Il contraente non inadempiente che esercita il recesso, dichiarando di ritenere la caparra (o pretendendo il versamento del doppio), non può poi chiedere l'adempimento del contratto, né la controparte è tenuta ad adempiere la propria prestazione.

Questo il principio affermato dalla Cassazione nell’ordinanza n. 10131 del 17 aprile 2025.

Il promissario acquirente dichiarava il recesso ex art. 1385 c.c. dal contratto preliminare di compravendita immobiliare di un appartamento, richiedendo la restituzione del doppio della caparra versata. La promittente venditrice contestava i fatti posti dall'acquirente a fondamento del recesso. Successivamente il promissario acquirente inviava una diffida ad adempiere, invitando la promittente venditrice a presentarsi dal notaio per procedere alla stipula del contratto definitivo. La stipula non avveniva per avere la promittente venditrice nelle more alienato il bene a terzi.

Il promissario acquirente agiva quindi in giudizio per la risoluzione del contratto, con domanda di restituzione del doppio della caparra.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, sostenendo che il promissario acquirente non aveva assolto l'onere probatorio relativo all'inadempimento della promittente venditrice. Accogliendo l'impugnazione, la Corte di appello ha viceversa dichiarato risolto il contratto per inadempimento della promittente venditrice (argomentato sulla base dall'alienazione dell'immobile a terzi durante la pendenza del contratto preliminare) e condannato quest'ultima al pagamento del doppio della caparra.  

Ha proposto ricorso per cassazione la promittente venditrice, contestando la sentenza d’appello per avere affermato che il recesso esercitato dal promissario acquirente non avrebbe prodotto effetto risolutorio del contratto ed avere quindi ritenuto compatibile la successiva diffida ad adempiere con il recesso già esercitato.

La questione assume rilievo nella misura in cui, in caso di accertamento dell'inesistenza dei fatti posti a fondamento del recesso, sarà la parte che il recesso ha dichiarato ad essere inadempiente, con tutte le conseguenze del caso.

L’ordinanza in commento muove dalla considerazione che il recesso ex art. 1385 co. 2 c.c., con richiesta alla controparte di corrispondere il doppio della caparra versata, "è una... forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone pur sempre l'inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale: esso costituisce null'altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti (l'inadempimento della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti del contratto)" (viene in particolare evocata Cass., Sez. Un., n. 553 del 2009).

La Corte rinviene una conferma alla impossibilità di agire per l’adempimento dopo aver dichiarato il recesso, nel precedente Cass. n. 15070 del 2016, secondo cui "la semplice dichiarazione unilaterale della parte di ritenere il contratto risolto, configurandosi come mera pretesa che non consente all'altra parte l'attuazione del rapporto, deve considerarsi... priva di effetto e quindi non preclusiva della successiva domanda di adempimento, alla quale è ostativa, a norma dell'art. 1453 co. 2 c.c., solo la domanda giudiziale di risoluzione". Argomentando a contrario, dal momento che l'esercizio del recesso ex art. 1385 co. 2 c.c. costituisce una delle ipotesi (da affiancare ai casi ex artt. 1454,1456 e 1457 c.c.) in cui si può conseguire in via stragiudiziale la risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, allo stesso non può far seguito la successiva domanda di adempimento.

La Corte territoriale ha, quindi, errato nell’affermare che il recesso operato dal promissario acquirente, in assenza di inadempimento del promittente venditore, non ha prodotto effetto risolutorio del contratto preliminare, con conseguente inadempimento imputabile alla promittente venditrice per avere alienato il bene a terzi nel periodo di efficacia del preliminare. È invece vero che il recesso integra una risoluzione del contratto che, da un lato, preclude la successiva diffida ad adempiere e, dall’altro, se dichiarato in assenza dei presupposti che lo legittimassero, non dà diritto a richiedere il doppio della caparra versata. 

In tema di contratto di appalto di servizi continuativi o periodici, a tempo indeterminato, ciascuna parte può recedere dal contratto in tempo utile, salvo per il giudice il potere di stabilire il termine congruo entro il quale il recesso debba avere efficacia.

Questo il principio affermato dalla Cassazione, con ordinanza del 11 marzo 2025, n. 6487.

Il caso

La vicenda trae origine dal recesso esercitato da una azienda di trasporti locale dal contratto di affidamento del servizio di guardiania notturna del parcheggio, privo di un termine di durata.

Il Tribunale ha dichiarato l'inefficacia del recesso esercitato dall'appaltante e la conseguente persistenza del contratto intercorso tra le parti, per incongruità del termine di preavviso concesso (3 giorni), condannando la società resistente al pagamento del corrispettivo dovuto.

La Corte d’Appello, in riforma della pronuncia di primo grado, pur confermando il giudizio di incongruità del termine di preavviso accordato, ha ritenuto che il diritto potestativo esercitato restasse comunque valido, pur operando solo alla scadenza del termine di preavviso, la cui durata congrua è stata determinata dalla Corte, avuto riguardo alla natura del servizio, in 60 giorni.

Il quadro normativo di riferimento e gli orientamenti in campo

L’ordinanza in esame muove dall’art. 1677 c.c., a norma del quale “se l'appalto ha per oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi, si osservano, in quanto compatibili, le norme di questo capo e quelle relative al contratto di somministrazione”.

La Corte dà quindi conto del dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, in materia di disciplina del recesso dal contratto di appalto di servizi continuativi o periodici, a tempo indeterminato:

  • secondo un primo orientamento, anche il recesso unilaterale del committente dall'appalto di servizi sarebbe regolato, in ogni caso, dall'art. 1671 c.c., che, con riferimento all’appalto d’opera, prevede che “Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”;
  • secondo un diverso orientamento, troverebbe applicazione l’art. 1569 c.c., che, con riguardo alla somministrazione, stabilisce che “Se la durata della somministrazione non è stabilita, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, dando preavviso nel termine pattuito o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, in un termine congruo avuto riguardo alla natura della somministrazione”.

La sentenza in esame ritiene invece doversi dare seguito a un indirizzo mediano, nel solco della giurisprudenza di legittimità, discriminando l'individuazione del regime applicabile in relazione alla natura determinata o indeterminata della durata dell'appalto continuativo o periodico di servizi. In particolare:

A) trova applicazione l'art. 1671 c.c., in tema di recesso unilaterale e ad nutum del committente, ove l'appalto sia a tempo determinato (oltre alla scadenza del contratto al termine stabilito, previa disdetta, pena la sua tacita rinnovazione)”;

B) viceversa, “allorché la durata del contratto d'appalto continuativo o periodico di servizi non sia stata stabilita, ciascuna delle parti può recedere dal contratto in tempo utile a norma dell'art. 1569 c.c., altrimenti esso si rinnoverà per il tempo previsto nel contratto stesso o dagli usi oppure a tempo indeterminato

E ciò perché “nei contratti di prestazione, in appalto, di servizi continuativi o periodici a tempo indeterminato il peso dell'elemento fiduciario è ben minore rispetto all'appalto d'opera (o di servizi a tempo determinato) e, pertanto, la figura è assimilabile alla somministrazione, con l'effetto che l'inapplicabilità dell'art. 1671 c.c. ai contratti di appalto di servizi senza limite di durata discende dalla sua stessa ratio”.

Il recesso nell’appalto di servizi a tempo determinato

Rileva quindi la Corte che “con riferimento all'appalto di servizi a tempo determinato, la previsione di un termine di durata, scaduto il quale senza disdetta l'appalto si rinnova, non impedisce di esercitare il diverso diritto potestativo di recesso ad nutum ex art. 1671 c.c.”.

D’altronde, sia l’appalto d’opera che l’appalto di servizi (a tempo determinato) sono caratterizzati dalla scelta del contraente secondo l'intuitus personae, con la conseguenza che “nessun valido motivo consente di escludere, per l'appalto di prestazione continuativa di servizi (a tempo determinato), l'applicabilità del disposto di cui all'art. 1671 c.c. (dichiarazione di recesso del committente), non rilevando, appunto, in proposito, l'esistenza di una clausola convenzionale che attribuisca la facoltà della disdetta al committente entro un tempo predeterminato rispetto ad ogni scadenza contrattuale”.

Infatti, il rinnovo automatico, in mancanza di disdetta entro il termine pattuito, produce i suoi effetti solo sulla durata del rapporto, ma lascia inalterata la facoltà del committente di recedere dal contratto in qualsiasi momento, anche in corso di esecuzione, con l'obbligo di indennizzo verso l'appaltatore” (in questi termini, Cass., n. 29675 del 19 novembre 2024; Cass., Ord. n. 15335 del 31 maggio 2024).

Con riguardo all’appalto di servizi a tempo determinato, la Corte conclude che “il recesso ex art. 1671 c.c. assolve all'utile funzione di porre fine, col minor danno per le parti, ad un rapporto ormai inutile o dannoso, mentre sarebbe irrazionale costringere il committente a ricevere la prestazione del servizio (con aggravio di tutte le spese relative) sino alla fine naturale del contratto (ossia alla conclusione prefissata della sua durata)”.

E il recesso nell’appalto di servizi a tempo indeterminato

Per converso, nel contratto d'appalto avente ad oggetto la prestazione di servizi continuativi o periodici, senza predeterminazione della sua durata (ossia a tempo indeterminato), “il recesso che ciascuna delle parti (non solo l'appaltante ma anche l'appaltatore) intenda esercitare dal rapporto postula che esso avvenga previo avviso nel termine pattuito in contratto o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, in un termine congruo (secondo valutazione rimessa all'apprezzamento del giudicante), avuto riguardo alla natura del servizio appaltato (senza la previsione di alcun indennizzo)”.

In tal caso, rileva la Corte, “non ha un fondamento logico il riconoscimento del recesso con la prestazione di un indennizzo in favore dell'assuntore, poiché la prestazione del servizio senza alcuna delimitazione di durata non rende preventivabile il mancato guadagno, né, d'altronde, è esigibile che la liberazione dell'appaltante da un vincolo di durata indeterminata sia controbilanciata dalla liquidazione di un ristoro in favore dell'artefice del servizio”.

Conclusione, questa, conforme al principio immanente al sistema della libera recedibilità dai contratti conclusi a tempo indeterminato.

A garanzia dell'appaltatore, “la manifestazione della volontà del committente di liberarsi dal rapporto obbligatorio deve essere preceduta da un adeguato preavviso, allo scopo di consentire al prestatore di organizzare per tempo tale cessazione”.

Mancato rispetto di un termine di preavviso congruo

La Corte di Cassazione indaga quindi le conseguenze che discendono dall'esercizio, nell'appalto di servizi a tempo indeterminato, del diritto potestativo di recesso con un termine di preavviso non congruo.

L’ordinanza in commento muove dall’assunto che “il termine "congruo" di preavviso attiene al quomodo dell'esercizio del diritto potestativo e non ne rappresenta un indefettibile elemento costitutivo (quid)”. Ne consegue che (sempre nei contratti d'appalto a tempo indeterminato), “ove una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato o con un preavviso inadeguato, il rapporto si risolve comunque, benché la sua efficacia si protragga sino al decorso del termine, reputato congruo, del periodo di preavviso”.

In altri termini, “a fronte di contratto di appalto di servizi a tempo indeterminato, il recesso esercitato in violazione del termine di preavviso pattuito o stabilito dagli usi o congruo, avuto riguardo alla natura del servizio, è comunque valido (in quanto espressione della volontà legittimamente manifestata di risolvere il rapporto), benché la sua efficacia sia differita alla scadenza del termine di preavviso”.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha quindi confermato la sentenza d’appello secondo cui l'inadeguatezza del preavviso concesso non avrebbe determinato l’invalidità del recesso ma avrebbe inciso solo sulla determinazione del momento di efficacia dello stesso, posticipato alla data di scadenza del termine congruo (valutato in 60 giorni dalla data di ricezione della lettera raccomandata a.r. con cui il recesso era stato esercitato), con la conseguente spettanza del corrispettivo dovuto sino a tale scadenza.

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 1 settembre 2021, n. 23723, ha dichiarato nullo il recesso dal patto di non concorrenza dichiarato dal datore di lavoro (anche) in costanza di rapporto.

La fattispecie trae origine dalla domanda di una lavoratrice diretta ad ottenere il compenso pattuito nell’ambito di un patto di non concorrenza “per i due anni successivi alla cessazione del rapporto”. Sul presupposto che il datore di lavoro aveva dichiarato il recesso sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha escluso potesse configurarsi alcun pregiudizio per la lavoratrice e dichiarato la legittimità del diritto di recesso, ove esercitato per il periodo antecedente la cessazione del rapporto di lavoro. L’ordinanza in commento ha cassato il provvedimento.

La pronuncia dichiara di voler dar seguito all’insegnamento della sentenza n. 3 del 2018, che aveva dichiarato la nullità, per violazione dell’art. 2125 c.c., della clausola che attribuiva al datore di lavoro il diritto di recesso dal patto di non concorrenza alla data di cessazione del rapporto, o per il periodo successivo, nell’arco temporale di vigenza dell’obbligo di non concorrenza. Nel precedente citato, la Corte aveva ritenuto che l’unilaterale libertà di recesso vanificherebbe le valutazioni sulla base delle quali il lavoratore ha accettato una limitazione alla libertà di lavoro, privandolo – in un momento nel quale si è predisposto per adempiere all’obbligo già vigente - del corrispettivo (il diritto alla erogazione del quale era sorto, nei casi decisi dal Supremo Collegio, solo al momento della cessazione del rapporto).

In epoca ancor più recente, la Cassazione, con ordinanza del 3 giugno 2020, n. 10535 (per un commento alla quale si rimanda al nostro “Il diritto di recesso in favore del datore di lavoro nel patto di non concorrenza ex art. 2125 C.C. (CASS., ORD. 3.6.2020, N. 10535/20)”), si è spinta oltre, ritenendo applicabile il medesimo principio anche alla (diversa) ipotesi in cui “il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro” .

Nel solco di quest’ultimo precedente l’ordinanza in commento, ha ritenuto irrilevante “il fatto che, nella fattispecie, il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro” poichè “i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà”. Rileva la Corte che “detta compressione, … ai sensi dell'art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l'obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finerebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo”.

Sotto un primo profilo, è invero opinabile che “i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto”. In realtà, il vincolo concorrenziale a carico del lavoratore sorge solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

E questo pare anche l’assunto da cui muovono i precedenti, di cui la stessa ordinanza si dichiara tributaria (in particolare, Cass. n. 212 del 2013 e Cass. 3 del 2018), concludendo che il recesso esercitato al momento della cessazione del rapporto (o in epoca successiva) opera su un obbligo di non concorrenza già sorto. Al contrario, il diritto di recesso attribuito al datore in costanza di rapporto non potrebbe spiegare alcun effetto sulle valutazioni di convenienza operate dal lavoratore al momento della sottoscrizione del patto, incidendo su un obbligo non ancora sorto.

Una riflessione forse più approfondita merita poi l’affermazione secondo cui la limitazione della libertà del lavoratore, dalla sottoscrizione del patto al recesso del datore, sarebbe rimasta priva di corrispettivo.

Anche a voler ammettere che la sola sottoscrizione del patto di non concorrenza comprometta la libertà del lavoratore “di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo”, il riferimento alla assenza di corrispettivo, a fronte di tale limitazione, sarebbe pertinente alle sole fattispecie (come in effetti sembrerebbe essere quella decisa dalla Corte) in cui il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza sia previsto in epoca successiva alla cessazione del rapporto.

Ragionando nei medesimi termini proposti dall’ordinanza in esame, a diverse conclusioni dovrebbe, invece, giungersi nelle ipotesi – largamente diffuse nella prassi - in cui sia previsto il pagamento del corrispettivo in costanza di rapporto. In questo caso, a seguito dello scioglimento del patto in costanza di rapporto, il lavoratore si troverebbe nella – assai vantaggiosa – situazione di acquisire comunque il corrispettivo erogato e di essere ancora titolare di un rapporto di lavoro, senza dover veder limitata la propria libertà di ricollocamento anche in caso di (futura) cessazione del rapporto di lavoro.

È, anzi, dotata di intrinseca ragionevolezza la previsione di un corrispettivo (per il vincolo scaturente dalla sottoscrizione del patto) direttamente proporzionale alla durata del sacrificio derivante al lavoratore alla libertà di progettare il proprio futuro per il periodo successivo alla sottoscrizione del patto.

È auspicabile, dunque, che – anche ove si ritenga che il vincolo contrattuale sorga già con la sottoscrizione del patto – si operi una disamina della concreta regolamentazione pattizia, distinguendo le clausole che attribuiscano al datore di lavoro il diritto di recedere dal patto al momento della cessazione del rapporto, o in epoca successiva (quando, in effetti, il lavoratore si sia già predisposto ad adempiere) da quelle in cui il recesso sia esercitabile in epoca antecedente alla cessazione del rapporto di lavoro e il corrispettivo pagato in costanza di rapporto.

Strada spianata, dunque, per i lavoratori desiderosi di svincolarsi da un patto di non concorrenza per poter cominciare a lavorare con un competitor dell’ex – datore di lavoro, dunque? In realtà no, perché qui, come detto, la pretesa fatta valere dalla lavoratrice era relativa al pagamento del corrispettivo per il patto, pur essendo intervenuto il recesso datoriale dallo stesso; nel caso in cui la prospettazione di nullità della clausola relativa al recesso fosse funzionale ad ottenere l’invalidazione dell’intero patto di non concorrenza, si porrebbe il problema della – niente affatto scontata ed anzi sovente implausibile – essenzialità della clausola relativa al diritto di recesso, la quale soltanto potrebbe condurre alla declaratoria di nullità, ex art. 1419, 1° co. c.c., dell’intero patto di non concorrenza.

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