I migranti trattenuti per dieci giorni sulla nave “U. Diciotti” hanno diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla privazione della libertà personale.

Questa la conclusione delle Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza del 6 marzo 2025, n. 5992.

Il caso

Il giudizio deciso dal Supremo Collegio origina dalla vicenda, nota alle cronache politiche, di un gruppo di migranti trattenuti sulla nave della Guardia Costiera, “U. Diciotti” dal 16 al 25 agosto 2018, a causa del mancato consenso del Governo italiano all’attracco della imbarcazione nel porto di Catania. Alcuni dei migranti coinvolti si sono rivolti al Tribunale di Roma chiedendo la condanna della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni non patrimoniali che hanno assunto di aver subito per effetto del trattenimento a bordo e del mancato sbarco.

Il Tribunale ha dichiarato l’assoluta carenza di giurisdizione ritenendo che i comportamenti censurati avessero la natura di atti politici. La Corte d’Appello, pur ritenendo sussistere la giurisdizione ordinaria, ha tuttavia respinto nel merito la domanda degli appellanti in difetto della colpa della Pubblica Amministrazione.

Hanno proposto ricorso per cassazione i migranti – censurando la sentenza di merito per il mancato accoglimento della domanda risarcitoria – e ricorso incidentale (condizionato) l’Amministrazione, con riguardo alla questione della giurisdizione.

La giurisdizione

Le Sezioni Unite, esaminando in via preliminare il ricorso incidentale, confermano la sussistenza della giurisdizione ordinaria, escludendo che “nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipologici dell'atto politico per così dire «puro», come tale sottratto al sindacato giurisdizionale”.

Il Supremo Collegio ribadisce il principio secondo cui “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto” (in questi termini la Corte Costituzionale, sentenza n. 81 del 2012).

Venendo in gioco “i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”, la Corte esclude che “il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale”. Si è, infatti, in presenza di un atto espressione di una funzione amministrativa che, seppur da svolgere in attuazione di un indirizzo politico, è limitata da una regolamentazione, nazionale e internazionale.

La violazione delle disposizioni nazionali e internazionali in materia di soccorso in mare

Affermata la giurisdizione in capo al Giudice Ordinario, le Sezioni Unite sottopongono a critica gli snodi motivazionali della Corte d’Appello, passando in rassegna gli elementi fondanti la responsabilità risarcitoria in capo all’autorità governativa.

L’ordinanza muove dalla ricognizione del quadro normativo all’interno del quale si collocava la vicenda, rilevando che:

Specificamente, la Convenzione di Amburgo “obbliga gli Stati costieri ad assicurare un servizio di “Search and Rescue” nelle zone marittime di competenza, ripartite d’intesa tra gli stessi, ed a coordinare tra di loro i vari servizi SAR”. A norma dell’art. 3.1.9. della medesima Convenzione, lo Stato responsabile del soccorso “deve organizzare lo sbarco «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» …, fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso; è solo con la concreta indicazione del POS, e con il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato, che, infatti, l'attività di Search and Rescue può considerarsi conclusa”.

Dal canto suo, la Risoluzione MSC. 167(78) del 20 maggio 2004 (Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave stessa possa esser considerata un “luogo sicuro” (POS), se non temporaneamente (par. 6.13.) (in questi termini, Cass. pen. 16 gennaio 2020, n. 6626, relativa al “caso Rackete”; v. anche Cons. Stato, 25 febbraio 2025, n. 1615).

Così ricostruito il dato normativo di riferimento, la Corte evidenza che, nel caso di specie, “le operazioni di soccorso erano state di fatto assunte sotto la responsabilità di una autorità SAR italiana, la quale era tenuta in base alle norme convenzionali a portarle a termine, organizzando lo sbarco, «nel più breve tempo ragionevolmente possibile»”.

Conclude quindi che “la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale”.

Nella prospettiva delle Sezioni Unite, dunque, la Corte d’Appello ha trascurato di considerare che le valutazioni tecniche in merito all’individuazione del punto di sbarco più opportuno prescindono da considerazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori.

La (arbitraria) violazione della libertà personale

L’ordinanza in commento ritiene, sotto altro angolo visuale, doversi verificare se il trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti integri un’arbitraria restrizione della libertà personale (art. 13 Cost.).

Assume rilievo decisivo, in tal senso, l’art. 5 par. 1 lett. f) della Convenzione europea per la  salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (CEDU) il quale “ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione”.

Muovendo dalla disposizione in questione, la Corte esclude che

  • il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato nell’ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione”,
  • il trattenimento integri una “misura (assimilabile all’arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l’ingresso illegale nel territorio”.

La limitazione della libertà personale non trovava una base legale nel diritto interno, risultando così violata la riserva di legge e di giurisdizione ex art. 13 Cost.

L’elemento soggettivo

Accertata l’illegittimità dell’atto, la Corte ritiene, ai fini dell’affermazione della responsabilità, doversi indagare la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa in capo alla P.A.

Occorre sul punto evidenziare che la Corte d’Appello aveva fondato l’esclusione della colpa del Governo, sui seguenti argomenti:

  • le Autorità nazionali hanno agito in una situazione di incertezza normativa tale da escludere la sussistenza della colpa;
  • non appare comunque sussistente, in termini di certezza, un obbligo giuridico – in capo allo Stato competente – di rilasciare il POS ovvero di rilasciarlo entro un determinato termine e secondo determinate modalità.

La Corte non negarilevanza, quale causa di esclusione della colpevolezza, all’errore scusabile, il quale presuppone, però, “l'inevitabilità dello stesso, determinata da cause oggettive, estranee all'agente”.

Su questa premessa l’ordinanza in esame rileva che “Il riferimento alla «complessità e non univocità della normativa di riferimento» e alla «indeterminatezza normativa, oltre che fattuale, in ordine al riparto delle competenze nell’ambito della generale attività SAR nel Mediterraneo»” si appalesagiustificazione,

  • da un lato, “intrinsecamente debole, dal momento che il quadro delle norme convenzionali di riferimento, come sopra riassunto, appare al contrario sufficientemente chiaro, in particolare nell’evidenziare le responsabilità dello «Stato di primo contatto» anche in caso di rifiuto dello Stato competente secondo la zona SAR”;
  • dall’altro, non esaustiva “in relazione alla diversa prospettiva di riferimento, rappresentata dalle norme, costituzionali e sovranazionali, a tutela del fondamentale diritto della libertà personale”.

Prosegue quindi il Supremo Collegio, dal momento che a fondamento della domanda è posta la lesione del diritto inviolabile alla libertà personale, la “pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS e autorizzare allo sbarco” non potrebbe comunque costituire una ragione scriminante della condotta illegittima al di fuori di “ragionevoli limiti temporali”, traducendosi altrimenti “in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l’ordinamento costituzionale e sovranazionale”.

Ai fini di escludere la responsabilità civile del Governo non assumerebbe rilievo nemmeno il diniego di autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno per il caso "Diciotti". Infatti, sul piano dell’ingiustizia del danno, ex art. 2043 c.c., nella prospettiva del bilanciamento tra gli opposti interessi, l’interesse pubblico sottostante alla condotta (sottratto alla valutazione del giudice penale) non può prevalere su quello individuale che ne risulta leso, incidendo la condotta contestata su diritti della persona inviolabili “e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso”.

Conclude, sul punto, l’ordinanza che, “Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, … la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato … non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale”.

La misura risarcitoria

La Cassazione, accertata l’illegittimità della condotta dell’Autorità governativa, ribadisce l’impossibilità di ricondurre il danno non patrimoniale ad un “danno evento”, non rilevando, ai fini risarcitori “la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano”.

È anche vero che “tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti”.

Le Sezioni Unite rilevano, quindi, che “in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta”. Tanto più “ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire”, all’esistenza del quale non corrisponde sempre “una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato”.

In tali casi all’attore è richiesto un puntuale onere di allegazione cui non corrisponde un onere probatorio parimenti ampio.

Su queste premesse le Sezioni Unite rinviano la causa alla Corte d’Appello di Roma ai fini della determinazione della misura risarcitoria spettante ai migranti.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 4892 del 25 febbraio 2025, si sono pronunciate sulla risarcibilità del danno da mancato guadagno conseguente alla risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ove il bene sia stato rilasciato prima della scadenza naturale del contratto.

1. La vicenda processuale

Nella fattispecie decisa dalle Sezioni Unite il conduttore si era reso moroso nel pagamento di taluni canoni di locazione. Il locatore aveva quindi attivato il procedimento di rilascio, ottenendo la restituzione dell’immobile, in epoca antecedente alla naturale scadenza del contratto di locazione.

La medesima società locatrice aveva agito per ottenere il risarcimento dei danni dalla stessa subiti in conseguenza del comportamento contrattuale del conduttore, quantificati in misura corrispondente a tutti i canoni di locazione non corrisposti fino alla data di naturale scadenza del contratto o, quantomeno, fino alla data dell’eventuale conclusione di una nuova locazione, oltre al pagamento delle spese relative al procedimento di convalida dello sfratto.

La domanda risarcitoria era stata rigettata nei gradi di merito sulla base dell’assunto che “la materiale riconsegna dell’immobile locato prima della naturale scadenza del contratto era valsa a escludere la sussistenza di alcun residuo pregiudizio a carico della locatrice, segnatamente in relazione alla mancata percezione dei canoni fino alla scadenza del contratto”,dovendo ritenersi che il patrimonio del locatore “era stato adeguatamente reintegrato attraverso il ripristino del materiale godimento dell’immobile, non essendo emersa alcuna impossibilità di ristabilire detto godimento, secondo le modalità precedentemente usufruite, per fatto imputabile al conduttore”.

Ha proposto ricorso per cassazione il conduttore, censurando, nell’ambito del primo motivo di ricorso, la sentenza d’appello per avere negato il risarcimento dei danni relativi al conseguimento dei canoni di locazione fino alla naturale cessazione del contratto di locazione.

2. La questione sottoposta alle Sezioni Unite

Con ordinanza interlocutoria n. 31276 del 9 novembre 2023, di cui ci siamo occupati (Claudio Scognamiglio, Rimessa alle Sezioni Unite la questione della prova del danno risarcibile in favore del locatore in caso di risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore) la Terza Sezione Civile ha rimesso alla Prima Presidente della Corte di cassazione, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione se, in caso di risoluzione anticipata del contratto di locazione, al locatore spetti, a titolo di risarcimento del danno, una somma commisurata al canone convenuto, calcolata dal giorno del rilascio fino alla scadenza del contratto o, se anteriore, fino alla data di conclusione di un nuovo contratto.

Le Sezioni Unite, nel pronunciarsi sulla questione, danno conto del contrasto venutosi a creare nella giurisprudenza del Supremo Collegio:

  • Secondo un primo orientamento, prevalente seppur più risalente, “il locatore, che abbia chiesto ed ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per la anticipata cessazione del rapporto, da individuare nella mancata percezione dei canoni concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore, ed il cui ammontare è riservato alla valutazione del giudice di merito sulla base di tutte le circostanze del caso concreto” (su tutte, Cass., 5 gennaio 2023, n. 194; Cass., 7 febbraio 2020, n. 8482). In altre parole, il rilascio dell’immobile non neutralizza il danno del mancato conseguimento del canone fino alla scadenza del rapporto contrattuale. Nell’ambito di tale orientamento si è poi precisato che “il danno risarcibile non corrisponde ut sic alla mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore, ma è necessario l’apprezzamento da parte del giudice del merito di tutte le circostanze del caso concreto”.
  • Secondo altro orientamento, recepito dalla sentenza di merito, “la mancata percezione da parte del locatore dei canoni che sarebbero stati esigibili fino alla scadenza convenzionale o legale del rapporto, ovvero fino al momento in cui il locatore stesso conceda ad altri il godimento del bene con una nuova locazione, non configura di per sé un danno da “perdita subita”, né un danno da “mancato guadagno”, non ravvisandosi in tale mancata percezione una diminuzione del patrimonio del creditore-locatore rispetto alla situazione nella quale egli si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’inadempimento del conduttore, stante il carattere corrispettivo del canone rispetto alla privazione del godimento, mentre un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può, invece, configurarsi se, per le concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell'obbligazione di rilascio nei sensi dell'art. 1590 cod. civ.” (Cass. n. 1426 del 2017; n. 27614 del 2013).

3. La ricostruzione proposta dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite ritengono doversi dare seguito al primo orientamento.

La sentenza in commento, in particolare, muove dalla critica all’indirizzo – condiviso dalla Corte di merito – secondo cui la restituzione dell’immobile escluderebbe l’esistenza di un danno risarcibile, nella misura dei canoni che sarebbero stati esigibili sino alla scadenza del contratto.

Tale indirizzo si fonda sull’assunto secondo cui la “causa del contratto di locazione si sostanzierebbe nella relazione funzionale asseritamente esistente tra la ‘rinuncia’, da parte del locatore, al godimento diretto del proprio immobile e il ‘compenso’ costituito dal pagamento del canone da parte del conduttore”. Il canone costituirebbe dunque una “modalità di fruizione indiretta dell'utilità sottesa al godimento del bene sostitutiva del possibile godimento diretto. Godimento diretto che il locatore, se conservasse la detenzione del bene potrebbe, si badi, esercitare con l’estrinsecazione della facoltà di godimento materiale su di esso” (così Cass., 10 dicembre 2013, n. 27614).

 La Corte rileva che la tesi che individua la causa della locazione nella preliminare ‘rinuncia al godimento diretto’ non considera che non necessariamente in capo al locatore risiede un interesse al godimento diretto del proprio immobile, compensato dal canone.

Dovrebbe invece essere valorizzata la dimensione dello scambio “tra l’utilità economico-sociale rappresentata dal godimento di un bene immobile e l’importo monetario del canone”, scambio in forza del quale il locatore soddisfa il suo interesse alla “‘trasformazione’, in una definitiva disponibilità monetaria, della temporanea utilizzabilità del bene” e il conduttore l’interesse “a ‘trasformare’ la sua originaria disponibilità monetaria nel temporaneo godimento delle specifiche utilità offerte dal bene altrui”.

La tesi secondo cui il rilascio dell'immobile locato a seguito di risoluzione per inadempimento del conduttore non sarebbe di per sé tale da integrare un danno trascura la mancata realizzazione del programma negoziale originariamente convenuto tra le parti.

Infatti, “la restituzione anticipata dell’immobile da parte del conduttore inadempiente … non potrà mai costituire il ripristino di un preesistente equilibrio delle sfere giuridico-patrimoniali delle parti (se non quello prenegoziale, ormai superato dalla conclusione del contratto), quanto piuttosto l’attestazione del fallimento (per responsabilità del conduttore) del programma contrattuale alla cui realizzazione le parti si erano positivamente vincolate e, conseguentemente, della sopravvenuta impossibilità (sempre per fatto del conduttore) di pervenire alla realizzazione del piano degli effetti economici e giuridici che i contraenti avevano originariamente prefigurato”.

Muovendo da queste premesse le Sezioni Unite ritengono di dover dar seguito all’orientamento secondo il quale “il locatore, il quale abbia chiesto e ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per l’anticipata cessazione del rapporto, da individuare nella mancata percezione dei canoni concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore”.

Allo stesso tempo, deve essere escluso qualsiasi automatismo in ipotesi volto a identificare il danno del locatore nell’insieme dei canoni non percepiti. Dunque, “il ‘mancato guadagno’ del locatore, in tanto potrà ritenersi risarcibile, in quanto appaia configurabile alla stregua di una «conseguenza immediata e diretta» dell’inadempimento”.

In questa prospettiva, assume rilievo decisivo la dimostrazione, da parte del locatore, di essersi attivato “al fine di rendere conoscibile con i mezzi ordinari la disponibilità dell’immobile per una nuova locazione”, posto che “un atteggiamento di persistente ingiustificata inerzia del locatore nel riattivare le possibilità di recupero della redditività del proprio bene  a seguito della sua riacquistata disponibilità … non potrà non legittimare, secondo l’id quod plerumque accidit, la prospettazione dell’eventuale riconducibilità della cessata redditività del bene alla responsabilità dello stesso locatore”.

Circa l’ultima questione prospettata dall’ordinanza di rimessione – in ordine alla applicabilità dell’art. 1591 c.c. (che limita la liquidazione del danno ai canoni pattuiti fino alla consegna del bene, salva prova del maggior danno) ai fini della determinazione dei danni risarcibili in caso di risoluzione per inadempimento – le Sezioni Unite concludono che non è prospettabile una estensione analogica della disciplina prevista per la ritardata consegna dell’immobile alla diversa fattispecie dell’inadempimento del conduttore.

4. Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite

La sentenza in commento, sulla base del ragionamento sopra ripercorso, afferma dunque il seguente principio di  diritto: “Il diritto del locatore a conseguire, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento del danno da mancato guadagno a causa della risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore non viene meno, di per sé, in seguito alla restituzione del bene locato prima della naturale scadenza del contratto, ma richiede, normalmente, la dimostrazione, da parte del locatore, di essersi tempestivamente attivato, una volta ottenuta la disponibilità dell’immobile, per una nuova locazione a terzi, fermo l’apprezzamento del giudice delle circostanze del caso concreto anche in base al canone della buona fede e restando in ogni caso esclusa l’applicabilità dell’art. 1591 c.c.”.

Il giudice deve accertare la sussistenza del nesso di causalità tra l'inoculazione del vaccino e i pregiudizi lamentati, tenendo conto non solo della sicurezza del farmaco, per come affermata dalla letteratura scientifica, sulla base di leggi statistiche, ma anche delle acquisizioni probatorie.

Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 18 novembre 2022, n. 34027.

La vicenda processuale trae origine dal ricorso proposto da persona che ha riportato gravi danni in concomitanza con la somministrazione della terza dose del vaccino antipolio. Il ricorrente, in particolare, ha lamentato il comportamento colpevole del Ministero della Salute per non avere adottato tutte le cautele necessarie a evitare l’immissione in commercio di un vaccino non adeguatamente confezionato e per avere somministrato la terza dose del vaccino, nonostante l’insorgenza di gravi reazioni avverse in seguito alla somministrazione delle prime due dosi.

Il Tribunale di Roma aveva accolto, in parte, la domanda risarcitoria in relazione alla sindrome post polio, respingendo quella relativa ai danni insorti dopo la vaccinazione per prescrizione del credito risarcitorio.

La Corte d’Appello ha ritenuto che non fosse stata fornita la prova che il vaccino fosse pericoloso, e che lo stesso, anzi, all’epoca dei fatti era considerato sicuro dalla comunità scientifica. Ha quindi affermato che al fine di valutare la ricorrenza di detta pericolosità non avrebbe dovuto essere preso in considerazione il c.d. incidente Cutter, da cui erano scaturiti eventi dannosi non collegati alla pericolosità del vaccino antipolio, ma alla difettosità del lotto somministrato. Di conseguenza, il Ministero non poteva essere ritenuto responsabile per i danni derivanti dalla somministrazione di un vaccino che la letteratura scientifica riteneva sicuro.

Tale decisione è stata impugnata dall’originario ricorrente sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non essendo stata dedotta in giudizio l’astratta pericolosità del vaccino, bensì la connessione tra la somministrazione delle tre dosi e l’insorgenza della poliomielite in conseguenza della responsabilità per colpa del Ministero.

La sentenza in esame – escluso il vizio di ultrapetizione – ha altresì ritenuto che la Corte territoriale è incorsa in errore per avere deciso “senza preoccuparsi di prendere in considerazione tutto il corredo istruttorio e le risultanze della relazione peritale, anche solo allo scopo di escludere che da essa emergesse la dimostrazione del nesso causale ovvero al fine di discostarsene”.  Nella sostanza, la Corte d’Appello “si è limitata a discostarsi sul punto dalla decisione del Tribunale, ma non ha proceduto ad una propria valutazione del merito della vicenda, sulla scorta degli elementi di prova a sua disposizione, allo scopo di verificare se una volta esclusa la pericolosità del vaccino, da intendersi alla stregua della potenzialità del vaccino Salk, per le sue caratteristiche, di provocare danni in astratto, lo stesso avesse provocato la paralisi, perché appartenente ad un lotto non correttamente confezionato o prodotto o perché non avrebbe dovuto essere somministrato in quella particolare circostanza”.

Così argomentando la Corte territoriale si è discostata dal costante insegnamento del Supremo Collegio, secondo cui è sempre necessaria “l'analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell'evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità. L'ineludibile esigenza di ancorare l'accertamento del nesso causale alla concretezza della vicenda storica comporta una traslazione della regola sostanziale in quella processuale, tale che la valorizzazione del caso concreto non risulti svalutazione della legge scientifica, soprattutto nella sua declinazione di legge statistica, per dar corpo ad "ideali aneliti riparatori tout court"... ma impone di calare il giudizio sull'accertamento del nesso causale all'interno del processo, così da verificare, secondo il prudente apprezzamento rimesso al giudice del merito... la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all'esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili” (cfr. Cass. 27/07/2021, n. 21530).

A giudizio del Supremo Collegio, dunque, i Giudici del merito avrebbero dovuto “valutare scrupolosamente il quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire, nel caso specifico, l'eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l'evento lesivo”.

A tale conclusione la Corte giunge anche attraverso il richiamo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. II, 21 giugno 2017, n. 621, la quale ha chiarito che “La mancanza della prova scientifica della dannosità di un vaccino, confermata cioè da un consesso o autorità professionale, non può impedire l'individuazione processuale di un nesso di causalità tra l'inoculazione del farmaco e l'insorgere della malattia. Tuttavia, il giudice investito della causa deve valutare scrupolosamente il quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire, nel caso specifico, l'eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l'evento lesivo”.

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