di per sé indicativo della imperatività della disposizione in questione (art. 38, comma 2), stride anche con l'assenza nell'ordinamento di norme imperative attinenti al contenimento del rischio predetto nelle altre tipologie di finanziamenti erogati dalle banche che ben possono essere non assistiti da alcuna garanzia”.

4.2. – Sulla non percorribilità della riqualificazione del contratto alla stregua di un mutuo ipotecario ordinario

In ultima analisi, nella sentenza in commento, le Sezioni Unite si sono chieste se, come suggerito dall’ordinanza interlocutoria, una volta esclusa la nullità per violazione di norma imperativa, il mutuo concesso oltre il limite di cui all’art. 38, co. 2, t.u.b. possa essere riqualificatoalla stregua di un mutuo ipotecario ordinario “prescindendo dal nomen iuris adoperato dalle parti e sterilizzandolo delle tutele speciali previste dalla legge, in favore del mutuante, per i finanziamenti fondiari”.

Le Sezioni Unite ritengono che, nonostante la pacifica non conformità del mutuo fondiario concesso oltre i limiti di finanziabilità al modello tipizzato dall'art. 38 t.u.b., non sia “consentito all'interprete intervenire (d'ufficio) sugli effetti legali del contratto per neutralizzarli, facendo applicazione di un diverso modello negoziale (mutuo ordinario) non voluto dalle parti, seppure appartenente alla stessa famiglia o genus contrattuale”.

Se da una parte, l’operazione di qualificazione del contratto, ricordano le Sezioni Unite, è compito del giudice e non dei contraenti (il giudice non è vincolato al nomen juris dato dalle parti e può correggere la qualificazione data quando riscontri che essa non corrisponde alla sostanza del contratto o dell'operazione negoziale), dall’altra, le determinazioni dei contraenti rispetto alla qualificazione del contratto non sono del tutto irrilevanti essendo la qualificazione stessa del contratto direttamente influenzata dalla loro volontà.

Sul punto le Sezioni Unite hanno espressamente affermato che “Se le parti qualificano un contratto in un certo modo (ad esempio, come "mutuo fondiario") sussistendone le caratteristiche essenziali identificative, col deliberato proposito di regolare il rapporto secondo la pertinente disciplina, il giudice, in via di principio, non può disattendere la loro qualificazione a favore di una qualificazione (anche parzialmente) diversa ritenuta più adeguata secondo parametri normativi astratti, a meno che la stessa qualificazione non sia specificamente contestata in giudizio (e quindi rimessa al giudice) o ricorrano le condizioni per la conversione del contratto (art. 1424 c.c.), ma ciò presuppone che ne sia fondatamente contestata la validità e non è questo il caso, essendo stata esclusa la nullità del mutuo fondiario stipulato dai contraenti, in relazione a entrambi i dedotti profili del superamento del limite di finanziabilità e della destinazione della somma mutuata a ripianare passività pregresse”

Nel caso di mero errore qualificatorio dei contraenti nella denominazione di un contratto, la ridenominazione (o riqualificazione) è sempre possibile anche d'ufficio. In tale caso l'operazione qualificatoria del giudice non incide sul regolamento di interessi convenuto dai contraenti.

Un’analoga opera di riqualificazione, secondo il Collegio, “non è invece consentita per correggere o integrare il regolamento di interessi volutamente e validamente assunto dai contraenti secondo un determinato tipo o sottotipo negoziale per adeguarlo d'autorità a un diverso tipo o sottotipo legale non corrispondente alla loro volontà comune.”

Le Sezioni Unite affermano che, nel caso di specie sottoposto al loro scrutinio, essendo stata denunciata infondatamente l'invalidità del contratto per contrasto con le norme riguardanti il mutuo fondiario (sul presupposto però della corrispondenza di tale operazione negoziale alla comune volontà delle parti), “la riqualificazione d'ufficio del contratto come ordinario mutuo ipotecario non è operazione praticabile, risolvendosi in una impropria correzione o manipolazione del regolamento di interessi validamente convenuto tra le parti, al fine di privarlo in concreto dei relativi effetti legali”.

4.2. – I principi di diritto enunciati.

In merito alle questioni sopra esaminate le Sezioni Unite hanno affermato, nella sentenza in commento, i seguenti principi di diritto:

  • In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 38, comma 2, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell'oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione - qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all'Autorità di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell'ambito della "vigilanza prudenziale" (cfr. art. 51 ss. e art. 53 t.u.b.) - la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), potrebbe condurrebbe al risultato di pregiudicare proprio l'interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito”;
  • qualora i contraenti abbiano inteso stipulare un mutuo fondiario corrispondente al modello legale (finanziamento a medio o lungo termine concesso da una banca garantito da ipoteca di primo grado su immobili), essendo la loro volontà comune in tal senso incontestata (o, quando contestata, accertata dal giudice di merito), non è consentito al giudice riqualificare d'ufficio il contratto, al fine di neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo o sottotipo negoziale validamente prescelto dai contraenti per ricondurlo al tipo generale di appartenenza (mutuo ordinario) o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità, la quale implicitamente postula la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario”.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20221116/snciv@sU0@a2022@n33719@tS.clean.pdf

Sullo stesso argomento leggi anche La sorte del mutuo fondiario in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38 del Testo Unico Bancario.

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