Il caso

Viene accertato in giudizio, per il tramite di alcune deposizioni testimoniali, che la condotta reiteratamente assunta da un dipendente si è tradotta in una “mancanza di rispetto...nei confronti delle lavoratrici vittime delle sue attenzioni ripetute e sgradite”, animata da “un profondo disinteresse per il turbamento e disagio provocato a queste ultime dai continui inopportuni approcci e inviti”.

In adempimento dell’obbligo di sicurezza, prima di procedere alla contestazione disciplinare ex art. 7 L. n. 300/1970 nei confronti del dipendente in questione, il datore di lavoro lo ha diffidato formalmente ad adempiere gli obblighi accessori del rapporto di lavoro, primo fra tutti quello relativo alla necessità che le condotte di ognuno siano improntate al decoro, nonché quello in base le relazioni tra colleghi devono ispirarsi a correttezza. Il lavoratore, disinteressandosi della diffida, ha continuato a porre in essere comportamenti della medesima natura di quelli oggetto di diffida: è stato quindi licenziato per giusta causa.

L’atto di recesso datoriale viene però impugnato per violazione del principio del ne bis in idem, posto che, secondo il lavoratore, il potere disciplinare si era già consumato per effetto della diffida e, ai fini della contestazione disciplinare, dovrebbero necessariamente valere solo i fatti successivi alla medesima.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con la pronuncia n. 31790/2023

Premesso che il lavoratore è risultato essere soccombente in giudizio nella fase a cognizione sommaria, in quella d’opposizione, nonché nel giudizio di reclamo, la Corte ha specificato che la diffida ad adempiere è un’espressione del potere direttivo del datore di lavoro e non può dunque fondatamente ricondursi alla sequela di atti che costituiscono il procedimento disciplinare. E’ il successivo inadempimento della diffida, realizzato con comportamenti ulteriori, e della medesima natura di quelli già adottati in precedenza, che è stato oggetto della contestazione disciplinare che ha poi condotto al licenziamento del lavoratore. Ciò non toglie che la contestazione disciplinare possa in ogni caso riguardare anche quei fatti già menzionati nella diffida, appunto perché, con essa, il datore di lavoro, nell’esercizio del potere direttivo che gli è proprio, non ne ha voluto contestare la natura di addebiti disciplinari, ma li ha richiamati al solo scopo strumentale, ontologicamente proprio della diffida, di invitare il lavoratore all’adempimento futuro.

Il caso

Un lavoratore, con qualifica di operaio saldatore e continuativamente impiegato in azienda dal 1988, viene licenziato nel 2017 per giusta causa, allorquando il datore di lavoro viene a conoscenza dell’esistenza di una denuncia sporta dalla sua convivente per maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali, e della conseguente misura degli arresti domiciliari cui il dipendente era stato inizialmente sottoposto dal G.I.P. (misura poi convertita nell’obbligo di firma).

Il licenziamento è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Cassino (tanto nella fase sommaria, quanto in quella di opposizione), mentre la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, lo ha ritenuto illegittimo e ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del quarto comma dell’art. 18 L n. 300/1970.

L’anzidetta pronuncia è stata impugnata con ricorso in Cassazione dal datore di lavoro; ha resistito con controricorso il lavoratore.

La c.d. giusta causa esterna

Con l’espressione giusta causa “esterna” si è soliti intendere una giusta causa di licenziamento che è integrata da fatti commessi dal lavoratore al di fuori del rapporto lavorativo (sia dal punto di vista temporale, che spaziale) che integrano una fattispecie di reato.

E’ principio consolidato quello secondo cui, affinché fatti costituenti reato possano avere rilevanza disciplinare, è necessario che siano tali da ledere gli interessi morali e/o materiali del datore di lavoro, oppure che siano tali da far venir meno la fiducia datoriale nell’esattezza dei futuri adempimenti della prestazione lavorativa. Infatti, alla luce della “non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare”, ha osservato la Corte di Appello di Roma (richiamando Cass n. 3076/2020) nel giudizio di secondo grado, affinché fatti che integrano un reato possano valere in termini di giusta causa di licenziamento, è necessario valutare il “disvalore oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda”, ossia verificare se gli illeciti penali in questione, “tenuto conto delle mansioni in concreto espletate dal lavoratore e dell’ambito lavorativo aziendali”, siano tali da compromettere l’elemento fiduciario.

La decisione fornita da Cass. n. 22077/2023

La Corte di Cassazione ribadisce la correttezza di tali enunciazioni di diritto, soggiungendo che la giusta causa di licenziamento può sussistere “anche in presenza di condotte extralavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa”.

Da un punto di vista meramente fattuale, al fine di giustificare l’atto di recesso, la società aveva addotto il timore che il lavoratore, in ragione della sua indole violenta, potesse adottare comportamenti analoghi all’interno del contesto aziendale, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile.

Cionondimeno, afferma la Cassazione, il licenziamento nel caso di specie deve ritenersi illegittimo perché, tenuto conto delle mansioni meramente esecutive del lavoratore, dell’assenza di alcun precedente disciplinare relativo a condotte violente che sia rinvenibile nel pur lungo periodo che va dall’assunzione al licenziamento (circa trent’anni), le condotte in questione, per quanto deprecabili, non avevano avuto, invero, alcuna incidenza concreta sull’ambiente lavorativo, né alcuna eco mediatica.

La giusta causa di licenziamento, conseguentemente, viene ritenuta insussistente, ed anzi, ancor prima, il fatto contestato al lavoratore viene ritenuto privo di rilevanza disciplinare. Per tale motivo viene ritenuto applicabile il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970: ciò perché “il fatto materiale sussiste, ma, sul piano lavorativo, ossia della sua incidenza sul rapporto lavorativo, non può dirsi ‘illecito’, bensì ‘neutro’ e quindi non rilevante”.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 15140 del 30 maggio 2023 merita di essere commentata per un duplice ordine di motivi. Da un lato, con essa la S.C. torna a ridefinire i confini dell’art. 348 ter c.p.c. in relazione all’art. 360, 1 co., n. 5 c.p.c., in termini che potranno certamente risultare utili anche ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione della disposizione dell’art. 360, co. 4° c.p.c., che ha sostituito, com’è noto, l’art. 348 ter c.p.c., riproponendone il contenuto nell’assetto normativo introdotto dal D. Lgs. 149/2022; dall’altro lato, offre lo spunto per ribadire il principio secondo cui la tipizzazione dei comportamenti contenuta nella contrattazione collettiva e la scala valoriale formulata per ciascuno di essi dalle parti sociali, se non è vincolante per il giudice, è però, pur sempre, uno dei parametri cui occorre far riferimento per riempire di contenuto la clausola generale sulla giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 cc.

Il caso preso in esame dalla Corte ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa di un lavoratore assunto a termine a seguito di recidiva specifica nel medesimo comportamento già posto a fondamento di tre precedenti sanzioni disciplinari nei sei mesi precedenti (l’addebito contestato era consistito nel non avere il lavoratore, addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini).

Dichiarati infondati i primi due motivi di ricorso, la S.C. ha ritenuto inammissibile il terzo[1], essendosi realizzata una “ipotesi di c.d. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348–ter c.p.c. e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”. Al riguardo, la S.C. è tornata a specificare che nel ricorso per cassazione, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, co. 1 n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente “deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass. n. 26774/2016; conf. Cass. 20994/2019; v. anche Cass. 8320/2022); e ha ribadito che ricorre l’ipotesi di “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità del motivo ex art. 360, 1 co., n. 5, c.p.c. “non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice” (Cass. n. 7724/2022, n. 29715/2018; cfr. anche Cass. n. 37382/2022).

Interessante anche la motivazione sottesa al rigetto del quarto motivo di ricorso[2]. Sul punto, la S.C., dopo aver ribadito che “rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del CCNL, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo”, ha altresì precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione al fine di sottoporre a censura il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice del merito sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale, costituito dalle previsioni del codice disciplinare del CCNL. Chiarisce, infatti, la S.C. che, in questa materia, non è sufficiente verificare la riconducibilità dei fatti posti a base del licenziamento con la fattispecie astratta prevista dalla contrattazione collettiva, ma il giudice del merito deve operare la valutazione della sussistenza della gravità e proporzionalità fra il fatto contestato e la sanzione irrogata dal datore di lavoro, dovendo altresì tenere conto se tali fatti siano suscettibili di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali “con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (cfr. Cass. n. 33811/2021, n. 13411/2020, n. 18195/2019).

Sulla base di tali principi, la S.C. ha quindi rigettato il motivo di ricorso avanzato dal lavoratore-ricorrente, avendo ritenuto che la Corte distrettuale avesse, in effetti, operato il giudizio di valutazione di gravità in concreto e di proporzionalità con riferimento al contratto collettivo e alla circostanza della recidiva, e ritenendo quindi giustificata la sanzione espulsiva del licenziamento.


[1] Con il quale il ricorrente aveva dedotto (art. 360, n. 5, c.p.c.) omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e mancata ammissione di CTU.

[2] Con il quale il ricorrente aveva dedotto (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore

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