Il danno da perdita del feto imputabile ad omissioni e ritardi dei medici è morfologicamente assimilabile al danno da perdita del rapporto parentale, che rileva tanto nella sua dimensione di sofferenza interiore patita sul piano morale soggettivo, quanto nella sua attitudine a riflettersi sugli aspetti dinamico-relazionali della vita quotidiana dei genitori e degli altri eventuali soggetti aventi diritto al risarcimento del danno.
Questo il principio affermato dalla Cassazione, con ordinanza del 6 ottobre 2025, n. 26826.
Il fatto
I congiunti di una bimba spirata poco dopo la nascita agivano nei confronti dell’ospedale chiedendo la condanna al risarcimento dei danni patiti a vario titolo da ciascuno degli attori (genitori, nonni e fratelli nati successivamente).
Il Giudice di primo grado accoglieva la domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale proposta dai genitori e dai nonni (e non quella dei fratelli non ancora concepiti), ritenendo configurabile la fattispecie della perdita non del feto, ma della piccola neonata, regolarmente registrata.
La Corte d’Appello, adita dall’azienda ospedaliera e della compagnia assicurativa (chiamata in causa) accoglieva parzialmente l’appello, dimezzando il risarcimento riconosciuto ai danneggiati.
Proponevano ricorso per cassazione i congiunti della piccola vittima.
La piena risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale in caso di morte del feto
La Cassazione muove dalla censura della motivazione della sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto che la perdita del feto darebbe luogo alla perdita di una “relazione affettiva non già concreta, bensì potenziale” (sulla scia di quanto affermato da Cass. n. 22859 del 2020 e, di recente, Cass. 12717 del 2025), liquidando il danno “nella misura della metà dei minimi previsti dalle attuali tabelle milanesi”.
L’ordinanza in esame muove dalla critica del riferimento a un “pregiudizio potenziale”, evocato al fine di negare la piena rilevanza del danno da perdita di un feto (o di un neonato), “sia sotto il profilo della sofferenza interiore … sia sotto quelli dinamico-relazionale”, sul presupposto che “la quotidianità della vita di due genitori che perdono un figlio anche soltanto concepito non è paragonabile a quella di genitori che, quel figlio, lo hanno visto nascere”.
La Corte ritiene, invece, che, “circoscrivendo nella sua sola dimensione funzionale – riduttivamente ed impropriamente – il danno “da perdita del frutto del concepimento”, si omette di considerare che, in realtà, i genitori prima, il giudice poi, si trovano al cospetto di un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale” (in questi termini, si richiama nel provvedimento in esame, Cass. 26301 del 2001).
Le sofferenze dei due genitori per la morte del feto (o del neonato) non possono considerarsi “danno potenziale” poiché, dall’insegnamento di molte scienze umane “il rapporto genitoriale viene ad esistere già durante la vita prenatale, per consolidarsi progressivamente nel corso della stessa, a prescindere dal fatto che il feto sia successivamente venuto alla luce”. Infatti, è massima di comune esperienza quella secondo cui “già durante la gravidanza il genitore comincia a viversi come tale, instaurando una relazione affettiva (oltre che strettamente biologica, da parte della madre) con il concepito, adeguando alla nuova situazione, al tempo stesso attuale e in fieri, la propria dimensione di vita”. Pertanto,quando“l'illecito abbia causato la morte del feto, quella che si produce — in capo ai genitori — è … lesione di un rapporto familiare (non solo potenziale, bensì) già in essere”.
La Corte - richiamando il precedente Cass. n. 26301 del 2021 (il cui esame era stato erroneamente omesso dalla Corte d’Appello) - ribadisce che il danno da perdita del feto coincide con il danno da perdita del rapporto parentale e “rileva nella sua dimensione della sofferenza interiore eventualmente patita sul piano morale soggettivo nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore e anche in quella riflessa sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l'ha subita” (questele parole di Cass. 26301 del 2021; nella conformazione del danno da perdita del rapporto parentale, v. Cass. 11 novembre 2019, n. 28989).
Conclude quindi la Corte che “la perdita del frutto del concepimento prima della sua venuta in vita, imputabile a omissioni e ritardi dei medici, determina la risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale, che si manifesta prevalentemente in termini di intensa sofferenza interiore tanto del padre, quanto (e soprattutto) della madre”.
La misura del risarcimento
L’ordinanza in commento ribadisce che il parametro risarcitorio da utilizzare nella liquidazione del danno in questione è rappresentato dalla Tabelle elaborate dal Tribunale di Milano.
Secondo il consolidato orientamento di legittimità (risalente a Cass. 12408 del 2011) le tabelle milanesi “sono comunemente applicabili e vincolanti, de futuro, perché valide ed attendibili … potendo il giudice e l'interprete discostarsene solo con esplicita, adeguata, esaustiva motivazione imposta dagli elementi e dalle circostanze del singolo caso”.
Tale conclusione trova conforto anche nel Decreto del 16 settembre 2025 (sul nostro sito, Liquidazione del danno alla salute per fatti antecedenti al D.P.R. n. 12 del 2025: il Giudice deve usare la Tabella milanese o la Tabella Unica Nazionale? Ammissibile il rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c.), con cui il Primo Presidente ha assegnato alla Terza Sezione civile la questione sollevata dal Tribunale di Milano, con ordinanza del 18 luglio 2025, se, in relazione a domanda risarcitoria per lesione macro-permanente alla salute derivante da sinistro stradale avvenuto prima del 5 marzo 2025, il Giudice debba continuare ad applicare la Tabella elaborata dall’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano ovvero se dovrà necessariamente applicare la Tabella Unica Nazionale (T.U.N.), approvata con D.P.R. n. 12/2025 in vigore dal 5 marzo 2025, ovvero possa applicare, in tutto in parte, una o l’altra, sulla base di adeguata motivazione.
Si conferma, dunque, implicitamente, “la costantemente predicata valenza paranormativa di dette tabelle (e non di altre), e tantomeno la cancellazione del principio di equità attraverso una sorta di irresponsabile legittimazione del giudice di merito a pronunciare sentenze del tutto avulse dall’applicazione di parametri predeterminati”.
Pertanto, conclude la Cassazione, “il giudice di merito è tenuto ad applicare le tabelle milanesi, utilizzandone i singoli parametri alla luce dei principi in tema di morfologia del danno da perdita del frutto del concepimento, tenuto conto di tutte le circostanze di fatto portate al suo esame”.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n.6386 del 03.03.2023 torna a pronunciarsi sul tema del risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale e della responsabilità dell’ente ospedaliero, nella prospettiva, questa volta, di mappare gli oneri di allegazione e prova gravanti sui congiunti del paziente (per il risarcimento del danno parentale) e sulla struttura ospedaliera.
Il caso ha riguardato una paziente ricoverata in ospedale per un intervento oculistico programmato routinario, la quale, a seguito di una banale caduta da una sedia nella propria stanza di ospedale, riportava un trauma contusivo all’addome, da cui derivava una infezione da staphiloccoccus aureus, non immediatamente trattata e che, nonostante la terapia antibiotica somministrata, portava alla morte della stessa.
Nei primi due gradi di giudizio, la domanda attorea veniva rigettata. I giudici del merito, pur ritenendo accertato il comportamento negligente e imperito dei medici, escludevano la sussistenza del nesso causale fra condotta e danno, non potendo affermarsi “con certezza la possibilità di sopravvivenza della paziente se fosse stata adeguatamente curata”; mentre né in primo grado né in appello veniva indagata adeguatamente la responsabilità della struttura sanitaria.
La Suprema Corte di Cassazione, investita della questione, ha trovato lo spunto per ridefinire, da un lato, il rapporto contrattuale tra paziente e struttura rispetto ai terzi (i congiunti), con particolare riferimento all’azione risarcitoria (se contrattuale o extracontrattuale) a questi ultimi spettante e, dall’altro lato, collocata l’azione risarcitoria da perdita del rapporto parentale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, si è soffermata sugli oneri probatori gravanti sulle parti.
Quanto al primo profilo, la Suprema Corte ha ricordato che il rapporto contrattuale fra paziente e struttura ospedaliera o medico non produce, di regola (fatta eccezione per le prestazioni sanitarie riguardanti la procreazione), effetti protettivi in favore dei terzi, dovendosi applicare il principio generale di cui all’art. 1372, 2 co., c.c.. In questa prospettiva, l’inadempimento dell’obbligazione sanitaria può essere fatto valere come responsabilità contrattuale unicamente dal creditore paziente che ha stipulato il contratto atipico di spedalità o assistenza sanitaria (in base appunto alla regola per cui il contratto ha efficacia solo fra le parti); mentre i terzi congiunti, per i danni da essi subiti iure proprio quale conseguenza dell’inadempimento della struttura sanitaria, potranno far valere unicamente l’azione di responsabilità extracontrattuale; con le connesse ricadute in tema di onere della prova. La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, ha quindi ribadito, da un lato, che “non è predicabile un “effetto protettivo” del contratto nei confronti di terzi” e, dall’altro, che “non è identificabile una categoria di terzi (quand’anche legati da vincoli rilevanti, di parentela o di coniugio, con il paziente) quali “terzi protetti dal contratto””.
Quanto al secondo profilo, inquadrata nell’ambito della responsabilità extracontrattuale l’azione spettante ai congiunti per i danni da essi subiti in proprio quale riflesso dell’inadempimento della struttura sanitaria, la Suprema Corte ha ridefinito gli oneri probatori gravanti sulle parti. In applicazione dei principi sottesi alla responsabilità aquiliana, la Cassazione ha, quindi, stabilito che incombeva sugli attori l’onere di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità della struttura, vale a dire: il fatto colposo (nel caso di specie, “consistente nel mancato approfondimento delle conseguenze della caduta dalla sedia, in soggetto sovrappeso, che avrebbe consentito di individuare prima l’esistenza di una estesa infiammazione e di somministrare prima la terapia antibiotica, e nell’inadeguata sorveglianza sulla sterilità della struttura ospedaliera”); il danno (ossia “il pregiudizio che da questo fatto è conseguito alla defunta”); il nesso causale tra il fatto colposo e il danno; mentre sulla struttura sanitaria ricadeva la prova di aver esattamente adempiuto la prestazione richiesta ovvero la prova della causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatto adempimento; in tal modo riaffermando il principio che la responsabilità della struttura non è di natura oggettiva. In questa prospettiva, ha specificato quali oneri deve assolvere la struttura per provare di avere esattamente adempiuto alla propria prestazione; per provare, cioè, di aver “adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis” per andare esente da responsabilità. La Suprema Corte ha quindi stilato un elenco di misure utili che la struttura sanitaria dovrà provare di aver adottato per la prevenzione del rischio di infezioni, e precisamente:
“a) L'indicazione dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;
b) L'indicazione delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
c) L'indicazione delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami;
d) Le caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
e) Le modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
f) La qualità dell'aria e degli impianti di condizionamento;
g) L'attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica;
h) L'indicazione dei criteri di controllo e di limitazione dell'accesso ai visitatori;
i) Le procedure di controllo degli infortuni e delle malattie del personale e le profilassi vaccinali;
j) L'indicazione del rapporto numerico tra personale e degenti;
k) La sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;
l) La redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti da comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;
m) L'indicazione dell'orario della effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio”.
Infine, la Suprema Corte ha chiarito i profili di responsabilità del dirigente apicale, del direttore sanitario e del dirigente di struttura complessa (ex primario), indicando per ciascuna figura gli oneri probatori da assolvere per andare esenti da responsabilità.
All’esito di tale ricostruzione, e tornando al caso di specie, la S.C. ha ritenuto che gli attori avessero assolto agli oneri probatori sui medesimi gravanti; mentre ha rimesso la causa alla Corte di Appello in sede di rinvio affinché, sulla base dei principi enunciati, valuti la responsabilità della struttura sanitaria (e non solo quella dei singoli sanitari coinvolti, sui quali solo si erano concentrati i giudici del merito) rispetto agli obblighi sulla medesima gravanti.
Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui: https://onelegale.wolterskluwer.it/document/cass-civ-sez-iii-sent-data-ud-25-11-2022-03-03-2023-n-6386/10SE0002674370?searchId=808799863&pathId=bb7a1c1fb23f98&offset=0