È legittimo il licenziamento intimato in forza di una previsione contrattuale collettiva che configura l’assenza protrattasi per più di un anno, in conseguenza dell’applicazione di una misura cautelare, quale causa di risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione

Questo il principio affermato dalla Cassazione con la ordinanza n. 26208 del 7 ottobre 2024.

Un lavoratore, sottoposto ad arresti domiciliari, veniva, dapprima, sospeso dalla prestazione lavorativa e, quindi, trascorso un anno, licenziato ai sensi dell’art. 34 CCNL Elettrici ratione temporis applicabile.

Quest’ultima disposizione prevede, infatti, che, in caso di “interruzione del servizio dovuta a provvedimenti restrittivi della libertà personale del lavoratore o comunque tali da impedirne la prestazione lavorativa … è fatta salva, ove già esistente a livello aziendale, la conservazione del rapporto di lavoro del lavoratore non in prova (per un periodo di 12 mesi), che rimane sospeso a tutti gli effetti, senza alcuna corresponsione né decorrenza di anzianità … Alla scadenza dei dodici mesi si realizza la risoluzione del rapporto di lavoro con la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso”.

L’ordinanza in commento muove dalla ricognizione della più recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito, ormai da tempo, che “La sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base ad un giudizio "ex ante", tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza (tra cui le dimensioni dell'impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, le mansioni del dipendente, il già maturato periodo di sua assenza, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell'impedimento, la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni), non persista l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, inoltre, a carico del datore di lavoro, l'obbligo del cd. "repêchage"” (in questi termini, Cass., sez. lav., 10/03/2021, n.6714).

Il provvedimento in esame, dunque, ritiene l’art. 34 CCNL Elettrici, sopra trascritto, conforme alla normativa sui licenziamenti, operando ex ante il bilanciamento degli interessi contrapposti delle parti, richiesto dalla giurisprudenza sopra richiamata e, in particolare, prefigurando l’assenza prolungata per più di dodici mesi quale fatto tale da determinare il venir meno dell’interesse datoriale all’eventuale e futura prestazione residua.

La norma contrattuale collettiva, secondo quanto precisato dalla Cassazione nel caso di specie, “configura il recesso come determinato dalla mancanza di un interesse apprezzabile all'adempimento parziale della prestazione, rimanendo la persistenza o meno di un interesse rilevante a ricevere le possibili prestazioni, in ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva o altra misura cautelare, da parametrare alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati nell'ultima parte dell'art. 3 della legge n. 604/1966, e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell'impresa, da svolgere, però, con una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle dimensioni dell'impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata dell'impossibilità, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza”.

La Corte territoriale si è attenuta a tale principio, accertando che il protrarsi dell'assenza del dipendente, per più di un anno, fosse tale da determinare la perdita di interesse del datore di lavoro all'eventuale prestazione residua, avendo riguardo alle possibili e prevedibili capacità lavorative del prestatore e all'organizzazione dell'azienda, legittimando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La valutazione svolta circa l'interesse dell'imprenditore alla prestazione lavorativa si sottrae al sindacato di legittimità, in quanto sorretta da motivazione congrua.

Su queste premesse, l’ordinanza in commento ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento.

La mancanza di effettive conseguenze pregiudizievoli, in danno del datore o di terzi, ovvero l'assenza di concreti vantaggi, a favore del lavoratore o di terzi, non valgono, di per sé, ad escludere l'inadempimento e, quindi, la rilevanza disciplinare del fatto.

Questo, in sintesi, il principio affermato dalla Cassazione, con ordinanza del 29 agosto 2024, n. 23318, con riguardo al licenziamento intimato nei confronti di un direttore di banca che – secondo quanto si legge in motivazione - aveva, tra l’altro, attivato una carta di credito all’insaputa della cliente; effettuato accrediti fittizi sui conti di alcuni clienti, poi annullando le operazioni; addebitando somme sul conto di un ignaro cliente per un importo corrispondete agli accrediti in favore di altri clienti.

Con specifico riguardo a tali condotte, i Giudici del merito avevano annullato il licenziamento, e disposto la tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18 L. 300 del 1970, sul presupposto della insussistenza dei fatti contestati nella duplice accezione di fatto insussistente (con riguardo a condotte non provate in giudizio) ovvero di fatto sussistente, ma privo di illiceità (per quel che concerne le condotte riassunte nel paragrafo precedente). In particolare, la Corte aveva ritenuto i comportamenti di cui sopra privi del carattere dell’offensività e di rilievo disciplinare, stante l’assenza di un danno patrimoniale per la banca, o per i clienti.

L’ordinanza in commento - rigettati i motivi di ricorso tesi a proporre una diversa ricostruzione dei fatti, con riguardo ai capi della sentenza di merito che avevano ritenuto non provate una parte delle condotte addebitate al lavoratore – ha proceduto all’esame dei motivi attinenti alla sussistenza di una giusta causa di recesso, e alla tutela eventualmente spettante al lavoratore, cogliendo l’occasione per riproporre principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento al rapporto di lavoro bancario.

La Corte muove dalla delimitazione del procedimento valutativo della legittimità dei licenziamenti, anche ai fini della individuazione della tutela eventualmente applicabile nel regime instaurato con la Legge n. 92 del 2012 (Legge Fornero), ribadendo che il giudicante deve operare due valutazioni diverse – l'una riguardante la esistenza della giusta causa e l'altra la tutela applicabile – “che devono essere svolte autonomamente” (così, tra le più recenti, Cass. n. 13774 del 2022; Cass. n. 16973 del 2022; Cass. n. 26510 del 2023).

Quanto alla nozione di giusta causa la Corte richiama il consolidato insegnamento, secondo cui “il licenziamento può essere legittimamente intimato allorquando la condotta del lavoratore rivesta il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello della fiducia” (tra le più recenti, v. Cass. n. 3120 del 2021), e quindi “a far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (così, Cass. n. 36427 del 2023).

La valutazione del giudice – si legge nell’ordinanza - deve essere condotta “con riferimento non già al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, di modo che risulti come la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenuto oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui essa è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all'intensità dell'elemento intenzionale dell'agente, risulti idonea a ledere, in modo tanto grave da farla venire meno, la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre in chi collabora nell'impresa e tale, quindi, da esigere sanzioni non minori di quella massima, definitivamente espulsiva; in particolare, detto accertamento deve essere svolto tenendo conto della qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, della posizione che in esso abbia avuto il prestatore d'opera e, quindi, della qualità e del grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava” (tra le diverse citate in sentenza, v. Cass. n. 3115 del 2021).

L’ordinanza in commento, applicando tali principi, ha cassato la sentenza di merito per avere omesso di valutare se le condotte contestate integrassero o meno degli inadempimenti rilevanti ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2119 c.c. o all’art. 3 L. n. 604 del 1966, ragionando esclusivamente sulle loro conseguenze (invece disciplinate dall’art. 18, L. n. 300 del 1970), escludendone apoditticamente ogni attitudine.

In particolare, la Corte ribadisce il principio secondo cui “è irrilevante, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, l'assenza o la speciale tenuità del danno subito dal datore di lavoro, elementi da soli affatto sufficienti ad escludere la lesione del vincolo fiduciario, perché ciò che rileva è la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti”.Parimenti, “il mancato conseguimento di un utile economico da parte del lavoratore non esclude che la sua condotta, per la sua oggettiva gravità, sia tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, giacché può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali” (cfr. Cass. n. 15654 del 2012; Cass. n. 9802 del 2015)

Tali principi sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità con particolare riguardo alla valutazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà dei dipendenti bancari, da operarsi secondo criteri più rigorosi. In questo senso, rileva la Corte, “il comportamento scorretto del dipendente di una banca, a prescindere dal verificarsi di un effettivo danno di natura patrimoniale, (può) ledere l'affidamento che non solo il datore di lavoro ma anche il pubblico devono riporre nella lealtà e correttezza del personale degli istituti di credito” (in questi termini, Cass. n. 9576 del 2001).

Deve peraltro precisarsi che la Corte d’appello, nella fattispecie, aveva valutato l’asserita carenza di offensività, in ragione dell’assenza di pregiudizio per la banca e per la clientela, prima ancora che nella prospettiva del difetto di proporzionalità, al fine di escludere radicalmente il rilievo disciplinare della condotta del lavoratore.

Ormai da quasi un decennio (v. Cass. 20540 e 20545 del 2015), nell’esegesi dell’art. 18 Stat. Lav, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, la Cassazione ha chiarito che “l’insussistenza del fatto … comprende anche l’ipotesi in cui il fatto sussista ma sia privo di illiceità, poiché la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato equivale alla sua insussistenza materiale ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo alla tutela reintegratoria” (da ultimo, Cass. n. 3362 del 2023).

L’ordinanza in commento delimita la portata di tale principio, precisando, quanto a “l'assoluta sovrapponibilità dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero che non sia imputabile al lavoratore stesso” che di assoluta sovrapponibilità o di completa irrilevanza giuridica del fatto non è dato discorrere “laddove inadempimento vi sia e si possa discutere solo della sua eventuale idoneità a giustificare, in termini di gravità, la risoluzione del rapporto di lavoro; altrimenti ragionando in ogni caso di difetto di proporzionalità tra addebito e sanzione del licenziamento dovrebbe ritenersi applicabile la tutela reintegratoria”.

Applicando questi principi, la Corte ha concluso che non possa considerarsi “radicalmente priva di rilievo disciplinare la condotta del direttore di banca che, secondo quanto concordemente accertato dai giudici di prime cure, abbia: attivato una carta di credito all' insaputa della cliente e allo scopo di raggiungere obiettivi commerciali, domiciliando la carta presso la filiale e conservandola ivi col relativo PIN; effettuato accrediti fittizi sui conti di alcuni clienti, annullando poi le operazioni; addebitato somme sul conto di un ignaro cliente per un importo corrispondente agli accrediti operati in favore di altri clienti a titolo di rimborso spese varie”.

La presunzione di nullità del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio, prevista dall'art. 35 D.Lgs. n. 198/2006, non è esclusa dalla pregressa convivenza more uxorio.

Questo il principio affermato dalla Cassazione nella recente ordinanza 22 maggio 2024, n. 14301.

La vicenda processuale trae origine dalla domanda di nullità del licenziamento intimato, per giustificato motivo oggettivo, nel periodo tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio e un anno dopo la celebrazione del matrimonio. La domanda era stata accolta dai giudici del merito, che avevano rigettato l’eccezione datoriale secondo cui la presunzione di discriminatorietà non opererebbe nel caso in cui il matrimonio sia preceduto dalla convivenza more uxorio, in quanto situazione equiparabile allo stesso matrimonio.

La norma di riferimento è l’art. 35, co. 3, D.Lgs. n. 198/2006, in forza del quale “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio”.

Le uniche eccezioni alla regola sono individuate dal comma 5 nelle seguenti circostanze:

“a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;

b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;

c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine”.

L’ordinanza in esame muove dalla considerazione che “la limitazione alle sole lavoratrici della nullità prevista dall'art. 35 del D.Lgs. n. 198 del 2006 non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova giustificazione nel genere del soggetto che presta l'attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare”.

L’adozione di misure legislative intese a consentire alla donna di poter coniugare il legittimo diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare trova giustificazione in una pluralità di principi costituzionali, individuati dalla Corte:

  • nell’art. 2 Cost., posto a garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali la libertà di contrarre matrimonio;
  • nell’art. 3, comma 2, Cost., che promuove la realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale attraverso la rimozione di ogni ostacolo, anche di fatto, al pieno sviluppo della persona umana;
  • nell’art. 31 Cost., avente ad oggetto l’agevolazione, quale compito della Repubblica, di formazione della famiglia attraverso l'eliminazione di ogni ostacolo, anche indiretto;
  • nell’art. 37 Cost., che pone il principio fissazione di condizioni di lavoro per la donna compatibili con l'adempimento della sua funzione familiare, sull'evidente presupposto della sua libertà di diventare sposa e madre;
  • nell’art. 4 Cost., che proclama il diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Repubblica.

 Fatta tale premessa, l’ordinanza in commento sottolinea – aderendo alle considerazioni della Corte di merito – che, nella fattispecie, ciò che rileva “non è l'intento - discriminatorio o meno - del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso, dato oggettivo che non è contestato”.

In presenza di tali condizioni opera la presunzione legale fissata dall’art. 35 cit. che il datore di lavoro può superare dimostrando la ricorrenza di una delle tre ipotesi previste dal comma 5 della predetta disposizione, sopra trascritto.

Non rileva quale prova liberatoria l’eventuale buona fede del datore di lavoro ovvero l’assenza dell’intento di discriminare la lavoratrice in quanto nubenda o contraente matrimonio. Sviluppando questi rilievi la Corte disattende l’argomento, proposto dalla parte ricorrente, secondo il quale, in caso di pregressa convivenza more uxorio della lavoratrice con la medesima persona che poi ne diventi coniuge, l'interesse tutelato dalla norma non sarebbe in concreto violato. Conclude, infatti, la Corte che la trama normativa delineata dall’art. 35 D.Lgs. n. 198 del 2006  “una volta che il licenziamento sia intervenuto nel periodo ivi previsto, non permette indagini volte a controllare se gli interessi tutelati non sarebbero stati in concreto vulnerati nel senso sostenuto dalla società ricorrente per cassazione”.

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