La registrazione di una conversazione costituisce senz’altro un trattamento di dati personali con conseguente applicazione del Reg. UE n. 2016/679 (il c.d. GDPR).

Una recente pronuncia del Tribunale di Venezia (n. 2286 del 2 dicembre 2021) ha reputato illecita la condotta tenuta da due lavoratori che avevano registrato una conversazione tra colleghi perché posta in violazione dei principi che sono alla base della materia.

Innanzi tutto, va richiamato l’art. 5 del GDPR il qualedispone che “I dati personali sono: (...) b) raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali finalità”.

Inoltre, come ha rammentato il Tribunale, la registrazione - per essere considerata lecita - deve essere eseguita “per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda” nonché “per precostituirsi un mezzo di prova”, e a patto che sia “pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità” (Per un approfondimento vedi Si può registrare una conversazione tra colleghi? e La registrazione di conversazioni da parte del lavoratore tra diritto di difesa e tutela della riservatezza).

In sintesi, si legge nella sentenza, “il trattamento di dati personali per finalità di accertamento e/o esercizio di un diritto (anche in una fase pre - contenziosa) è espressione del legittimo interesse del titolare del trattamento, e, pertanto, in caso di insussistenza di detto interesse, il trattamento deve ritenersi illecito per mancanza di una delle sue basi giuridiche (art. 6, comma 1, lett. f) del Reg. UE 2016/679); ogni qualvolta il titolare del trattamento opponga all'interessato lo svolgimento di attività difensive a giustificazione di un dato trattamento di dati personali, quest'ultimo deve in ogni caso dimostrare la sussistenza di un contesto litigioso c/o la parvenza di un pregiudizio subito che lo avrebbero in ipotesi portato ad intraprendere trattamenti di dati personali riguardanti l'interessato, e ciò al preteso fine di chiedere la tutela i propri diritti (anche in una fase di pre - contenzioso)”.

Orbene, nel caso affrontato nella pronuncia richiamata, secondo il Giudice, non sussisterebbe nessuno di tali requisiti.

In particolare, la registrazione:

  • aveva ad oggetto una riunione aziendale, svoltasi tra colleghi di lavoro, per la risoluzione di alcune difficoltà organizzative interne all’azienda;
  • era stata effettuata da un soggetto che, all’epoca, non poteva vantare esigenze (pre)difensive nei confronti della datrice di lavoro idonee a giustificare la registrazione;
  • era stata conservata, e ceduta, ad ulteriori soggetti, non presenti alla riunione, i quali, a distanza di due anni, l’avevano prodotta nelle rispettive cause di lavoro contro la stessa azienda.

Pertanto, secondo il Tribunale di Venezia, i principi previsti dall’art. 5 GDPR sarebbero stati violati, essendosi posta la condotta dei convenuti in giudizio all’esterno del perimetro della liceità, sia in relazione alla mancanza di un’esigenza difensiva degli stessi, “sia con riferimento al difetto di pertinenza, sul piano temporale, dei tempi di conservazione dei dati a quanto strettamente necessario alla propria difesa”.

All’accertamento dell’illiceità dei trattamenti dei dati ha fatto seguito l’ordine di cancellazione e/o distruzione del file audio contenente la registrazione della riunione e l’irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 58, co. 2, lett. i) e art. 83 GDPR, nella misura di € 5.000,00.

Capita, non di rado, che un lavoratore registri conversazioni sul posto di lavoro al fine di precostituirsi una prova per far valere un proprio diritto (sull’argomento si veda anche “La registrazione di conversazioni da parte del lavoratore tra diritto di difesa e tutela della riservatezza”). Ma si tratta di una condotta legittima?

In una recente pronuncia (Cass. 31204 del 2 novembre 2021), la Suprema Corte ha confermato l’importanza di un bilanciamento equilibrato tra i due diritti fondamentali che vengono in rilievo.

Già in riferimento all’art 24 del d.lgs. n. 196/2003, la Corte aveva sottolineato la possibilità di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione veniva eseguita, fosse necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che gli stessi fossero trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).

Nella pronuncia citata, la Corte ha ribadito che l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente ed i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, “in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”.

Da qui la legittimità (nel senso della inidoneità all’integrazione di un illecito disciplinare) della condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, “rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto”.

Si tratta, all’evidenza, di un profilo estremamente delicato, che esige, come si accennava, un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali: la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall’altra.

E tale bilanciamento deve essere fondato su una valutazione rigorosa del requisito di pertinenza, nella prospettiva di una diretta e necessaria strumentalità della registrazione alla preparazione della finalità difensiva, all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda.

Questa conclusione è, del resto, coerente alla cornice dei diritti fondamentali delineata dalla Costituzione.

Il diritto di difesa, costituzionalmente protetto (art. 24 Cost.), non può essere limitato alla pura e semplice sede processuale; piuttosto, lo stesso deve estendersi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove poi utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata.

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