Con la sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023 la Cassazione ha enunciato importanti principi di diritto in tema di giusto salario minimo costituzionale.
In particolare, la Corte ha affermato che nel giudizio di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost., il giudice deve fare riferimento, in via preliminare, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale, però, può discostarsi, dandone motivazione, quando la stessa non sia rispettosa dei principi di “proporzionalità” e “sufficienza” della retribuzione dettati dalla Costituzione, e ciò anche quando il rinvio alla contrattazione collettiva sia contemplato in una legge. Per la valutazione, il giudice può servirsi, a fini parametrici, del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di “settori affini” o per “mansioni analoghe”, potendo altresì fare riferimento all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea.
I fatti di causa
M.A., dipendente di Servizi Fiduciari Soc. Coop. (già Sicuritalia Servizi Fiduciari Soc. Coop), agiva in giudizio per ottenere il diritto all'adeguamento delle retribuzioni percepite, ritenuta la non conformità ai parametri dell'art. 36 Cost. del trattamento retributivo applicato, anche ai sensi della L. n. 142 del 2001, art. 3, comma 1, e L. n. 31 del 2008, art. 7, corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione Servizi Fiduciari del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari dell'1/2/2013.
Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta da M.A., accertava il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del CCNL dei dipendenti di proprietari di fabbricati, condannando la datrice di lavoro Servizi Fiduciari al pagamento delle differenze retributive.
La Corte d'appello di Torino riformava la sentenza di primo grado accogliendo l'appello proposto dalla datrice di lavoro. Per il giudice di secondo grado, devono ritenersi esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Cost. quei rapporti di lavoro che, come nel caso di specie, sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Poiché la Cooperativa Servizi Fiduciari aveva applicato ai propri dipendenti il CCNL Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, contratto attinente al settore di operatività del lavoratore e stipulato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale, la domanda del lavoratore doveva essere rigettata. Secondo la Corte di appello “la retribuzione stabilita dalla norma collettiva acquista, sia pure solo in via generale, una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche del contratto collettivo anche negli interni rapporti fra le singole retribuzioni”. Solo in tal modo può essere valorizzato il principio dell'autonomia sindacale art. 39 Cost., co. 4, a cui la contrattazione collettiva è demandata in via esclusiva. Rimettere invece al giudice il potere di sindacare i livelli retributivi al fine di scegliere quello più alto, per il giudice di secondo grado, non risulta coerente con l'attuale sistema contrattuale.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Torino M.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi.
I principi costituzionali della ‘sufficienza’ e della ‘proporzionalità’ della retribuzione.
Con la sentenza in commento n. 27711 del 2 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore ritenendo fondati tutti e 5 i motivi di impugnazione.
La decisione della Corte d’appello, secondo la Cassazione, discostandosi dall’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato principi contrastanti con quelli che regolano la materia del salario minimo costituzionale fissato dall'art. 36 Cost.
La Costituzione garantisce due diritti distinti al lavoratore che si integrano a vicenda nella concreta determinazione della retribuzione e che sono:
Il primo stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, il secondo “un limite negativo, invalicabile in assoluto”. Le due valutazioni costituiscono le direttrici sulla cui base il Giudice deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.
Ai fini della valutazione non basta fare riferimento al valore soglia di povertà assoluta calcolato ogni anno dall'Istat sulla base di “un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia”, dovendo il trattamento economico essere orientato “non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all'interno dell'Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”)”.
A tale scopo vengono in rilievo i principi di sufficienza e di proporzionalità che mirano a garantire al lavoratore una vita che sia “non solo non povera ma persino dignitosa”. La verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, attraverso il confronto con il livello Istat di povertà assoluta, non può dunque esaurire l'oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell'art. 36 Cost, in quanto tale indice, afferma la Cassazione, “non è di per sé indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo altresì rispettare l'altro profilo della proporzionalità”. La determinazione del quantum del salario costituzionale, continua la Corte, deve essere “improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva … ritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità”. Il lavoratore che chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto. In mancanza, la retribuzione corrisposta nella misura prevista in relazione alle mansioni esercitate dal contratto collettivo del settore “si presume adeguata e sufficiente”.
L’intervento correttivo del Giudice, a tutela della precettività dell’art. 36 Cost., è ammesso anche sulla stessa contrattazione collettiva. Tant’è vero che il giudice del merito, ai fini della valutazione di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost., gode di un’ampia discrezionalità “potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione”. Nel discostarsi da quanto previsto dai contratti collettivi, il giudice è tenuto, però, ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione giacché sottolinea la Cassazione, “difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”. In ogni caso, si è affermato che il riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria costituisce una facoltà per il giudice e non un obbligo inderogabile, fatto ovviamente salvo l'onere della motivazione conforme. Il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e fondare la pronuncia ad es. sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi (es. dimensioni o localizzazione dell'impresa, specifiche situazioni locali o qualità della prestazione offerta dal lavoratore). Tra i parametri presi a riferimento dalla giurisprudenza, oltre alla soglia di povertà calcolata dall'Istat, sono stati utilizzati ad es. l'importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l'accesso alla pensione di inabilità e l'importo del reddito di cittadinanza; tutte forme di sostegno al reddito che, secondo la Corte di Cassazione, “fanno però riferimento a disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione nei termini prima indicati”.
La Direttiva Europea sul salario minimo.
Alla luce dell’integrazione del nostro ordinamento a livello Europeo ed internazionale, la valutazione di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost deve oggi avvenire anche considerando le indicazioni sovranazionali.
Recentemente è intervenuta la Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa proprio ai salari minimi, dei cui contenuti il giudice interno deve tenere conto ai fini del giudizio di conformità ai sensi dell’art. 36 Cost. La Direttiva in più di una disposizione conferma come valido il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali (v. considerando n. 28 in cui si afferma che “un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso”; “quanto al livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato - che "oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”).
La Corte nella sentenza in commento ha ricordato che l’Italia non ha ratificato la convenzione OIL n. 131/1970 che da quasi un secolo prevede l'introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali " mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi" (art. 1). Sempre in tema di giusta retribuzione sono state dettate altre disposizioni dall'art. 4 della Carta sociale Europea e dagli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Il punto 6, lettera a) del Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017 “prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso, mentre la lettera b) “impegna all'implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia”. L’obiettivo dichiarato dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 è quello della “convergenza sociale verso l'alto” dei salari minimi, in quanto la salvaguardia e l'adeguamento dei salari minimi "contribuiscono a sostenere la domanda interna".
La portata generale delle Tabelle Salariali previste dai contratti collettivi.
Secondo una elaborazione giurisprudenziale che dura oramai da oltre 70 anni, il giudice chiamato ad adeguare il trattamento retributivo all'art. 36 Cost. ai fini della determinazione del giusto corrispettivo può fare riferimento alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, in quanto questi ultimi fissando “standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, una efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute”.
La Corte precisa che il riferimento al salario previsto nel CCNL integra, però, solo una “presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario” e che “attraverso questo sistema si è pure temperata, in concreto, in mancanza dell'attuazione dell'art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già richiamata sentenza delle Sez. Unite n. 2655/1997, secondo cui l'ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare”.
È consentito al lavoratore di appellarsi ad un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l'applicazione bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto. L'oggetto dell'intervento giudiziale può riguardare non solo “il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”.
Le cause del ‘Lavoro povero’ e della ‘povertà nonostante il lavoro’.
La Cassazione, pur ribadendo l’importante ruolo svolto dalla contrattazione collettiva nella determinazione della giusta retribuzione, nella sentenza in commento ha messo in evidenza alcune problematiche che nel corso degli anni hanno interessato le organizzazioni sindacali e che hanno contribuito ad indebolire la posizione dei lavoratori.
In particolare, tra le varie problematiche segnalate, vi sono:
a) “la frammentazione della rappresentanza e la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di "contratti pirata")”;
b) “la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie”;
c) “la conseguente proliferazione del numero dei CCNL - Il CNEL ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbero stati stipulati da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti”;
d) “la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro e la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi;
e) “il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai cambiamenti economici (l'ultimo Report del CNEL denuncia come scaduti 563 contratti del settore privato, pari al 60%);
f) “una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari”.
I fattori suindicati (ed in particolare la molteplicità dei contratti all'interno della stessa contrattazione collettiva)rileva la Corte di Cassazione, avendo innescato una concorrenza salariale ‘al ribasso’, sono responsabili di ciò che viene notoriamente definito ‘lavoro povero’ o ‘povertà nonostante il lavoro’. La contrattazione collettiva, quale espressione della libertà sindacale e necessaria per la tutela dei diritti collettivi dei lavoratori, rileva la Cassazione, “può entrare in tensione con il principio dell'art. 36 Cost., che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro”. Dopo aver ricordato “la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale” (principio garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo), la Cassazione precisa che “nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere” e questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che mai deve tradursi, in un fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale. Un esempio delle problematiche sopra evidenziate è fornito proprio dall’esperienza riguardante i lavoratori c.d. rider (v. circolare del Ministero del lavoro del 19.11.2020). La presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o per nulla rappresentativi, ha costituito un fattore di destabilizzazione in grado di mettere in discussione l'attitudine alla parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende.
In uno stato di mancata attuazione dell'art. 39 Cost. non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario.
La Cassazione, nella sentenza in commento, dopo aver ribadito la validità della regola in forza della quale sussiste una “presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale” e chiarito, però, che la stessa opera non solo “in mancanza di una specifica contrattazione di categoria”, ma anche “nonostante una specifica contrattazione di categoria”, ha affermato altresì che “non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell'attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in uno stato di mancata attuazione dell'art. 39 Cost)”.
I principi di “sufficienza” e “proporzionalità” della retribuzione costituiscono limiti alla stessa autonomia negoziale collettiva e ciò perché la nostra Costituzione non ha accolto una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro “come prezzo di mercato”, ma come “retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all'autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi”.
Fermo il rispetto della riserva di competenza attribuita alla contrattazione collettiva, quale autorità salariale massima, la Cassazione ribadisce che poiché i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione hanno contenuti “(anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall'esterno nella determinazione del salario” sono gerarchicamente sovraordinati sia alla legge che alla stessa contrattazione collettiva.
Una legge ‘sul salario legale’?
L’aporia tra il trattamento retributivo previsto nella contrattazione collettiva e i contenuti precettivi dell'art. 36 Cost. può “prodursi anche per il tramite di una legge che rinvii alla contrattazione; e come tale contraddizione non sia del tutto idonea ad essere risolta con il solo sostegno alla contrattazione nazionale maggiormente rappresentativa (come ad es. nella L. n. 142 del 2001, e nella L. n. 31 del 2008); non potendosi mai escludere che il trattamento retributivo erogato in forza della stessa possa attestarsi nel caso concreto al di sotto del minimo costituzionale”. La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone in ogni caso in cui il giudice è chiamato a sindacare il salario applicato ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l'applicazione. In ultima analisi la Cassazione rileva come nel nostro ordinamento una legge sul 'salario legale' non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva. Il rinvio deve essere inteso nel quadro costituzionale che impone un minimo invalicabile nel caso concreto. Non potendo il giudice abdicare alla sua funzione di controllo, si pone comunque il problema dell'orientamento della sua discrezionalità motivata, in relazione all'applicazione di una norma costituzionale a contenuto generale direttamente applicabile nei rapporti inter partes ed inoltre il tema della ricerca di un quid pluris congruo e funzionale allo scopo, rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola contrattazione, che si riveli in concreto inappagante.
Il riferimento anche ad altri contratti collettivi di “settori affini” e per “mansioni analoghe”.
Venendo al caso di specie, rileva la Corte, come proprio in virtù dell'applicazione allo stesso lavoratore ricorrente, da un cambio di appalto all'altro, di CCNL sempre diversi e peggiorativi - sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative - si è prodotto il risultato di una diminuzione della retribuzione pur nell'identità dell'attività di lavoro svolta da esso e dalla stessa datrice di lavoro. Nel corso del tempo al lavoratore ricorrente sono stati applicati diversi CCNL pur svolgendo egli sempre il medesimo lavoro nell'ambito dell'appalto "Carrefour". La Cassazione, dopo aver rilevato che la Corte d’appello non aveva svolto alcun giudizio comparatistico, ha ricordato, nel rimandare al giudice del rinvio, che nella determinazione del giusto salario ai sensi dell'art. 36 Cost. (a fronte di una pluralità di contratti collettivi ma anche di un unico contratto collettivo) il giudice è chiamato ad adoperare una griglia di criteri comparativi, “avendo come punto di partenza la contrattazione collettiva, e potendo fare riferimento anche a contratti di settore e categorie affini relativamente alle analoghe mansioni in concreto svolte”.
I principi di diritto enunciati nella sentenza in commento
In ultima analisi, la Corte di Cassazione ha enunciato i seguenti principi di diritto:
Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui: https://www.giuslavoristi.it/agi_cms/public/news/1_99.pdf
Per leggere il testo della Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea clicca qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX%3A32022L2041
Sullo stesso tema, v. la sentenza della Cassazione n. 27713/2023 pubbl. il. 2/10/2023 al seguente link: https://www.cortedicassazione.it/it/civile_dettaglio.page?contentId=SZC10110