Con la sentenza n. 14178 del 5 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia pronunciata la condanna dell'intermediario al risarcimento del danno patito dall'investitore, in ragione dell'inadempimento ai propri obblighi, quantificato sull'assunto della perdita di integrale valore dei titoli al momento della decisione, va del pari disposta la restituzione dei titoli medesimi, quale espressione del medesimo principio di cui all'art 1223 c.c., del risarcimento effettivamente corrispondente al danno, ogni qualvolta il loro residuo valore venga reputato, al momento della decisione, pari a zero, ma non risulti altresì in giudizio l'impossibilità di un successivo incremento del valore stesso, per essere stati i titoli annullati, definitivamente ceduti o per qualsiasi altra concreta evenienza”.

1. - La vicenda in esame

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione trae origine da un’azione promossa da due investitori volta al risarcimento delle perdite subite con riguardo a due ordini di acquisto di obbligazioni a causa dell’inadempimento della Banca agli obblighi informativi gravanti sulla stessa in qualità di intermediario.

La domanda di risarcimento del danno, respinta in primo grado, è stata invece accolta dalla Corte d’appello di Catania che, in riforma della sentenza impugnata, ha condannato la Banca al risarcimento del danno, ritenendo che quest’ultima avesse violato l’obbligo, contrattualmente assunto, di informare gli investitori di qualsiasi violazione in negativo degli indici di rischio.

La Banca ha impugnato la sentenza di secondo grado proponendo ricorso per cassazione affidato a 4 motivi.

2. – La sentenza in commento e i principi espressi

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di legittimità ha ritenuto fondato solo il 4° motivo di ricorso proposto dalla Banca con il quale quest’ultima ha censurato la sentenza di secondo grado per aver violato l’art. 1223 c.c., avendo negato il diritto della banca alla restituzione dei titoli, necessario per una corretta liquidazione del danno agli investitori.

Secondo la Corte, così come in materia di responsabilità contrattuale la prova del danno deve essere data dal danneggiato, così nella materia dell’intermediazione finanziaria l’investitore è tenuto ad allegare l’inadempimento degli obblighi informativi da parte dell’intermediario, nonché a fornire la prova del pregiudizio patrimoniale subito derivante dall’investimento e del nesso causale tra l’inadempimento e il danno lamentato.

Grava dunque sull’investitore dimostrare l’avvenuta perdita del capitale investito nell’acquisto titoli in conseguenza dell’impossibilità definitiva di ottenerne il rimborso da parte dell’emittente o della difficoltà di ricollocarli utilmente sul mercato finanziario sia pure ad un prezzo notevolmente inferiore al valore nominale.

La Corte nella sentenza in esame ha poi chiarito che nel caso in cui l’investitore non sia in grado di fornire la prova dell’impossibile recupero di valore residuo dei titoli anche in futuro, i titoli andranno restituiti “ai fini del rispetto del principio dell’esatto e non superiore reintegro del pregiudizio cagionato”, in quanto l'accertato valore nullo dei titoli ad una certa data non significa mancanza di valore anche in epoca successiva.

I titoli possono, secondo regole di comune esperienza, continuare a costituire oggetto di scambio sul mercato, nella prospettiva di un futuro rimborso, sia pure parziale, del relativo importo. Il default potrebbe avere comportato non già l'estinzione del debito, ma soltanto una sospensione delle restituzioni.

Laddove invece in giudizio venga definitivamente accertata l'insuscettibilità del titolo di produrre qualunque futura utilità per il patrimonio del cliente, si potrà prescindere dalla restituzione dei titoli, non potendosi parlare in tal caso di una sicura locupletazione in mancanza della restituzione.

Iprincipi regolatori del risarcimento del danno, che richiedono che esso copra l'intero pregiudizio sofferto e non produca, invece, un indebito arricchimento del danneggiato, secondo la Corte di legittimità, “implicano la necessità, in caso di condanna dell'intermediario al risarcimento del danno patito dall'investitore, commisurato all'integrale perdita di valore dei titoli ad un dato momento (e, quindi, con rimborso della esatta somma investita, detratto solo quanto in precedenza perduto per cause indipendenti dall'inadempimento dell'intermediario) di accogliere nel contempo la domanda restitutoria dei titoli medesimi, perlomeno tutte le volte che il loro residuo valore sia stato considerato pari a zero, ma non vi sia la prova che tale rimanga in via definitiva (ad esempio, per essersi ormai il cliente definitivamente privato dei titoli senza corrispettivo, o per annullamento dei medesimi, o altre evenienze)”.

In chiave sistematica, la Corte di Cassazione nella sentenza in commento arriva alla conclusione per cui la condanna al risarcimento del danno, quando pari all’intero valore dei titoli in favore dell’investitore al momento del mancato disinvestimento, contiene in sé l’accertamento implicito del sopravvenuto venire meno della causa dell’attribuzione del pagamento di quel valore, e, dunque, anche del diritto di mantenere i titoli nel proprio patrimonio.

Afferma altresì che “Se è vero che permane la distinzione concettuale tra restituzione e risarcimento, in casi come quello all'esame il risultato finale tende a sovrapporsi, in quanto l'obbligazione risarcitoria dovuta della parte inadempiente coincide con la restituzione (di una parte) della somma investita (cfr. spunti in Cass. 11 marzo 2020, n. 7016). La causa dell'attribuzione dei titoli è nel contratto di investimento finanziario, attuato con lo specifico ordine; restituita, però, la somma pari al valore dei titoli che è andato perduto, del pari viene meno la giusta causa di attribuzione della res”.

Infine, la Corte, richiamando la regola fissata dall’art. 2041 c.c., secondo cui il nostro ordinamento non tutela spostamenti privi di causa (principio del divieto di indebito arricchimento), ha affermato che nel caso in cui i titoli non fossero restituiti, pur in mancanza di prova di una definitiva cessazione di valore, potrebbe residuare per l’intermediario l’azione di indebito arricchimento, qualora tale valore risultasse in seguito riacquisito a beneficio dell’investitore.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20220505/snciv@s10@a2022@n14178@tS.clean.pdf

Con l’ordinanza n. 7385 del 16 marzo 2021 la 3ª sezione civile della Corte di Cassazione, ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Milano che, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva respinto la richiesta di risarcimento danni avanzata dai genitori di una bambina nata con una grave patologia cromosomica non diagnosticata dalla struttura sanitaria.

I Giudici di merito avevano rigettato la richiesta di risarcimento danni dei ricorrenti non avendo la gestante dimostrato che, laddove tempestivamente informata dell’anomalia fetale, la stessa avrebbe fatto ricorso all’interruzione della gravidanza (mancata prova di una propria propensione abortiva). Inoltre, negavano la ricorrenza del diritto della neonata al risarcimento del danno derivante dalla propria nascita non desiderata in quanto affetta da patologia cromosomica non comunicata alla madre, non trovando accoglimento nell’ordinamento italiano l’asserito diritto di non nascere se non sani.

Nella pronuncia in commento la Cassazione si è soffermata sull’individuazione dei danni risarcibili derivanti dall’omessa diagnosi prenatale sia sotto il profilo della violazione del diritto all’autodeterminazione quanto sotto il profilo del danno patito dalla neonata per il ritardo con cui erano state diagnosticate le patologie da cui era affetta.

L’omessa diagnosi prenatale di patologie fetali incide non solo sulle scelte abortive della gestante, ma può avere anche altre conseguenze parimenti meritevoli di essere risarcite. Laddove i genitori fossero stati informati della malattia del feto avrebbero potuto prepararsi psicologicamente e materialmente alla nascita di un bambino con problemi, in quanto avrebbero potuto programmare interventi chirurgici o cure tempestive per eliminare il problema o attenuarne le conseguenze predisponendo anche una diversa organizzazione di vita.

I ricorrenti hanno censurato la sentenza per non aver tenuto in considerazione il fatto che, a causa della omissione, gli stessi sono stati così privati della facoltà di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento, nonché della possibilità di chiedere il parere di altri medici o di rivolgersi ad altra struttura sanitaria.

La conoscenza dello stato di salute del feto, afferma la Cassazione, si pone quale antecedente causale di una serie di altre possibili scelte, non solo di natura terapeutica (come può essere l’interruzione della gravidanza), ma anche di natura esistenziale e familiari, svolgendo la diagnosi prenatale una pluralità di funzioni.

La Cassazione conclude ricordando che, in forza dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., la lesione del diritto a prepararsi al trauma della nascita di una figlia o di un figlio affetto da gravi patologie dà luogo ad un danno patrimoniale risarcibile solo allorquando lo stesso sia causalmente collegato all’inadempimento informativo e superi la soglia della gravità dell’offesa secondo quanto statuito dalle sentenze di San Martino.

La Suprema Corte non affronta invece la questione relativa alla propagazione soggettiva dei suddetti danni, rinviando al giudice di merito stabilire se in concreto tale danno vi sia stato, chi lo abbia subito e quale ne sia stata l’entità. Infine, rileva che sul piano generale la tutela risarcitoria anche del padre è stata ormai affermata dalla giurisprudenza di legittimità con la pronuncia n. 20320 del 20 ottobre 2005.

Concludendo, anche, ed anzi soprattutto nella materia della diagnosi prenatale, l’adempimento dell’obbligo informativo da parte del medico assume una rilevanza particolarmente pregnante, per la ricchezza delle possibili scelte di vita che un’informazione puntuale e completa può dischiudere alla parte titolare del corrispondente diritto.

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