Lo ha stabilito la recente pronuncia n. 26198/2022 della Corte di Cassazione.

Come noto, l’art. 30 Stat. Lav. prevede che i componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle rappresentanze sindacali aziendali possano beneficiare di permessi retribuiti al fine partecipare alle riunioni di tali organi.

Tale permesso era stato utilizzato dal lavoratore per finalità diverse dalla partecipazione alle suddette riunioni, ed in particolare per lo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi.

Il principio di diritto sancito dalla Corte.

La condotta del lavoratore è qualificata come una fattispecie di abuso del diritto, posto che il permesso sindacale era stato utilizzato per finalità estranee a quelle per cui è normativamente riconosciuto.

Non è questa la sede per approfondire la complessa tematica dell’abuso del diritto: qui è sufficiente rilevare che, con tale espressione, si è soliti indicare le ipotesi in cui un diritto viene esercitato dal suo titolare per finalità diverse da quelle per cui gli è stato riconosciuto dall’ordinamento. In questo senso, l’abuso del diritto integra una violazione della buona fede oggettiva, intesa come regola generale in base alla quale la condotta di ciascun contraente deve essere improntata a correttezza e reciproca lealtà.

Osserva la Corte che, nel caso di specie, deve escludersi la riconducibilità della condotta del lavoratore alle ipotesi di ‘assenza ingiustificata dal lavoro’ o ‘abbandono ingiustificato del posto di lavoro’, fattispecie, queste ultime, sanzionate dal contratto collettivo applicato al rapporto con una sanzione di tipo conservativo; infatti, non rileva “la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dall’utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali”.

Inoltre, rammenta la Cassazione, la ‘giusta causa’ di licenziamento è una nozione di tipo elastico o una c.d. norma in bianco (benché, a dire il vero, nella sentenza qui in commento la Cassazione la definisca più precisamente – ma ad avviso di chi scrive, del tutto erroneamente – in termini di ‘clausola generale’), vale a dire un concetto giuridico suscettibile di essere ‘riempito’ di contenuto –  o meglio, concretizzato – dall’interprete “tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma”.

Precisa infine la Cassazione, al fine di disattendere le doglianze del lavoratore dirette a sostenere la violazione del principio di proporzionalità, che la lesione del vincolo fiduciario addotta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento “investe la generalità del possibili futuri inadempimenti del lavoratore”.

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