Con l’ordinanza interlocutoria n. 11898 del 3 maggio 2024, la Cassazione ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di stabilire la compatibilità del nuovo art. 127-ter c.p.c. con il rito del lavoro.

La possibilità per il giudice di sostituire l’udienza con lo scambio di note di trattazione scritta era stata introdotta durante la pandemia da Covid-19.

Con l’avvento della Riforma Cartabia il modulo procedimentale è stato stabilizzato e fatto rientrare nell’ambito dei nuovi poteri di direzione dell’udienza attribuiti al giudice dall’art. 127 c.p.c.

Nell’ordinanza in commento la Cassazione ha affrontato il tema riguardante per l’appunto la compatibilità o meno della trattazione scritta, introdotta stabilmente dall’art. 127ter c.p.c., con l’udienza di discussione prevista nel rito del lavoro (e più in generale con tutti quei procedimenti a cui si applicano le norme sul rito del lavoro), vista la mancanza di specifiche disposizioni di coordinamento.

Sulla questione di sono contrapposti fin da subito due orientamenti.

A favore della compatibilità, militerebbero elementi di carattere sistematico, come la collocazione della disposizione nell’ambito del Libro I del Codice di procedura civile, recante le “Disposizioni generali” del medesimo, precisamente nel Titolo dedicato agli “atti processuali” e nella Sezione che stabilisce la disciplina “Delle udienze”.

Tale collocazione dovrebbe indurre a ritenere applicabile la disposizione all’intero sistema processuale civile. Ne sarebbe una conferma il fatto che il legislatore della riforma, dove ha inteso precludere l’adozione di siffatta possibilità procedimentale, lo ha fatto esplicitamente, come nel caso dell’udienza pubblica in Cassazione con l’art. 379, comma 1, c.p.c.

Per l’orientamento in esame, non costituirebbe un ostacolo alla compatibilità dell’art. 127ter con il rito del lavoro, neppure il principio della pubblicità declinato all’art. 128 c.p.c.

La giurisprudenza costituzionale, anche in relazione all’art. 6 della Convenzione EDU così come interpretato dalla Corte di Strasburgo (cfr., tra molte, Corte EDU, 6 novembre 2018, Ramos Nunes de Carvalho e Sà vs Portogallo), ha affermato che “il principio della pubblicità non ha carattere assoluto e può subire deroghe” (cfr. Corte cost. n. 263 del 2017 e n. 73 del 2022), potendo lo stesso essere limitato anche “nell’interesse della giustizia” e, come nel caso di specie, “nell’esigenza prioritaria di consentire una più efficiente organizzazione del processo e del lavoro del giudice, nella dovuta osservanza degli “obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile” fissati dalla legge delega n. 206 del 2021”.

Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, “non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità” (ancora Corte cost. n. 263/2017 cit.).

La maggiore efficienza assicurata dalla trattazione scritta non colliderebbe col rispetto del principio del contraddittorio in quanto lo stesso sarebbe comunque garantito “dal prudente apprezzamento del giudice, il quale sostituirebbe l’udienza solo per quelle fasi processuali, anche in relazione a certe tipologie di cause, in cui non risulti necessaria l’interlocuzione orale” e dalla facoltà di opporsi delle parti alla stessa scelta del giudice.

Inoltre, sottolineano i fautori del predetto orientamento, l’originaria struttura del processo del lavoro, articolato nell’unica udienza di discussione di cui all’art. 420 c.p.c. e ispirato ai princìpi di oralità, concentrazione e immediatezza, nella prevalente applicazione pratica, costituisce “oramai solo un ricordo”. Non solo, ma la discussione orale della causa, seguita dalla lettura del dispositivo in udienza con motivazioni contestuali rappresenta, nell’applicazione pratica, “un mero simulacro”.

Al contrario, secondo altro orientamento, l’art. 127ter c.p.c. non risulterebbe applicabile al rito del lavoro prima di tutto per ragioni di ordine ‘strutturale’, risultando la norma in esame incompatibile “con le cadenze temporali che nel rito speciale disciplinano la costituzione del convenuto, con la conseguenza che non potrebbe essere disposta la sostituzione dell’udienza ex art. 420 c.p.c. con il deposito di note scritte già nel decreto di cui all’art. 415, comma 2, c.p.c., perché altrimenti al convenuto, non ancora costituito, sarebbe preclusa la possibilità di opporsi alla sostituzione stessa”.

Altresì contraddittorio risulterebbe prevedere lo scambio di note scritte per l’esplicazione di attività, quali l’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione, che invece presuppongono “la contestuale interlocuzione tra i protagonisti del processo”.

Altro elemento, a sostegno dell’incompatibilità dell’art. 127ter c.p.c. quanto meno con la ‘fase decisoria’ del processo del lavoro, è costituito dal “dato letterale” della norma stessa, in forza della quale le note scritte da depositare devono contenere “le sole istanze e conclusioni”.

La norma sembrerebbe escludere la discussione orale della causa che invece implica “una più ampia illustrazione delle rispettive difese, in un contesto dialogico e in diretto contatto con il giudice percipiente”.

Ad escludere la compatibilità dell’art. 127-ter con il rito in esame vi sarebbero ragioni di interesse pubblico sottese al principio della pubblica udienza, e cioè il controllo democratico sull’operato del giudice.

Dopo aver ricostruito il dibattito giurisprudenziale e dottrinario sorto intorno alla questione, ravvisata la particolare importanza della questione e il suo rilievo nomofilattico, il Collegio ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per la eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

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