Il datore di lavoro deve mettere a disposizione del lavoratore la documentazione a fondamento della contestazione disciplinare, se il lavoratore indichi i documenti che ritiene necessari all’esercizio di un’adeguata difesa.

Questo il principio affermato dalla Cassazione, con ordinanza del 27 marzo 2025, n. 9149.

Una dipendente di banca era stata licenziata perché, abusando del proprio ruolo e delle proprie mansioni, aveva effettuato operazioni bancarie non autorizzate sui conti correnti dei clienti, in particolare prelevamenti di contanti mediante il sistema "oneshot", con firme palesemente difformi da quelle depositate dai titolari ed aveva, inoltre, eseguito ripetute interrogazioni non giustificate da esigenze di servizio.

I giudici del merito avevano disatteso le censure proposte dalla lavoratrice avverso il licenziamento, e confermato la legittimità dello stesso, condannando la dipendente al risarcimento del danno subito dalla banca per avere dovuto rimborsare i clienti delle somme oggetto delle operazioni contestate.

La Corte di Cassazione, dichiarati inammissibili i motivi attinenti alla sussistenza del fatto contestato e alla proporzionalità della sanzione comminata, affronta i motivi a mezzo dei quali la ricorrente ha lamentato la legittimità della procedura disciplinare.

In particolare, e per quel che qui interessa, la ricorrente, nell’ambito del sesto motivo di ricorso, ha dedotto la violazione dell’art. 7 L. n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) per non esserle stato permesso di prendere visione di tutti i documenti a fondamento della contestazione disciplinare, così impedendole un’effettiva possibilità di difesa. In particolare, la ricorrente ha lamentato che non solo non era stata fornita copia di tutti i documenti, bensì esclusivamente degli specimen di firma, ma che neanche erano state sottoposte alla lavoratrice le dichiarazioni di disconoscimento rilasciate dai clienti delle operazioni in contestazione.

La Corte muove dall’assunto che l’art. 7 della l. n. 300 del 1970 non prevede che, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazioni di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa”. 

Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad “offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa”. Ne consegue che il lavoratore, che lamenti la violazione dell’obbligo di difesa,ha l’onere di “specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine” (il richiamo è, tra le tante, a Cass., sez. lav., 25.10.2018, n. 27093, ed ancora, Cass. n. 23304 del 2010).

Applicando tali principi, la Corte conclude che, nella fattispecie, non risultasse accertato se e quando, nel corso del procedimento disciplinare, la lavoratrice avesse fatto richiesta di poter visionare documenti ulteriori, e quali, rispetto a quelli offerti in visione dalla datrice di lavoro, fossero necessari a poter esplicare il proprio diritto di difesa.

Su queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso e confermato la legittimità del licenziamento, anche sotto il profilo procedurale.

La «tolleranza» del datore di lavoro della violazione da parte del lavoratore del divieto di fumo nelle zone comuni non esclude l'antigiuridicità della condotta e la legittimità del licenziamento.

Questo il principio affermato dalla Cassazione nell’ordinanza n. 7826 del 24 marzo 2025.

Al lavoratore era stato contestato di aver fumato nell’area air-side, nonostante il divieto di fumo, e ne era stato dunque disposto il licenziamento.

Come si evince dall’antefatto processuale dell’ordinanza in commento, la Corte territoriale aveva ritenuto illegittimo il licenziamento sulla base della considerazione che, pur essendo il dipendente consapevole del divieto di fumo, la «tolleranza» del datore di lavoro “rispetto all'abitudine dei dipendenti di fumare in quella zona, ove neppure era apposto un cartello recante il divieto, fosse sintomatica di una valutazione di quella prassi come non illecita”. Da ciò aveva desunto l'assenza di rilievo disciplinare dell'addebito contestato ed affermato quindi l'insussistenza del fatto, con applicazione della tutela reintegratoria.

La Corte di Cassazione ritiene fondato il motivo di ricorso a mezzo della quale il datore di lavoro ha censurato la sentenza d’appello per avere valorizzato la mancata adozione da parte della società di provvedimenti diretti a far rispettare il divieto di fumo come idonea a elidere l'illiceità della condotta del dipendente.

In particolare, l’ordinanza muove dall’assunto che “in ipotesi di tolleranza di condotte illegittime si è affermato come non basti la mancata reazione del soggetto deputato al controllo a far venire meno l'illiceità della condotta e che l'esclusione di responsabilità dell'autore della violazione in tanto è configurabile in quanto ricorrano elementi ulteriori, capaci di ingenerare nel trasgressore la incolpevole convinzione di liceità della condotta, sì che non possa essergli mosso neppure un addebito di negligenza”.

La giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle violazioni amministrative – con principi ritenuti estensibili alla responsabilità disciplinare del lavoratore – ha già affermato che “per integrare l'elemento soggettivo dell'illecito, è sufficiente la semplice colpa e che l'errore sulla liceità della relativa condotta, correntemente indicato come buona fede, può rilevare in termini di esclusione della responsabilità solo quando esso risulti inevitabile”. A tal fine, “occorre un elemento positivo, estraneo all'autore dell'infrazione, idoneo ad ingenerare nello stesso la convinzione della sopra riferita liceità, senza che il medesimo sia stato negligente o imprudente”.È anzi necessario che “il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l'errore risulti incolpevole, non suscettibile cioè di essere impedito dall'interessato con l'ordinaria diligenza” (in questi termini, Cass.  11253 del 2004).

Dunque, anche il comportamento dell’organo preposto al controllo di quell’attività rileva ai fini dell’ignoranza incolpevole dell’illiceità della condotta, ma solo se l’affidamento che esso ingenera sia tale da escludere ogni incertezza sulla legittimità della condotta del privato.

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte, premesse:

  • la pacifica esistenza del divieto di fumo in quella zona;
  • la conoscenza di tale divieto da parte del lavoratore,

ritiene errata l’attribuzione alla tolleranza datoriale, nel reprimere le violazioni dei lavoratori, dell’effetto di “escludere l'antigiuridicità della condotta del dipendente, senza indagare su presenza di elementi ulteriori, atti a ingenerare nel lavoratore l'incolpevole convinzione di liceità della condotta e senza verificare se il dipendente avesse, in buona fede, fatto il possibile per rispettare il divieto di fumo sì che nessun rimprovero poteva essergli mosso oppure avesse unicamente profittato della mancata reazione di parte datoriale fino a quel momento”.

Su questa base la Corte cassa la sentenza di merito nella parte in cui ha affermato l’insussistenza del fatto contestato, inteso come fatto antigiuridico.

Cass. civ. sez. lav., sent. n. 7480/2025 del 20 marzo 2025

La questione è stata affrontata da una recente pronuncia della Cassazione.

Il lavoratore ha sostenuto in giudizio che il licenziamento intimatogli era da ritenersi nullo per difetto di comunicazione del relativo atto; quest’ultimo, infatti, nel caso di specie era stato trasmesso via posta elettronica certificata al difensore del lavoratore.

E’ bene premettere che, nell’ambito del c.d. “pubblico impiego”, l’art. 55 bis del D. Lgs. 165/2001, nella versione vigente ratione temporis ai fatti di causa (quella, cioè, vigente prima delle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 75/2017) prevedeva che “Ogni comunicazione al dipendente, nell’ambito del procedimento disciplinare, è effettuata tramite posta elettronica certificata, nel caso in cui il dipendente dispone di idonea casella di posta, ovvero tramite consegna a mano. Per le comunicazioni successive alla contestazione dell’addebito, il dipendente può indicare, altresì, un numero di fax, di cui egli o il suo procuratore abbia la disponibilità. In alternativa all’uso della posta elettronica certificata o del fax ed altresì della consegna a mano, le comunicazioni sono effettuate tramite raccomandata postale con ricevuta di ritorno. Il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento. E’ esclusa l’applicazione di termini diversi o ulteriori rispetto a quelli stabiliti nel presente articolo”.

La doglianza del lavoratore, quindi, si basa sul tenore letterale della norma applicabile ratione temporis ai fatti di causa, la quale prevedeva che le comunicazioni successive alla contestazione disciplinare potessero essere effettuate, oltre che a mani del dipendente, al suo indirizzo PEC, oppure, nel caso in cui questi ne fosse stato privo, presso “un numero di fax di cui egli o il suo procuratore abbia la disponibilità”, ma non anche all’indirizzo PEC dell’avvocato (facoltà che invece è stata prevista a seguito delle modifiche apportate all’articolo in questione dal D. Lgs. n. 75/2017).

La decisione

Con una motivazione che potremmo definire “composita”, che le ha consentito di prescindere dal tenore letterale della norma applicabile ai fatti di causa (che, come visto, in linea teorica non contemplava la possibilità di comunicare il licenziamento alla pec dell’avvocato), la Cassazione ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso del lavoratore.

In primo luogo, rileva la Corte, in atti vi era l’elezione di domicilio compiuta dal dipendente nel corso del procedimento disciplinare presso l’avvocato di sua fiducia (e, soprattutto, presso il relativo indirizzo PEC di quest’ultimo); in tal modo il lavoratore ha esplicitamente dichiarato al datore di lavoro che l’indirizzo PEC del suo avvocato “rientrava” nella sua disponibilità, in ragione del legame fiduciario che lo legava a quest’ultimo e che appunto era “cristallizzato” nella predetta elezione di domicilio.

Se a ciò si aggiunge la (doverosa) considerazione dello “statuto giuridico dell’avvocato, già come vigente ratione temporis”che “attribuisce specifico rilievo alla PEC dello stesso, quale domicilio privilegiato per le comunicazioni e notificazioni, atteso che ciascun avvocato è munito di un proprio ‘domicilio digitale’, conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) e corrispondente all’indirizzo PEC che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza e da questi è stato comunicato al ministero della giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici ReGIndE”, ecco che, a prescindere dal tenore letterale dell’art. 55 bis D. Lgs. n. 165/2001, la comunicazione del licenziamento all’indirizzo PEC dell’avvocato è stata ritenuta idonea a determinare la conoscenza legale dell’atto di recesso datoriale (con conseguente individuazione del dies a quo del termine di decadenza per l’impugnazione dalla data in cui essa è stata effettuata).

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