Con la sentenza n. 12154 del 7 maggio del 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute a comporre un contrasto giurisprudenziale sorto intorno all’individuazione del momento da cui debba aver corso, per la parte che non sia fallita, il termine per la riassunzione del giudizio nel caso di interruzione ex art. 43, comma 3, l. fall.

La questione era stata rimessa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria n. 21961 del 12 ottobre 2020, che aveva ripercorso l’ampio dibattito giurisprudenziale sorto sul tema (v. https://www.studioclaudioscognamiglio.it/interruzione-ex-art-43-l-f-e-decorrenza-del-termine-per-la-riassunzione-del-giudizio/ ).

L’interrogativo posto ai giudici di legittimità è il seguente: l’evento interruttivo costituito dal fallimento di una delle parti può considerarsi conosciuto, ai fini della decorrenza del termine di cui all’art. 305 c.p.c., dalla parte non fallita per aver ricevuto quest’ultima dal curatore l’avviso ex art. 93 l. fall. destinato ai creditori e conseguentemente essersi insinuata al passivo o si ritiene necessaria una declaratoria di interruzione del processo da parte del giudice in udienza?

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite aderiscono al secondo assunto, in forza del principio per cui: "in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi della L. Fall., art. 43, comma 3, il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi della L. Fall., artt. 52 e 93 per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell'art. 176 c.p.c., comma 2, va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata - ai predetti fini - anche dall'ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d'ufficio, allorchè gli risulti, in qualunque modo, l'avvenuta dichiarazione di fallimento medesima".

Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite cercano un contemperamento tra l’esigenza del curatore, per essere messo nelle condizioni di poter difendersi nel giudizio interrotto, di conoscere quali siano i processi pendenti di cui è parte il fallito e quella della parte non colpita dall’evento interruttivo che necessita di sapere che una delle altre parti del giudizio è stata dichiarata fallita. La dichiarazione giudiziale è lo strumento conoscitivo idoneo a tenere insieme le predette esigenze in quanto “riunisce le qualità istituzionali della fonte privilegiata (il soggetto emittente) alla certezza dell’inerenza del fallimento esattamente al processo su cui quello incide (affermata proprio dal giudice che ne è singolarmente investito)”.

Quale comportamento processuale occorre tenere in sede di giudizio di rinvio a fronte della domanda avversaria di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza poi cassata?

In una recente pronuncia, la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, (sent. n. 11115/2021 del 27 aprile 2021) ha affermato quello che, oltre ad essere un importante principio in materia, si palesa quasi come un warning del quale si dovrà tenere conto.

In particolare, secondo la Suprema Corte, nel contesto dell’azione restitutoria proposta al giudice di rinvio ex art. 389 c.p.c., l’avvenuto pagamento in forza della sentenza provvisoriamente esecutiva “può essere desunto dal comportamento processuale delle parti, alla stregua del principio di non contestazione che informa il sistema processuale civile e del principio di leale collaborazione tra le parti, manifestata con la previa presa posizione sui fatti dedotti, funzionale all’operatività del principio di economia processuale”.

Nel caso affrontato dalla Corte, la Società ricorrente, datrice di lavoro, aveva impugnato la sentenza di appello per aver questa respinto la domanda restitutoria proposta nel giudizio di rinvio producendo la documentazione (in particolare, una busta paga) che faceva espresso riferimento alla sentenza resa tra le parti.

 In particolare, la Società aveva rilevato che, in occasione dell’udienza di discussione, la difesa avversaria non aveva contestato il fatto storico del pagamento a suo tempo intervenuto, ma si era limitata a rilevare che la domanda di restituzione delle somme al lordo avrebbe dovuto essere rivolta, quanto alle ritenute a suo tempo versate dal datore di lavoro, all’amministrazione finanziaria; in questo modo, il sistema difensivo della convenuta era stato improntato su una circostanza (la somma non poteva essere richiesta al lordo delle ritenute fiscali) incompatibile con la negazione dell’avvenuto pagamento.

Su tali premesse, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare il principio sopra richiamato prendendo le mosse, da un lato, dall’art. 389 c.p.c. e, dall’altro dal principio di non contestazione.

Sotto il primo aspetto, si rammenta che, come è noto, la norma citata attribuisce la competenza per le domande restitutorie al giudice di rinvio, atteso che alla Suprema Corte compete solo il giudizio rescindente; ne consegue che l’istanza restitutoria, laddove il pagamento sia avvenuto sulla base della sentenza poi annullata, va proposta al giudice di merito. Si ritiene infatti pacificamente che l’art. 389 c.p.c. tende a ripristinare la situazione di fatto illegittimamente modificata in base alla decisione cassata.

Nel caso affrontato nella sentenza in commento, la pronuncia resa dal giudice di rinvio, che aveva rigettato integralmente l’originaria domanda della lavoratrice, aveva travolto il titolo costituito dalle sentenze di primo e di secondo grado provvisoriamente esecutive tra le parti. Da ciò conseguiva il diritto della Società datrice di lavoro di ottenere la restituzione delle somme pagate in esecuzione delle sentenze.

Tuttavia, il giudice di rinvio aveva ritenuto che la domanda di restituzione, seppur proponibile, fosse infondata nel merito perché priva di adeguato riscontro probatorio, reputando insufficiente la busta paga prodotta.

Tuttavia, così facendo, il giudice di rinvio aveva violato il principio di non contestazione.

Come viene ricordato nella medesima pronuncia, secondo l’insegnamento della Suprema Corte (Cass. n. 19865 del 2015), anche prima della formale introduzione del principio di non contestazione, mediante la modifica dell’art. 115 c.p.c., il convenuto era tenuto a contestare in termini specifici, e non limitati ad una generica negazione, le circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda e, per il rito del lavoro (Cass. n. 16970 del 2018), ai sensi dell’art. 416 c.p.c., comma 3, a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda.

In sintesi, dunque, questi devono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nel primo atto difensivo, si limiti a negare genericamente la fondatezza della domanda attorea, senza sollevare alcuna contestazione chiara e specifica.

L’operatività del principio citato richiede che la parte dalla quale è invocato abbia per prima ottemperato all’onere processuale, posto a suo carico, di provvedere ad una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (Cass. n. 20525 del 2020, n. 3023 del 2016, n. 19896 del 2015); la generica deduzione di assenza di prova senza negazione del fatto storico non è equiparabile alla specifica contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 17889 del 2020).

Ne consegue che una circostanza dedotta da una parte può ritenersi pacifica se sia esplicitamente ammessa dalla controparte o se questa, pur non contestandola in modo specifico, abbia improntato la difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col suo disconoscimento, così implicitamente ammettendone l'esistenza (Cass. n. 23816 del 2010, n. 2699 del 2004, n. 13830 del 2004).

Orbene, la domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione di una sentenza poi cassata va proposta, come detto in precedenza, al giudice di rinvio, che opera quale giudice di primo grado, in quanto detta domanda non poteva essere formulata precedentemente.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la sentenza impugnata, nel limitarsi ad affermare l’inidoneità della busta paga a comprovare il fatto dell’avvenuto preesistente pagamento, avrebbe ammesso, per implicito, quale presupposto logico-giuridico imprescindibile del ragionamento decisorio, che vi fosse l’allegazione del fatto ritenuto non provato.

Di conseguenza, l’onere di allegazione del fatto costitutivo della domanda restitutoria, consistente nella affermazione di avere operato il pagamento di determinate somme di cui all’originario titolo provvisoriamente esecutivo, era stato assolto dalla Società in sede di memoria di costituzione in sede di riassunzione; pertanto, era onere della controparte formulare una contestazione specifica, nel primo atto difensivo successivo, cioè in sede di udienza di discussione. Eppure, in tale occasione, la difesa della lavoratrice si era limitata a contestare la domanda di restituzione delle somme lorde.

A fronte di tale comportamento processuale, secondo la Cassazione, la Corte di merito avrebbe omesso di esaminare la portata delle dichiarazioni delle parti alla luce del principio di circolarità degli oneri di allegazione e di contestazione: a fronte della allegazione da parte della Società ricorrente del fatto che costituiva il presupposto della pretesa restitutoria (il pregresso pagamento), la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se la difesa svolta dalla controparte nel primo atto difensivo successivo presentasse o meno gli estremi di una valida contestazione del fatto allegato ovvero costituisse una affermazione incompatibile con la negazione del pagamento.

La sentenza è stata allora cassata con rinvio alla Corte di appello in diversa composizione, che dovrà provvedere al riesame del merito della domanda restitutoria avanzata dalla Società, conformandosi al suddetto principio di diritto.

L’avvertimento è chiaro: ti conviene contestare…o rischi di pagare.

Con l’ordinanza del 12/10/2020, n. 21961 è stata rimessa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la dibattuta questione circa l’individuazione del momento da cui debba aver corso, per la parte che non sia fallita, il termine per la riassunzione del giudizio nel caso di interruzione ex art. 43, comma 3, l. fall.

La rimessione è risultata sicuramente opportuna in considerazione delle numerose pronunce

discordanti in materia rese dalla Cassazione.

In verità, la querelle non è nuova, in quanto la disciplina dell’interruzione del giudizio e la sua riassunzione sono da lungo tempo al centro di un dibattito nato in seguito all’intervento della Corte Costituzionale.

Nel ‘67 la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c. nella parte in cui faceva decorrere dalla data dell’interruzione del processo il termine per la sua riassunzione, anche nei casi regolati dal precedente art. 301 c.p.c. (in cui l’interruzione opera automaticamente).

In seguito alla declaratoria di incostituzionalità, la Cassazione, al fine di colmare il vuoto normativo, affermò che il termine doveva decorrere “dall’effettiva conoscenza dell’evento da parte dell’interessata” (Cass. n. 1943/1968).

Essendo stato disancorato il termine per la riassunzione dal verificarsi dell’interruzione, ne è derivata l’esigenza da parte della Suprema Corte di Cassazione di ricercare una linea interpretativa che permettesse di ancorare la verifica della conoscenza del decorso del termine a criteri quanto più sicuri ed oggettivi. Un punto di partenza: la conoscenza dell’evento interruttivo da cui far decorrere il termine deve intendersi come conoscenza legale. Occorre cioè rifarsi a quella conoscenza ottenuta tramite atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell’evento medesimo.

Nell’ordinanza in commento viene poi analizzato il contrasto sviluppatosi intorno al tema della decorrenza del termine entro cui va riassunto il giudizio interrotto per l’intervenuto fallimento di una delle parti. Il fallimento, in seguito alla riforma operata dall’art. 41 d.l. 5/2006, che ha aggiunto un terzo comma all’art. 43 l. fall., determina l’automatica interruzione del processo.

Nel caso in cui la riassunzione debba essere operata dal curatore fallimentare, la giurisprudenza ha ritenuto necessaria la conoscenza da parte di quest’ultimo non solo dell’evento interruttivo (dichiarazione di fallimento), ma anche dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare. Tale assunto è basato sul fatto che il curatore, essendo soggetto estraneo al giudizio interrotto, ben può ignorare l’esistenza di questo. 

Per ragioni di “simmetria”, anche quando sia la controparte del fallito a riassumere la causa, il termine decorre dall’acquisizione di una conoscenza legale che deve avere ad oggetto tanto l’evento interruttivo tanto il procedimento in cui tale evento ha operato (Cass. nn. 6398/2018, 31010/2018, 12890/2020).

Sul punto si è registrata l’opinione contraria di Cass. 21325/2018 secondo cui la parte estranea all’evento interruttivo non ha necessità di conoscere il processo del quale è parte, a differenza del curatore fallimentare che, se non può ignorare il dato dell’apertura della procedura concorsuale, può non essere al corrente dell’esistenza del singolo processo relativo al rapporto di diritto patrimoniale del fallito compreso nel fallimento.

Le plurime questioni legate alla conoscenza legale dell’evento interruttivo e del giudizio in cui esso opera sono destinate a perdere di spessore qualora venisse accolta l’interpretazione di Cass. 5288/2017 che esclude possa esservi un onere di riassunzione in assenza della dichiarazione, da parte del giudice, dell’interruzione del giudizio per intervenuto fallimento della parte. Tale tesi è stata aspramente contestata dalla giurisprudenza successiva (Cass. 31010/2018) in quanto la previsione di tale ulteriore adempimento andrebbe a vanificare nella sostanza la previsione di automaticità prevista dall’art. 43 l. fall.

Le questioni e i contrasti sono tanti, la parola alle Sezioni Unite.

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