Il regime dell’onere della prova in caso di malattia o infortunio del lavoratore non è sempre uguale. La Corte di Cassazione, in una recente ordinanza (Cass. 10 ottobre 2024, n. 26390), ha ricordato i principi elaborati nel corso degli ultimi decenni dalla medesima giurisprudenza di legittimità.

La vicenda prendeva le mosse dalla domanda degli eredi di un lavoratore volta ad ottenere il risarcimento del danno biologico e morale patito dal loro dante causa per la patologia di origine professionale da questi contratta. Il Giudice di primo grado aveva ritenuto non provata l’esposizione del defunto alle sostanze tossiche, consistenti in particolare in fibre d’amianto. La Corte d’appello aveva poi rigettato anche l’impugnazione, negando, tra le altre cose, la responsabilità della Società datrice di lavoro per mancanza di consapevolezza sui rischi connessi alle sostanze presenti nell’ambiente di lavoro, con riferimento ad un tempo (metà degli anni novanta ed epoca anteriore) nel quale non esistevano relative certezze scientifiche, tanto era “l’alone di grave dubbio” che per molti anni avrebbe circondato gli effetti dell’inquinamento con ripercussioni sulle misure da adottare per la prevenzione.

Gli eredi avevano così proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra le altre cose, la violazione o falsa applicazione degli gli artt. 1218, 2087 e 2697 c.c., artt. 40 e 41 c.p. per erroneità della pronuncia nella parte in cui aveva escluso la responsabilità del datore per la mancata adozione di adeguate misure di prevenzione in relazione alla mancanza di consapevolezza della nocività dell’amianto secondo le conoscenze dell’epoca.

La Cassazione ha ritenuto di poter risolvere la questione sottopostale sulla base dei principi di diritti dalla stessa già precisati in precedenti pronunce.

In questa prospettiva, la Corte ha rammentato, in primo luogo, che l’inclusione della malattia fra quelle per le quali l’origine professionale è “di elevata probabilità” determina una presunzione legale in ordine al rapporto causale o concausale. Pertanto, quando la malattia è inclusa nella tabella, al lavoratore è sufficiente dimostrare di esserne affetto e di essere stato addetto alla lavorazione nociva, anch’essa tabellata, affinché il nesso eziologico sia presunto per legge.

Dalla malattia tabellata si differenzia la patologia dichiarata ad eziologia multifattoriale: in tal caso, l’applicazione del criterio presuntivo, come desunto da ipotesi tecniche teoricamente possibili, subisce un’attenuazione, nel senso che la prova del nesso causale non può basarsi su presunzioni semplici, ma è data per raggiunta sol quando il lavoratore abbia concretamente e specificamente offerto la dimostrazione, quanto meno in via di probabilità, della idoneità della esposizione al rischio a causare l’evento morboso.

Ancora diverso è – secondo la Cassazione - il caso in cui la malattia ad eziologia multifattoriale include una patologia tumorale la quale, secondo la scienza medica, ha o può avere origine professionale. In tal caso si determina una ‘reviviscenza’ della presunzione legale quanto all’origine professionale della patologia, cosicché il datore è gravato dell’onere probatorio di una diversa eziopatogenesi del danno.

La Corte ha anche rammentato che la previsione in tabella, ex art. 139 del D.P.R. n. 1124 del 1965, come integrato dall'art. 10 del D.lgs. n. 38 del 2000, di un’attività lavorativa come fattore che con elevata probabilità può cagionare una specifica malattia, non opera sul piano della presunzione dell’origine professionale della malattia e dell’inversione dell'onere probatorio, a differenza della previsione nelle tabelle previste dall'art. 3 dello stesso decreto, che costituiscono il catalogo delle patologie ad eziologia professionale presunta, ma rileva, comunque, su quello dell'assolvimento del carico probatorio. Pertanto, in tal caso, il lavoratore non deve fornire anche la prova delle singole sostanze a cui è stato esposto nel corso dell’attività lavorativa, essendo tale prova assorbita da quella dello svolgimento dell'attività inclusa nella tabella, già riconosciuta come nociva.

Inoltre – ha evidenziato la Cassazione - in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola dell'art. 41 c.p.: pertanto, il rapporto tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni.

La stessa ordinanza ricorda poi che, in materia di esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto, la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e d’indagare l’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. 

Sulla base di questo quadro normativo di riferimento, la Corte ha affermato che, contrariamente a quanto aveva ritenuto il giudice di appello, all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti, la intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto impiegato nelle lavorazioni era ben nota da numerosi anni, tanto che le stesse erano circondate legislativamente di particolari cautele fin dal principio del secolo scorso, indipendentemente dal grado di concentrazione di fibre in relazione a periodi temporali di esposizione per attività lavorativa. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

Inoltre, in materia di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili. Ne consegue – secondo la Cassazione – che, ai fini dell’esonero da responsabilità per il datore, non è sufficiente l’affermazione dell’ignoranza della nocività dell’amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma è necessaria la dimostrazione, da parte datoriale, delle cautele adottate in positivo.

Il ricorso degli eredi è stato accolto e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte territoriale.

In tema di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall’esposizione ad agenti cancerogeni, mutageni e tossici, si rammenta che l’11 ottobre scorso è entrato in vigore il decreto legislativo n. 135 del 4 settembre 2024 che attua la direttiva (UE) 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2022, che modifica la direttiva 2004/37/CE. Clicca qui per maggiori informazioni.

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