Breve nota a Cass. 6051/2023

Il caso.

Un lavoratore è stato impiegato presso un’articolazione della P.A. in forza di una pluralità di contratti a tempo determinato. Successivamente alla stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, così come determinatasi per effetto della sottoscrizione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’ente pubblico, il lavoratore adisce il Tribunale per veder riconosciuto il proprio diritto al computo della pregressa anzianità di servizio (relativa ai rapporti di lavoro a tempo determinato succedutesi nel tempo tra le parti) ed i conseguenti incrementi stipendiali da essa derivanti.

Il Tribunale di Roma ha rigettato l’eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A. sul presupposto che il dies a quo dovesse coincidere con il momento dell’avvenuta stabilizzazione; e ciò in ragione della condizione di metus in cui si trova il prestatore di lavoro impiegato con rapporti che non ne garantiscono la stabilità, che gli impedisce, perlomeno fino al conseguimento della stabilizzazione, di far valere i propri diritti relativi all’anzianità lavorativa e alla maturazione dei conseguenti stipendiali.

La decisione del Tribunale è stata poi confermata dalla Corte territoriale romana.

La P.A. ricorre in Cassazione con un unico motivo concernente l’individuazione del giorno di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi.

I principi di diritto che regolano la prescrizione in caso di rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Ritenendo la questione di massima importanza, la Sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza che qui brevemente si commenta, ha rimesso la questione  al Primo Presidente affinché quest’ultimo valuti l’opportunità di un’eventuale decisione  della stessa da parte delle Sezioni Unite.

La Sezione lavoro muove innanzi tutto da una puntuale ed approfondita analisi diacronica del contenuto delle sentenze della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite di Cassazione che hanno costituito vere e proprie “pietre miliari” dell’istituto della prescrizione in ambito lavoristico. Non è questa la sede per approfondire compiutamente la portata di tali pronunce; tuttavia, è possibile richiamare alcuni fondamentali principi di diritto sanciti dalle medesime.

Corte Costituzionale n. 63/1966, con riferimento al rapporto di lavoro privato, fissò il principio cardine dell’intera materia nel momento in cui escluse la decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro, atteso che, “quando questo non ha la resistenza tipica del pubblico impiego”, il timore del licenziamento può spingere il lavoratore a rinunciare a far valere i suoi diritti. Pertanto, poiché, come è noto, la prescrizione è una modalità di estinzione dei diritti dovuta al loro mancato esercizio protrattosi per un determinato periodo di tempo disposto dalla legge, la Corte Costituzionale dichiarò “l’illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro”.  La ratio posta a fondamento di tale decisione (comune a tutte le altre pronunce che si sono poi succedute in tema di prescrizione) fu la volontà di tutelare l’interesse primario del contraente più debole alla conservazione del rapporto di lavoro, qualificando l’inerzia del lavoratore come una sorta di incapacità temporanea a disporre.

La successiva pronuncia della Corte Costituzionale n. 143/1969 definì i caratteri della stabilità che caratterizza(va) il rapporto di pubblico impiego, stabilità che giustificava, al contrario, il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro. Tale stabilità, rilevò la Corte Costituzionale “è data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto o delle garanzie di rimedi giurisdizionali contro la illegittima risoluzione di esso, che escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunciare”.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 174/1972 intervenne in un momento in cui erano state da poco introdotte nel nostro ordinamento la legge n. 604/1966 (che generalizza l’obbligo di giustificazione causale del licenziamento) e la legge n. 300/1970 (che, come noto, prevedeva che i licenziamenti illegittimi irrogati nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni organiche fossero sanzionati con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, secondo lo schema della restitutio in integrum). Pertanto, in considerazione del mutato assetto normativo – tale da introdurre una significativa tutela del lavoratore contro il licenziamento arbitrario ed illegittimo – la Corte Costituzionale ampliò l’ambito dei rapporti lavorativi nei quali non è ravvisabile alcuna condizione di metus del lavoratore: non solo quelli di impiego pubblico o con enti pubblici economici, ma tutti i rapporti privati di lavoro, regolati dalla L. n. 604 del 15 luglio 1966 e dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, perché caratterizzati “da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione” in quanto “una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare”. Conseguentemente, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro privati a tempo indeterminato, venne sancita la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto.

Tale principio fu poi ulteriormente chiarito dalle Sezioni Unite di Cassazione con la pronuncia n. 1268 del 12 aprile 1976: la stabilità o resistenza del rapporto di lavoro capace di giustificare la decorrenza immediata della prescrizione ricorre in presenza di una disciplina “che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e la efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

…e quelli che regolano la materia della prescrizione nel rapporto di lavoro a tempo determinato.

Con riferimento ai contratti a tempo determinato, il principio che lega l’individuazione del dies a quo della prescrizione all’eventuale condizione di metus del lavoratore è stato declinato in maniera duale, a seconda del settore, privato o pubblico, nell’ambito del quale tali contratti sono stati conclusi.

Infatti, con riferimento al settore privato, si legge in Cass. S.U. n. 575 del 16 gennaio 2003nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui agli artt. 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, c.c., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo - ai fini della decorrenza della prescrizione - i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la tassatività della elencazione delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c., e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest'ultime norme espressamente previste”.

Posto che il rapporto di lavoro di colui che è assunto a tempo determinato è assicurato da stabilità reale (nell’ambito del licenziamento a tempo determinato, peraltro, il recesso è consentito solo nel caso in cui ricorra una giusta causa di recesso), è stato ritenuto che la prescrizione dei diritti del prestatore dovesse decorrere in costanza di rapporto e, quindi, dal giorno della loro insorgenza.

Ciò perché, hanno affermato le Sezioni Unite, “la rinnovazione del relativo rapporto non presente carattere di normalità”, ed il lavoratore ha diritto solo a che il rapporto sia mantenuto in vita sino alla scadenza concordata; non è allora configurabile una situazione di metus che giustifichi una decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi come quella prevista per il lavoro a tempo indeterminato non assistito dal regime di stabilità reale.

Fissato tale principio per i contratti a tempo determinato, la Cassazione ha introdotto un’importante eccezione alla regola, applicabile a tutte quelle ipotesi in cui i singoli contratti a termine siano illegittimi oppure in quei casi in cui “i contratti, pur singolarmente legittimi...vengano a risultare collegati, nella loro pluralità, dall’intento di eludere le disposizioni di legge sul contratto a termine”. In tali fattispecie, infatti, ricorrono quei presupposti di fatto che inducono a ritenere che la prescrizione debba decorrere solo alla cessazione del rapporto lavorativo, “dovendo la situazione psicologica del lavoratore essere valutata in concreto sulla base, cioè, della realtà di fatto che ha influenzato le sua determinazioni e che ha determinato uno stato di costante soggezione nei confronti del datore di lavoro per il perdurante metus di vedere interrotta la continuazione della serie dei rapporti di lavoro”.

Con riferimento al settore del pubblico impiego, invece, anche nell’ipotesi di contratti a termine affetti da nullità è stato ritenuto dovesse valere la medesima regola fissata per i contratti validi ed efficaci stipulati nell’ambito del settore privato; ciò perché, essendo impedita per legge la conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dello Stato, non è riscontrabile la condizione, valorizzata dalla Corte costituzionale e ritenuta imprescindibile dalle Sezioni Unite, ossia “il timore del recesso, cioè del licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia a una parte dei propri diritti” (in questi termini Cass. n. 10219 del 28 maggio 2020).

Analogamente, Cass. n. 35676 del 19 novembre 2021, sempre con riferimento al settore del pubblico impiego privatizzato, ha statuito che nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorra durante il rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego e la conseguente impossibilità di configurare una condizione di metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela. Ciò in quanto, come sancito dalla già analizzata Corte Cost. n. 143/1969, “la privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.

La recente evoluzione del contesto socio-economico-giuridico che giustifica una riconsiderazione della regole in materia di decorrenza della prescrizione nel pubblico impiego privatizzato.

Con l’ordinanza n. 6051/2023 oggetto di commento, la Sezione lavoro muove innanzi tutto da una “ricognizione” dell’attuale contesto socio-economico.

Il lavoro, afferma la Corte, è oggigiorno “sempre più precario e meno garantito, persino nel settore del pubblico impiego”. Viceversa, le decisioni della Corte Costituzionale n.  143/1969 e quella delle Sezioni Unite n. 575/2003, fondavano la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto sull’assunto per cui, nei contratti a tempo determinato, “la non rinnovazione del rapporto si configura quale evento avente carattere di normalità”.

L’attuale contesto del mercato del lavoro, invece, è diametralmente opposto a quello esistente nel 1969 e nel 2003, posto che – afferma la Sezione rimettente – con riferimento ai rapporti a termine la rinnovazione dei contratti a tempo determinato “è la prassi” e, sia nell’impiego pubblico che privato, “rappresenta spesso l'unico canale per giungere, dopo anni, ad un rapporto a tempo indeterminato con lo stesso datore”, dovendosi altresì considerare che “lo stesso pubblico impiego è cambiato”, non potendosi più considerare come un rapporto non contrattuale di servizio sotto l’autorità della P.A. (come appunto avveniva in passato, in un’epoca in cui la assunzioni temporanee del pubblico impiego erano tendenzialmente escluse). In linea di principio, a seguito del D. Lgs. n. 165/2001, il rapporto di pubblico impiego contrattualizzato è “regolato in maniera paritaria rispetto al lavoro privato per tutto quel che non è previsto nel suddetto D.Lgs. n. 165 del 2001 e le eccezioni a tale principio devono essere poste specificamente per legge e, coerentemente, vanno interpretate in senso formale”.

Devono altresì essere tenute nella massima considerazione le modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 27/2017, in base alle quali, in caso di accertata illegittimità del licenziamento irrogato al dipendente pubblico, il Giudice dispone la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria che comunque non può essere superiore nel suo massimo alle 24 mensilità: ciò, ad avviso della Corte, consente di ritenere che “dopo la riforma del 2017 anche nel lavoro pubblico tale reintegrazione non ha più applicazione generale”.

E’ stato poi modificato l’art. 36 del D. Lgs. n. 165/2001 concernente la possibilità la P.A. di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché di avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa.

Pertanto, afferma la Corte, “diviene così sempre più problematico giustificare un sistema che individua una differente decorrenza della prescrizione degli identici crediti retributivi di diversi lavoratori che svolgano le stesse mansioni e il cui rapporto di lavoro sia egualmente costituito con la stipula di un contratto individuale e non attraverso un atto di nomina, a seconda semplicemente della loro dipendenza da un datore privato piuttosto che pubblico, tanto più alla luce di un sistema normativo che, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2, stabilisce che il c.d. pubblico impiego privatizzato sia regolato dalla disciplina di diritto comune salve le eccezioni espresse”.

Se a ciò si aggiunge che la stessa Cassazione, con la sentenza n. 26246/2022 (per un commento di tale pronuncia si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-stabilita-del-rapporto-di-lavoro-e-i-suoi-riflessi-sulla-decorrenza-del-termine-di-prescrizione/), ha rilevato come le modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012 e dal D. Lgs. n. 23/2015 al regime sanzionatorio del licenziamento impongono di escludere che, oggigiorno, il rapporto di lavoro privato nelle imprese di maggiori dimensioni sia ancora assistito da una forma di stabilità reale (così come inteso da Corte Costituzionale n. 174/2022), con conseguente esclusione del principio della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, allora, sostiene la Corte rimettente, pare opportuno “porre in dubbio l’orientamento attualmente seguito, a prescindere dal fatto che la privatizzazione abbia comportato o meno una maggiore o minore identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato”.

In altri termini, pare opportuno mettere in discussione il principio per cui, con riferimento ad una pluralità di contratti a tempo determinato stipulati nell’ambito del pubblico impiego, anche se illegittimi e nulli, la prescrizione debba decorrere in costanza di rapporto, regola che era stata recentemente ribadita da Cass. n. 10219/2020 facendo leva sul presupposto della impossibilità di veder convertito il proprio rapporto un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato che giustificherebbe l’esclusione di una condizione di metus che spinge il lavoratore ad una rinuncia dei propri diritti.

Ciò perché, rileva la Corte, anche nel pubblico impiego, oramai, “più lavoratori, assunti con rapporti di lavoro a tempo determinato sulla base di diversi provvedimenti di nomina, vengono ad occupare il medesimo posto di lavoro ininterrottamente per vari anni e svolgono, in modo costante e continuativo, le medesime funzioni (n.d.r. di quelle svolte dai lavoratori assunti a tempo indeterminato). Il mantenimento continuato di tali lavoratori su detti posti vacanti è conseguenza del mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di legge ad esso incombente di organizzare entro il termine impartito un procedimento di selezione al fine di coprire i posti vacanti in via definitiva e per effetto di tale situazione i rapporti di lavoro dei citati lavoratori sono, in questo modo, rinnovati come temporanei o implicitamente prorogati di anno in anno”.

La reiterazione di tali assunzioni a tempo determinato “comporta ab initio o, almeno, dal tempo della sua illegittimità, la nascita di un metus oggettivo del lavoratore in ordine all'esercizio di siffatti crediti (n.d.r. retributivi), atteso che la detta reiterazione crea, un assoggettamento del dipendente dalla P.A., che ben potrebbe cessare di confermarlo (legittimamente) senza regolarizzarlo. Inoltre, poiché, in questa maniera, è istituzionalizzata una condizione di strutturale inferiorità del medesimo lavoratore, che esegue la sua prestazione sperando di beneficiare di una procedura di stabilizzazione, rispetto al datore di lavoro, condizione che va ben oltre il metus ed è incompatibile con l'applicazione ai contratti de quibus delle comuni regole civilistiche, anche sulla prescrizione, basate sulla parità fra le parti negoziali”.

Ne consegue che non può ritenersi “obiettivamente ragionevole che lavoratori, consapevoli da anni di dipendere dalla volontà della P.A. di impiegarli per un ulteriore periodo limitato e di non avere di fatto valide tutele, considerato che già la loro reiterata conferma avviene spesso in violazione della vigente normativa, agiscano contro la propria Pubblica amministrazione per domandare differenze retributive”.

Pertanto, conclude la Corte, “venendo in rilievo una diversità di regime tra lavoro a termine nel settore privato e lavoro a termine nel settore pubblico contrattualizzato che quando è nata (nel 1966) rispecchiava il quadro normativo e giurisprudenziale all'epoca vigente ma che oggi non trova più giustificazione e risulta anzi lesiva non solo del diritto UE ma soprattutto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (Cost., art. 3) e del diritto al lavoro (Cost., artt. 4 e 35)”,  la questione circa la decorrenza della prescrizione nei rapporti di pubblico impiego deve ritenersi di massima, particolare rilevanza, con conseguente rimessione al Primo Presidente affinché valuti se, su di essa, debbano o meno pronunciarsi le Sezioni Unite.

Il caso

Una dipendente pubblica viene rinviata a giudizio per truffa ai danni dello Stato in relazione ad alcune sue assenze ingiustificate dal posto di lavoro, occultate attraverso la falsa attestazione della presenza in servizio. L’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari dell’ Amministrazione datrice di lavoro, ricevuta la relativa notizia, contesta alla dipendente il fatto e, contemporaneamente, ritenendo di non disporre di elementi sufficienti per irrogare una sanzione disciplinare, sospende il procedimento disciplinare, avvalendosi della facoltà riconosciuta dall’art. 55 ter, comma 1, del D. Lgs. n. 165/2011[1].

Successivamente alla condanna in primo grado ad un anno e sei mesi di reclusione riportata dalla dipendente, l’UPD riattiva il procedimento disciplinare in precedenza sospeso e le intima il licenziamento per giusta causa.

La lavoratrice ricorre dunque in Cassazione per ottenere la riforma della sentenza con cui la Corte di Appello aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento irrogato.

La pronuncia della Suprema Corte n. 41892/2021

La sentenza che qui brevemente si annota è l’occasione per la Cassazione per ribadire alcuni consolidati principi di diritto in materia di procedimento disciplinare che “abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria”.

E così, in primo luogo, sul piano dell’efficacia temporale delle norme, la Suprema Corte ribadisce che la disciplina del procedimento disciplinare del pubblico dipendente – così come prevista dal c.d. T.U. sul Pubblico Impiego modificato dal D. Lgs. n. 150/2009 (c.d. “decreto Brunetta”) – si applica a tutti quei fatti disciplinarmente rilevanti di cui la singola P.A. acquisisce notizia successivamente all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 150/2009, e dunque successivamente al 16 novembre 2009.

Viene poi affermato nuovamente il principio in base al quale la P.A., una volta esercitata la facoltà di sospendere il procedimento disciplinare in ragione della particolare complessità dell’accertamento del fatto ed in ragione della insussistenza di elementi sufficienti a fondare l’irrogazione di una sanzione disciplinare, può successivamente riattivare il procedimento disciplinare senza dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio penale. Del resto, quanto sopra si spiega, da un lato, in considerazione della pacifica autonomia del procedimento disciplinare dal procedimento penale, dall’altro, in ragione del fatto che la norma in questione, a seguito della aggiunta ad essa apportata dal D. Lgs. n. 75/2017, inequivocabilmente prevede che “il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo”. Il giudicato penale, afferma la Suprema Corte, è il termine massimo finale della sospensione, che dunque non può protrarsi oltre di esso, ma non vincola la P.A., che appunto non è tenuta ad attendere che l’accertamento della responsabilità penale del dipendente sia definitivo ed immutabile per esercitare legittimamente il potere disciplinare.

Ad ulteriore conferma dell’autonomia tra procedimento disciplinare e procedimento penale e della conseguente facoltà della P.A. di riattivare e concludere il procedimento disciplinare sospeso anche in assenza di un accertamento definitivo della responsabilità penale del dipendente pubblico, la Cassazione rammenta che l’art. 27, comma 2, Cost. “concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può essere applicato, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto”.

E’ altresì ribadito il riconoscimento della natura imperativa della disciplina di cui all’art. 55 ter D. Lgs. n. 165/2001, con il corollario che la facoltà di sospensione del procedimento disciplinare non può ritenersi derogabile dalla contrattazione collettiva di settore.

Nel caso in cui la P.A., afferma ancora la Corte, riattivi il procedimento disciplinare (rinnovando quindi la contestazione disciplinare) senza attendere la sentenza che definisca anche solo il primo grado del giudizio penale, è previsto che il procedimento disciplinare “riattivato” si svolga “secondo quanto previsto nell’articolo 55-bis con integrale nuova decorrenza dei termini ivi previsti per la conclusione dello stesso”, con il corollario che non si dovrà tenere conto dell’arco temporale già decorso dalla data dell’originaria contestazione a quella della sospensione del procedimento disciplinare.

Ed ancora, è ribadita la regola per cui il datore di lavoro, ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, oltre che delle prove dibattimentali, può desumere la rilevanza disciplinare della condotta del dipendente anche dagli atti acquisiti nel corso delle indagini preliminari.

Altro orientamento consolidato da cui la Suprema Corte non ritiene di doversi discostare, che del resto è valido anche per il rapporto di lavoro privato, è quello secondo il quale, nell’ipotesi in cui la condotta disciplinarmente rilevante consista nell’assenza ingiustificata del lavoratore, il datore di lavoro può limitarsi a provare l’assenza nella sua oggettività, essendo onere del lavoratore che voglia contrastare la pretesa datoriale provare “gli elementi che possano giustificarla”.

Con tale pronuncia, pertanto, la Suprema Corte ha colto l’occasione per affermare nuovamente alcuni significativi principi di diritto in materia di procedimento disciplinare del pubblico dipendente, un aspetto del rapporto di pubblico impiego che presenta dei tratti di peculiarità rispetto alla disciplina legale del potere disciplinare del datore di lavoro privato.


[1] L’art. 55 ter del D. Lgs. 165/2001, così come modificato dal D. Lgs. n. 150/2009, al primo comma così dispone: “Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, nei casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale. Fatto salvo quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente”.

Il caso da cui origina l’ordinanza n. 40004/2021 della Corte di Cassazione

Una dirigente di un Ente locale, per un lungo periodo, ha percepito in buona fede indebite retribuzioni, corrisposte spontaneamente in suo favore dal datore di lavoro.

Dopo alcuni anni, l’Ente locale, avvedutosi dell’errore in cui è incorso e fondando la propria pretesa sulla disciplina dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ., agisce in giudizio per ottenere la ripetizione di ciò che ha pagato indebitamente.

La lavoratrice resiste invocando l’applicabilità dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così come interpretato in via consolidata dalla Corte EDU.

La disciplina prevista dalla CEDU

L’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU, sotto la rubrica “protezione della proprietà” prevede che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni Precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Il conflitto tra normativa interna e normativa convenzionale

La Suprema Corte muove innanzi tutto dal rilievo per cui l’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU si applica tanto all’indebito retributivo che all’indebito previdenziale. Sul piano dell’ordinamento interno, invece, se l’indebito previdenziale è oggetto di una regolamentazione speciale, l’indebito retributivo, in assenza di una disciplina speciale, è regolamentato dall’art. 2033 cod. civ.

Ciò premesso, poiché l’indebito riguarda alcune somme corrisposte dall’Ente locale a titolo retributivo, il potenziale conflitto tra norme interessa l’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU e l’art. 2033 del Codice civile[1].

Con riferimento alla disposizione codicistica trascritta in nota, la Cassazione, muovendo da un’analisi della propria “consolidata” giurisprudenza, afferma che in caso di indebito avente ad oggetto le retribuzioni di un pubblico dipendente, il diritto alla ripetizione del solvens non può escludersi in ragione dello stato psicologico di buona fede dell’accipiens: esso rileva unicamente in quanto consente di escludere l’obbligo di restituire i frutti e gli interessi maturati prima della domanda giudiziale, posto che “la buona fede...non incide sulle obbligazioni di restituzione, ma unicamente sul tempo di maturazione delle obbligazioni accessorie”.

Tale – pacifico – principio di diritto, tuttavia, entra in rotta di collisione con l’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU che si rinviene nell’altrettanto consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui il “legittimo affidamento” del dipendente/percipiente nella definitività dell’attribuzione retributiva è un elemento che rende illegittima ed infondata la pretesa restitutoria del datore di lavoro pubblico.

Quindi, attraverso un’analisi particolareggiata dei casi in cui la Corte EDU ha fatto applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU per respingere la pretesa restitutoria dell’Ente pubblico, la Cassazione delinea le caratteristiche che devono ricorrere affinché possa dirsi sussistente una condizione di “legittimo affidamento” del percipientesul carattere definitivo dell’attribuzione indebita. Il pagamento della somma deve esser stato effettuato spontaneamente dalla Pubblica Amministrazione o comunque su domanda del dipendente che fosse in buona fede; è necessario che vi siano ragionevoli motivi affinché l’accipiens possa ritenere che il pagamento sia sorretto da un valido titolo giuridico e non sia il frutto di un mero errore di calcolo; è necessario altresì che i versamenti siano stati effettuati per un periodo di tempo non breve e che non sia stata espressamente prevista la riserva di ripetizione; è necessario, infine, che colui/colei che riceve il pagamento dell’indebito sia in buona fede e dunque non sia consapevole della natura indebita dell’attribuzione patrimoniale. Poiché tuttavia, afferma la Cassazione, la stessa Corte EDU, nei casi in cui ha fatto applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU per negare la legittimità della pretesa restitutoria, ha comunque astrattamente riconosciuto la legittimità dell’azione volta ad ottenere la ripetizione dell’indebito in quanto finalizzata al perseguimento di un interesse di carattere generale (quale l’interesse pubblico a che i beni ricevuti in assenza di titolo debbano essere restituiti allo Stato), affinché la pretesa restitutoria del solvens possa davvero ritenersi lesiva del diritto di proprietà dell’accipiens è altresì necessario che essa sia sproporzionata. A tal fine, dovranno allora essere oggetto di ulteriore valutazione circostanze di fatto quali: l’esclusiva imputabilità dell’errore del pagamento all’autorità pubblica, la possibilità di individuare il titolo del pagamento nel corrispettivo per lo svolgimento dell’ordinaria prestazione lavorativa, la condizione economico-patrimoniale dell’accipiens –al momento in cui l’Autorità pubblica, avvedutasi dell’errore, eserciti la propria pretesa restitutoria –, condizione che deve risultare fortemente incisa dall’eventuale affermazione dell’obbligo restitutorio.

Il conseguente “inevitabile” incidente di costituzionalità

Vengono così delineati i termini del conflitto tra normativa interna e normativa convenzionale: per il Codice civile la buona fede del percipiente non rileva ai fini dell’obbligo alla restituzione della somma percepita indebitamente, obbligo, quest’ultimo, destinato a prevalere sul diritto di proprietà dell’accipiens; per la CEDU, invece, la configurabilità di un “legittimo affidamento” del dipendente pubblico (ravvisabile solo in presenza delle circostanze di fatto tipiche più sopra individuate) consente di escludere la legittimità della pretesa restitutoria della Pubblica Amministrazione e conseguentemente di prevalere su di essa. E’ questo un conflitto insanabile, nel senso che “la ricezione nell’ordinamento interno dei principi sottesi all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU sarebbe l’esito non di una diversa interpretazione dell’art. 2033 cod. civ. ma, piuttosto, di una vera e propria disapplicazione della disposizione codicistica in favore di una normativa diversa – sia quanto all’ambito soggettivo, relativo ai soli pagamenti provenienti dalla pubblica amministrazione, sia nel disposto oggettivo – corrispondente all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU”.

Tuttavia, prosegue la Cassazione, il rinvio alla CEDU operato dall’art. 6, par. 3 del Trattato UE di Lisbona[2] non ha modificato la posizione della Convenzione all’interno del sistema delle fonti, sicché, nell’ipotesi in cui essa contrasti con una normativa di carattere nazionale, non ne determina la disapplicazione, appunto perché la CEDU, in ragione della sua (invariata) natura di trattato internazionale, non è direttamente applicabile all’interno degli ordinamenti giuridici dei singoli stati membri[3].

E’ però noto che l’art. 117 della Costituzione prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni debba essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Pertanto, conclude la Cassazione con l’ordinanza qui brevemente commentata, “l’impossibilità di recepire i principi enunciati dalla Corte EDU attraverso un’operazione genuinamente interpretativa dell’art. 2033 cod. civ. dà luogo all’incidente di costituzionalità dello stesso articolo per violazione degli articoli 11 e 117 Cost., in rapporto all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU, nella parte in cui, in caso di retribuzioni erogate indebitamente da un ente pubblico e di legittimo affidamento, da parte del dipendente pubblico percipiente, nella definitività dell’attribuzione, consente un’ingerenza non proporzionata nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni (nel senso di cui all’art. 1 del protocollo 1 alla CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU”.

La Corte Costituzionale sarà dunque chiamata a pronunciarsi sulla questione sottopostale dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza di rimessione qui illustrata che, ove ritenuta fondata, determinerà l’introduzione nel nostro sistema normativo di una regola di contenuto fortemente innovativo.


[1] Come noto, l’art. 2033 cod. civ. così dispone: “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”.

[2] Secondo cui “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”.

[3][3] A supporto di tale conclusione la Cassazione richiama: Corte Cost. n. 80/2011; Cass. Sez. VI 4/12/2013, n. 27102; CGUE, sentenza 24 aprile 2012 in causa C 571/10, KamberaJ, punti 62 e 63.

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