Con l’ordinanza interlocutoria n. 7628 del 9 marzo 2022 la Corte di Cassazione ha rimesso il ricorso alla Terza Sezione civile per la fissazione della pubblica udienza sulla questione riguardante l’interpretazione da dare al 3° comma dell’art. 96 c.p.c. in materia di responsabilità processuale aggravata.

1. - Il caso oggetto della sentenza.

In seguito all’impugnazione della sentenza di primo grado la Corte d’appello di Firenze, ritenendo l'appello manifestamente infondato e puramente dilatorio, condannava l’appellante alle spese per lite temeraria sulla scorta del fatto che l'unico motivo di appello dedotto, che avrebbe potuto astrattamente presentare un minimo di fondatezza, si basava su due documenti, uno dei quali non era stato riprodotto nel giudizio di secondo grado, mentre in relazione all’altro restava oscuro chi lo avesse prodotto in primo grado.

Parte soccombente nel proporre il ricorso per cassazione ha censurato la sentenza di secondo grado, con cui era stata riconosciuta la sussistenza della lite temeraria, per "Violazione o falsa applicazione di legge dell'art. 111 Cost. e dell'art. 96 c.p.c., comma 3". Secondo il ricorrente nel caso di specie non sussistevano i presupposti della mala fede ovvero della colpa grave ai fini della condanna per lite temeraria.

2. - Il contrasto giurisprudenziale.

Nell’ordinanza interlocutoria la Corte di Cassazione ha ricordato che in forza di un certo orientamento, con cui la sentenza impugnata appare in linea, la condanna ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c. “configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2 e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente (Cass., Sez. L -, Sentenza n. 3830 del 15/2/2021; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 20018 del 24/9/2020; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 29812 del 18/11/2019)”.

Secondo invece un altro orientamento giurisprudenziale l'elemento soggettivo manterrebbe pur sempre una sua rilevanza e per l’applicazione della condanna per lite temeraria sarebbe quanto meno necessaria la colpa grave.

La Corte richiama in merito il precedente costituito da Cass. n. 17814 del 03/07/2019 in cui l’aver proposto ricorsi per cassazione dai contenuti così distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai precetti del codice di rito come costantemente interpretati dalle Sezioni Unite, costituisce di per sè un indice della mala fede o della colpa grave del ricorrente (“Delle due, infatti, l'una: o il ricorrente - e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. ben conosceva l'insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere tesi infondate; ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare. 6.3. Dovendo quindi ritenersi il ricorso oggetto del presente giudizio proposto quanto meno con colpa grave, il ricorrente deve essere condannato d'ufficio al pagamento in favore della società intimata, in aggiunta alle spese di lite, d'una somma equitativamente determinata in base al valore della controversia”).

Altro precedente è costituito da Cass. n. 28658 del 30/11/2017 riguardante sempre l’applicazione della condanna prevista dall’art. 385, comma 4, c.p.c., norma introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13 successivamente abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20, ed applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006 (D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2).

L’art. 96, comma 3, c.p.c. ha sostituito l'art. 385, comma 4, c.p.c. con riguardo ai giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009.

La Corte nel precedente richiamato ha sostenuto che la condanna ai sensi dell’art. 385, comma 4, c.p.c. “a differenza di quella comminabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c., comma 1 non richiede la domanda di parte nè la prova del danno, ma tuttavia esige pur sempre, sul piano soggettivo, quanto meno la colpa grave della parte soccombente, la quale sussiste nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda. Ebbene, il grado minimo di diligenza deve ritenersi senz'altro violato allorchè, come nel caso di specie, vengano reiterate tesi giuridiche già reputate infondate dal giudice di merito sulla base della riproposizione dei medesimi argomenti già compiutamente ed analiticamente confutati, senza tenere nella minima considerazione le ragioni per le quali erano state ritenute inaccoglibili e senza sottoporre ad alcuna critica tali ragioni. Questa Corte ha del resto già statuito che, ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, (norma che ha sostituito l'art. 385 c.p.c., comma 4, con riguardo ai giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009), integra colpa grave la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, poichè ripetitivi di quanto già confutato dal giudice di appello, precisando che in tali e consimili casi il ricorso per cassazione determina un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità, anche alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 152 del 2006), di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta (Cass. 29/09/2016, n. 19285)”.

La Sesta Sezione Civile della Cassazione, dopo aver dato atto dell’esistenza di due diversi orientamenti riguardanti l’interpretazione da dare all’art. 96, comma 3, c.p.c., ha rimesso il ricorso alla Terza Sezione per la fissazione della pubblica udienza.

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