Nella politica di espansione di un’impresa può accadere frequentemente che si ravvisi l’opportunità di assumere l’ex – dipendente di un concorrente che si sappia essere legato a questi da un patto di non concorrenza, a sua volta spesso corredato da una clausola penale.

Si delinea allora il problema se il nuovo datore di lavoro possa essere chiamato a rispondere dell’obbligazione sancita dalla penale (ovvero, in ipotesi, anche del risarcimento del danno ulteriore), in solido con il lavoratore che, instaurando il nuovo rapporto di lavoro, abbia violato il patto di non concorrenza.

Il Tribunale di Livorno, con una recentissima sentenza (in data 31 marzo 2021), ha dato risposta negativa al quesito.

Il principio di relatività degli effetti contrattuali (art. 1372 c.c.)

La – giustamente sintetica – motivazione della sentenza poc’anzi citata è imperniata sulla presa d’atto che uno dei principi fondamentali del nostro diritto dei contratti è quello, racchiuso nell’art. 1372 c.c., della relatività degli effetti del contratto.

Pertanto, affermare la corresponsabilità del nuovo datore di lavoro quanto all’obbligo di pagamento della penale equivarrebbe ad accreditare l’idea di un atto di autonomia privata (la clausola penale, racchiusa all’interno del patto di non concorrenza) che proietti la propria efficacia sulla sfera giuridica di un terzo (il nuovo datore di lavoro): ciò che è appunto precluso in radice dall’operare della disposizione sopra richiamata.

E quanto ad un’ipotetica corresponsabilità per il risarcimento del danno ulteriore?

Risulta altrettanto difficile per l’imprenditore, che agisca in giudizio contro un suo ex – dipendente per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla violazione da parte di quest’ultimo di un patto di non concorrenza, sostenere che l’obbligo risarcitorio (una volta in ipotesi dimostrato) debba essere accollato anche al nuovo datore di lavoro, sostenendone la responsabilità per induzione all’inadempimento.

Infatti, l’orientamento giurisprudenziale consolidato (cfr. Cass. 30 maggio 2017 n. 13550) reputa necessario, affinché sia integrata questa ipotesi, “un'attività del terzo che è dolosamente preordinata a rendere possibile, o comunque ad agevolare, l'inadempimento” del soggetto vincolato dal patto di non concorrenza, con l’ulteriore precisazione “che la cooperazione nella violazione dell'altrui obbligo di fedeltà non possa risolversi nel trarre un generico vantaggio dalla collaborazione del dipendente”, essendo invece necessario un elemento ulteriore rappresentato dalla  “induzione del lavoratore subordinato alla violazione del suo obbligo di fedeltà”.

Tutto tranquillo, dunque, per l’imprenditore che voglia fare scouting presso i dipendenti di un concorrente, a questi legati da un patto di non concorrenza?

Sì, abbastanza, ma senza esagerare. Infatti, l’assunzione sistematica di dipendenti di un concorrente, se connotata da modalità tali da rivelarsi sorretta dall’intento di pregiudicare quest’ultimo, potrebbe configurarsi come un atto di concorrenza sleale, in relazione all’art. 2598 n. 3 c.c. Ma questa è, davvero, un’altra storia.

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