Con la sentenza n. 7 del 5 dicembre 2014 la Corte Costituzionale ha ritenuto infondate le censure di illegittimità costituzionale, sollevate dal giudice a quo, in relazione all’intervenuta eliminazione della tutela reintegratoria, ad opera del Jobs Act, nel caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero.
L’ordinanza di rimessione
Nel corso del giudizio di impugnazione di un licenziamento intimato a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per ‘riduzione del personale’ ed illegittimo per violazione dei criteri di scelta del personale in esubero, la Corte d’appello di Napoli, con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del 2023), ha sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale.
Le censure sollevate dal giudice a quo si sono tutte concentrate sulla non aderenza alla Costituzione del nuovo regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e cioè dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (Jobs Act).
In forza della nuova disciplina, il giudice, anche nel caso in cui venga riscontrata l’illegittimità del licenziamento per la violazione dei criteri di scelta del personale in esubero, è tenuto ad applicare un regime sanzionatorio meramente indennitario che prevede il pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale “in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità” (art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015).
Tali limiti sono stati successivamente ampliati rispettivamente in 6 e 36 mensilità dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. con mod. dalla l. 9 agosto 2018, n. 96.
Per la Corte d’appello di Napoli, la misura afflittiva prevista per la fattispecie in esame, deve considerarsi manifestamente disomogenea sia rispetto alla misura ripristinatoria applicabile alla generalità dei lavoratori, i cui rapporti di lavoro si sono costituiti ante marzo 2015, ed è, al contempo, significativamente inferiore rispetto alla misura indennitaria applicabile ai rapporti costituiti dopo il marzo 2015, ma risolti dopo la novella del 2018, che, come già ricordato, ha esteso fino a 36 mensilità l’indennizzo di cui all'art. 3, 1° co., del d.lgs. n. 23 del 2015.
In conclusione, la Corte d’appello di Napoli, nel rimettere la questione alla Corte Costituzionale, ha rilevato come il diversificato regime di tutela, applicabile al caso in esame, sia “suscettibile di essere concretamente modificato da una pronuncia della Corte costituzionale che accerti le prospettate censure di costituzionalità di eccesso di delega, ovvero di violazione dei parametri della stessa e comunque l’irragionevolezza del sistema sanzionatorio applicabile”.
La tutela reintegratoria nel tempo: dalla Riforma Fornero al Jobs Act
La misura della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato – ha ricordato la Corte Costituzionale in un breve excursus storico contenuto nella sentenza in commento – è stata introdotta dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300) a completamento della disciplina prevista dalla l. 15 luglio 1966, n. 604 in materia di licenziamenti individuali.
Negli anni successivi l’area di applicazione di tale misura, poiché considerata una conquista irretrattabile contro i licenziamenti illegittimi, ha conosciuto una fase di forte espansione, essendo stata estesa anche al licenziamento collettivo illegittimo dall’art. 24 della l. 23 luglio 1991, n. 223 (in applicazione della Direttiva 75/129/CEE del 17 febbraio 1975).
Nel complesso di un disegno riformatore, avviatosi con la l. 28 giugno 2012, n. 92 (riforma Fornero) e volto a favorire una maggiore flessibilità in uscita dal posto di lavoro, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è stato “novellato e, soprattutto, ‘frantumato’ in plurimi regimi di tutela nei confronti del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che fino ad allora era stata l’unicità della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi”.
La logica di fondo che ha accompagnato l’intervento riformatore del 2012, per la Corte Costituzionale, è rappresentata dal fatto che “non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali”.
Sulla base di tale presupposto, con la nuova disciplina il legislatore ha ritenuto di riservare la tutela reale solo ai casi di licenziamenti la cui illegittimità fosse conseguenza di una violazione “più grave”, residuando in tutti gli altri casi il rimedio della compensazione indennitaria.
Con particolare riferimento ai licenziamenti collettivi, la l. 28 giugno 2012, n. 92 ha eliminato la misura della reintegrazione nel caso in cui l’illegittimità del licenziamento sia legata alla violazione di regole del procedimento (di derivazione europea), e l’ha conservata nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, legali o previsti da accordi sindacali.
La violazione, in tale secondo caso, “è stata ritenuta evidentemente più grave”.
La Riforma Fornero ha sensibilmente ridimensionato l’area di applicabilità della tutela reintegratoria a favore di quella indennitaria di tipo compensativo.
Alla disciplina introdotta nel 2012 si è aggiunta quella del Jobs Act (legge delega n. 183/2014) con cui è stato introdotto un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato c.d. “a tutele crescenti”, fattispecie “maggiormente attrattiva per i datori di lavoro in ragione sia della limitazione dell’area di applicazione della tutela reintegratoria, sia della calcolabilità dell’indennizzo compensativo del licenziamento illegittimo”.
In attuazione del Jobs Act è stato emanato il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 che ha ulteriormente ridimensionato l’area di applicabilità della tutela reintegratoria nei casi di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo e l’ha esclusa del tutto nel caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo.
Nell’ambito del medesimo disegno riformatore, con riferimento ai licenziamenti collettivi e limitatamente ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, è stata soppressa la tutela reintegratoria, prevedendo quella indennitaria, anche nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta del personale in esubero, conservandola nel solo caso di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta.
Nella sentenza in commento è stato altresì ricordato che l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla Riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92), è stato oggetto di due pronunce di incostituzionalità (sentenze n. 59 del 2021 e 125 del 2022) che sono andate ad incidere sulla disciplina del licenziamento individuale economico, accordando la tutela reintegratoria in caso di insussistenza – e non più di ‘manifesta’ insussistenza – del giustificato motivo oggettivo allegato dal datore di lavoro quale causale del recesso (sullo stesso argomento, v. L’illegittimità costituzionale del requisito della “manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o.).
Il d.l. 12 luglio 2018, n. 87 è intervenuto, quanto alla disciplina dei licenziamenti individuali, incrementando la misura dell’indennizzo, e confermando, per il resto, il meccanismo delle cosiddette tutele crescenti in progressione lineare (e certa) con l’anzianità di servizio in caso di licenziamento illegittimo.
La decisione della Corte Costituzionale
Nella sentenza in commento, la Corte Costituzionale, dopo aver ripercorso il passaggio da un “regime ampio ed uniforme della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino al 2012)”, ad uno “differenziato secondo la ‘gravità’, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore restringimento dell’area della tutela reale e ampliamento di quella indennitaria”, è passata ad esaminare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo.
Per la Corte d’appello di Napoli, la legge delega n. 183/2014 (Jobs Act) aveva previsto l’eliminazione della tutela reintegratoria, con concentrazione nella sola tutela indennitaria, unicamente per i “licenziamenti economici” da intendersi nel senso di licenziamenti individuali “economici” (ossia per giustificato motivo oggettivo).
L’espressione non poteva essere estesa a tal punto da ricomprendere anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.
Poiché il legislatore delegato con la successiva emanazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, aveva invece ricompreso nel sintagma “licenziamenti economici” anche i licenziamenti collettivi, quest’ultimo, per la Corte rimettente, aveva violato i principi fissati dal Jobs Act per eccesso di delega.
La Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, ha ritenuto la predetta censura infondata sia in ragione dell’interpretazione letterale che di quella sistematica.
Ricostruito l’iter di approvazione della legge delega, nel passaggio al Senato, ha ricordato la Corte Costituzionale, l’approvazione della delega è avvenuta con la puntualizzazione che nei “licenziamenti economici” – termine utilizzato indubbiamente in senso atecnico – rientrassero anche i licenziamenti collettivi. Pertanto, sul piano dell’interpretazione letterale, non vi è dubbio che “l’espressione «licenziamenti economici» si presenta, nel linguaggio corrente, come una formula duttile, la cui ampiezza semantica è potenzialmente idonea ad essere adoperata in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria dei licenziamenti individuali «economici», perché per giustificato motivo oggettivo (id est, per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento), sia i licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa”, come tali anch’essi «economici»”.
In ogni caso, a far ritenere ricompresi nel concetto di “licenziamenti economici”’ anche i licenziamenti collettivi vi è la stessa ratio legis ovvero i principi e i criteri direttivi che hanno ispirato la legge delega e più in generale le riforme del 2012 e del 2014.
Sul piano logico-sistematico, la disposizione censurata “risulta essere conforme alla finalità della legge-delega di incentivare le nuove assunzioni e favorire il superamento del precariato sì da costituire un coerente sviluppo e completamento della disciplina, in simmetria, dei licenziamenti economici, sia individuali per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi per riduzione di personale”.
Per la Corte, se la logica di fondo che ha ispirato le riforme del 2012 e del 2014 è stata quella di riservare la tutela reintegratoria solo ai casi di violazioni più “gravi” di licenziamenti illegittimi, “la mancanza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento individuale costituisce un’ipotesi non meno grave ed evoca, anzi, un controllo giudiziale più penetrante – in termini di giustificatezza, o no, del recesso datoriale – di quello richiesto dalla verifica dei criteri di scelta dei lavoratori destinatari di un licenziamento collettivo, di cui viene in rilievo (non la giustificatezza, ma) la identificazione della fattispecie sulla base degli indici formali del previo confronto sindacale e del numero dei lavoratori licenziati in un determinato periodo di tempo”.
Infine, anche le altre questioni di incostituzionalità sollevate dal giudice a quo sono state ritenute infondate dalla Corte Costituzionale.
Per leggere il Comunicato della Corte Costituzionale del 22 gennaio 2024 clicca qui: “Jobs Act: non è illegittima la disciplina dei licenziamenti collettivi”
Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:7
Sullo stesso tema leggi anche sul nostro sito:
Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione si è espressa in materia di prescrizione di crediti di lavoro affermando il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
I fatti di causa
La Corte d’appello di Brescia aveva respinto le domande di pagamento delle differenze retributive avanzate da due lavoratrici, le sig.re M.C.P e A.B., loro spettanti per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno, in quanto eccedenti la prescrizione quinquennale.
Ai fini della decorrenza della prescrizione, la Corte d’appello aveva negato che le due lavoratrici si trovassero in una condizione psicologica di timore (metus) che aveva impedito loro di avanzare le pretese creditorie relative alle predette differenze retributive durante il corso del rapporto di lavoro temendo possibili reazioni del datore di lavoro comportanti la risoluzione del rapporto di lavoro.
Alla base del ragionamento svolto dal giudice di 2° grado vi era “la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro” anche dopo la novellazione dell’art. 18 legge n. 300/1970, per effetto della legge n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”) e del decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).
La condizione psicologica di timore, secondo la Corte d’appello bresciana, non poteva essere riconosciuta a fronte del mantenimento di una tutela ripristinatoria piena in caso di licenziamento intimato per ritorsione, e dunque discriminatorio, ovvero per motivo illecito determinante.
Nel rigettare la pretesa delle lavoratrici la Corte d’appello aveva ribadito l’irrilevanza del fatto che con le predette riforme vi fosse stata un’attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni (giusta causa o giustificato motivo) estranee alle predette rivendicazioni retributive.
Il ricorso per cassazione
Con ricorso affidato ad un unico motivo le sig.re M.C.P e A.B. impugnavano la sentenza di secondo grado davanti alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4, c.c., 18 l. 300/1970, 36 Cost., per avere la Corte d’appello di Brescia ritenuto, anche dopo la novellazione dell’art. 18 l. 300/1970 ad opera della riforma Fornero e del Jobs Act, la vigenza di un regime di stabilità del rapporto di lavoro.
Secondo la prospettazione delle ricorrenti, poteva intendersi “rapporto stabile di lavoro”, solo quel “rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo”.
In via subordinata, le due lavoratrici hanno sollevato questione di illegittimità costituzionale degli art. 2935 e 2948, n. 4, c.c. con riferimento all’art. 36 Cost. sostenendo che un regime di stabilità del rapporto di lavoro, che sia idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, non può essere integrato da un regime che preveda la tutela reintegratoria, come dispositivo sanzionatorio, per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo.
I principi affermati dalla Corte di Cassazione
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto le argomentazioni delle lavoratrici, ritenendo fondato il ricorso dalle stesse proposto.
Nel prendere la sua decisione la Suprema Corte ha ritenuto di poter rispondere al dubbio di costituzionalità, sollevato dalle ricorrenti, senza dover interpellare la Corte Costituzionale, ma richiamando “l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il c.d. diritto vivente)”.
Il focus della questione, che la Corte si è trovata a dirimere nella sentenza in commento, riguarda il momento di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. in relazione all’art. 2935 c.c., per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di stabilità o meno del rapporto di lavoro.
A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la stabilità del rapporto di lavoro, secondo la Corte, si fonderebbe “su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”
In relazione alla prescrizione, nella sentenza la Corte ha ribadito l’importanza del principio della certezza del diritto, in quanto segno di civiltà giuridica di un Paese, in quanto consente allo Stato di essere attrattivo per investimenti e iniziative di intrapresa economica all’interno del contesto internazionale “nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese”.
La Corte invita poi a riflettere sul doveroso coordinamento di tali principi con la disciplina dei rapporti di lavoro oggi più flessibilmente modulata in ordine alle varie forme di tutela previste nelle varie ipotesi di licenziamento.
Da tale punto di vista, emerge la necessità che il dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore sia ancorato ad un criterio certo che soddisfi un’esigenza di conoscibilità di quelle regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.
Ne deriva che entrambe le parti del rapporto di lavoro - compreso dunque anche il datore di lavoro - siano consapevoli, fin dall’instaurazione del predetto rapporto, non solo di quali siano i diritti che ciascuno può far valere, ma anche “fino a quando” è possibile farli valere.
La Corte, nella sentenza in commento, evidenzia come anche per il datore di lavoro sia fondamentale conoscere, fin dall’instaurazione del rapporto, quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti al fine di programmare “una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d'impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino”.
La pronuncia distingue inoltre il “diritto al lavoro” dal “diritto al posto di lavoro”.
Mentre il primo è riconosciuto a tutti i cittadini dalla Costituzione della Repubblica, che ne deve promuovere le condizioni che lo rendano effettivo, il secondo è invece “oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa”.
Nelle situazioni di crisi, ricorda la Corte, la tutela del posto di lavoro può cedere di fronte a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, “inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell'occupazione possibile con la condizione di crisi data”.
Il diritto al lavoro, nell’insegnamento dato dalla Corte Costituzionale, pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione né, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto, costituisce diritto fondamentale di libertà ed impone allo Stato non solo di creare le condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, ma anche di introdurre “garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4)”.
Ai fini di una chiara individuazione del termine di decorrenza della prescrizione, occorre dunque che la stabilità o meno del rapporto di lavoro risulti:
“a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato […];
b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all'esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post (Cass. s.u. 28 marzo 2012, n. 4942; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774)”.
L'individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, perché possa dirsi coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, ribadisce la Corte, non può dipendere da una qualificazione del Giudice effettuata ex post.
Come noto, la riforma operata con la L. n. 92 del 2012 e con il D.Lgs. n. 23 del 2015 ha segnato il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento “ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. "piena" o "forte", ovvero "attenuata" o "debole") assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2)”.
Nonostante gli sforzi della giurisprudenza volti ad estendere i casi in cui può essere disposta la tutela reintegratoria, quest’ultima ormai non costituisce più la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.
Neppure può dirsi che il quadro normativo sia stato modificato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale (del 7.4.2022, n. 125 e del 24.02.2021, n. 59) con le quali è stata “dichiarata l'illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l'insussistenza "manifesta" del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere "può" come "deve"), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59)”.
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione, preso atto del mutato quadro normativo e tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza anche costituzionale, ha ritenuto l’attuale regime delineato dall’art. 18 della L. 300 del 1970 non in grado di assicurare un’adeguata stabilità del rapporto di lavoro con la conseguenza che “la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione "contro ogni illegittima risoluzione" nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava”.
La Corte di Cassazione, a conclusione del suo ragionamento, dopo aver ritenuto di escludere, “per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità”, ha affermato “la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012”.
Per leggere la sentenza integrale:
http://www.lavorosi.it/fileadmin/user_upload/GIURISPRUDENZA_2022/Cass.-sent.-n.-26246-2022.pdf