Con circolare n. 98 del 5 giugno 2025, l’INPS ha reso chiarimenti in relazione al requisito contribuivo introdotto dalla legge di bilancio 2025 (che ha modificato l’art. 3 del d.lgs. n. 22/2015) con riferimento agli eventi di disoccupazione intervenuti a far data dal 1° gennaio 2025.

Si tratta del requisito contributivo di accesso alla prestazione NASpI nel caso in cui la cessazione involontaria del rapporto di lavoro per cui si richiede la prestazione sia preceduta da una cessazione volontaria da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato intervenuta per dimissioni o risoluzione consensuale nei dodici mesi precedenti il predetto evento di cessazione involontaria.

Come ricorda l’istituto, la novella legislativa prevede che, per gli eventi di cessazione involontaria intervenuti dal 1° gennaio 2025, il richiedente la prestazione deve fare valere almeno tredici settimane di contribuzione dall’ultimo evento di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato interrotto per dimissioni o risoluzione consensuale, qualora tale cessazione volontaria sia avvenuta nei dodici mesi precedenti la cessazione involontaria del rapporto di lavoro per cui si richiede la prestazione NASpI. 

La medesima disposizione esclude, tuttavia, dalle ipotesi di cessazione volontaria, le dimissioni per giusta causa, le dimissioni intervenute nel periodo tutelato della maternità e della paternità di cui all’articolo 55 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché le ipotesi di risoluzione consensuale intervenute nell'ambito della procedura prevista dall’art. 7 della l. n. 604/1966, che, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 3 del d. lgs. n. 22/2015, consentono l’accesso alla prestazione NASpI. 

Tra le ipotesi di dimissioni per giusta causa rientra anche quella relativa alle dimissioni a seguito del trasferimento del lavoratore ad altra sede della stessa azienda, a condizione che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive e ciò indipendentemente dalla distanza tra la residenza del lavoratore e la nuova sede di lavoro.

Infine, tra le fattispecie di risoluzione consensuale è altresì fatta salva l’ipotesi della risoluzione consensuale a seguito del rifiuto da parte del lavoratore al proprio trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 chilometri dalla residenza del lavoratore o mediamente raggiungibile in 80 minuti od oltre con i mezzi di trasporto pubblici.

Tali ipotesi, anche se non espressamente previste dall’articolo 3, comma 1, lettera c-bis), del decreto legislativo n. 22/2015, devono ritenersi escluse dalle ipotesi di cessazione per dimissioni e risoluzione consensuale del rapporto di lavoro a tempo indeterminato che richiedono il nuovo requisito delle tredici settimane nel periodo previsto dalla novella legislativa.

L’INPS ha poi precisato che, mentre la cessazione volontaria per dimissioni o risoluzione consensuale deve riferirsi a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la successiva cessazione involontaria per cui si richiede la prestazione NASpI può riguardare sia un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che un rapporto di lavoro a tempo determinato.

L’articolo 3, comma 1, lettera c-bis), del decreto legislativo n. 22/2015 prevede, rispetto all’ordinario quadriennio di osservazione di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 3, un diverso periodo di osservazione per la ricerca del requisito delle tredici settimane di contribuzione.

Qualora, infatti, sia presente una cessazione volontaria da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nei dodici mesi precedenti la cessazione involontaria per cui si richiede la prestazione NASpI, la norma prevede che l’assicurato deve fare valere almeno tredici settimane di contribuzione nell’arco temporale che va dalla data di cessazione per dimissioni/risoluzione consensuale del precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato alla data di cessazione involontaria del rapporto di lavoro per cui si richiede la prestazione NASpI.

A questo fine, l’Istituto ha precisato che sono da considerare utili tutte le settimane retribuite, se rispettato il minimale settimanale, nonché quelle utili ai fini del perfezionamento del requisito contributivo, come precisato nella circolare n. 94 del 12 maggio 2015. In particolare, si considerano utili:

  • i contributi previdenziali, comprensivi della quota NASpI, versati durante il rapporto di lavoro subordinato;
  • i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria se all'inizio dell'astensione risulta già versata o dovuta contribuzione e i periodi di congedo parentale purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro;
  • i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati ove sia prevista la possibilità di totalizzazione;
  • i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino a 8 anni di età nel limite di cinque giorni lavorativi nell'anno solare.

Nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata del lavoratore, questi non può accedere alla prestazione di disoccupazione NASpI, poiché tale fattispecie non rientra nelle ipotesi di cessazione involontaria del rapporto di lavoro. Questo è quanto chiarito dall’INPS (messaggio INPS n. 639 del 19 febbraio 2025).

Il chiarimento riguarda, ovviamente, i riflessi sull’istituto della NASpI della (nuova) risoluzione del rapporto di lavoro disciplinata dal comma 7-bis dell’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015, introdotto dall’articolo 19 della legge n. 203/2024.

Il testo del messaggio – avente quale oggetto “Articolo 19 della legge 13 dicembre 2024, n. 203, rubricato “Norme in materia di risoluzione del rapporto di lavoro”. Esclusione dal versamento del contributo dovuto per l’interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui all’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Istruzioni per la compilazione del flusso Uniemens” – è visionabile sul sito istituzionale a questo link.

Come ricorda l’Inps, la legge 13 dicembre 2024, n. 203, recante “Disposizioni in materia di lavoro”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale - n. 303 del 28 dicembre 2024 ed entrata in vigore il 12 gennaio 2025, all’articolo 19, rubricato “Norme in materia di risoluzione del rapporto di lavoro”, ha introdotto una nuova fattispecie di risoluzione di rapporto di lavoro.

Si rammenta, al riguardo, che l’art. 19 citato ha aggiunto all’articolo 26 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, il comma 7-bis, il quale dispone che: “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l'impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.

In base a quanto previsto dalla norma, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, oltre quindici giorni, il datore di lavoro ha l’obbligo di darne comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro (INL), che può verificarne la veridicità.

In tal caso, il rapporto di lavoro si intende risolto con effetto immediato, e non si applicano le formalità previste dall’articolo 26 del d.lgs. n. 151/2015 per le dimissioni volontarie del lavoratore, ossia la comunicazione e la sua eventuale revoca, a pena di inefficacia, in via telematica, nonché il rispetto del termine di preavviso. Per un approfondimento in relazione alla nuova fattispecie qui citata si veda Dall’INL le prime indicazioni in materia di dimissioni per fatti concludenti

Il danno da perdita della capacità lavorativa specifica deve essere liquidato ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell'attività lavorativa andata perduta a causa dell'illecito o dell'inadempimento. Tale criterio deve essere applicato anche nell'ipotesi in cui la vittima versi in stato di disoccupazione, ove si tratti di disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, sussistendo la ragionevole certezza che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività lavorativa o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale.

Questo il principio affermato da Cass. civile sez. III, 16 febbraio 2024, n. 4289.

La vicenda processuale trae origine dalla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla imprudente ed imperita esecuzione di un intervento chirurgico. I Giudici di merito avevano riconosciuto il danno non patrimoniale e il danno patrimoniale emergente da spese mediche. La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto anche la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa, liquidandolo, in via equitativa, in misura pari a un terzo del danno non patrimoniale, non venendo in rilievo un’incapacità assoluta.

Il danneggiato ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza di merito, tra l’altro, per avere accertato la sussistenza dei presupposti per la liquidazione del danno patrimoniale da mancato guadagno per l'abolizione della capacità lavorativa specifica, salvo poi, contraddittoriamente, negare la liquidazione del relativo danno, sul rilievo della "ipotetica possibilità" di svolgimento di altra attività, tra l'altro comunque "non confacente con la propria professionalità".

La Cassazione muove dall’assunto che il “danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri in relazione al lavoro svolto al momento dell'evento dannoso, va provato dal danneggiato mediante la dimostrazione che il sinistro abbia determinato la cessazione del rapporto lavorativo in atto e la perdita, per il futuro, del relativo reddito”.

Come affermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, “il reddito perduto dalla vittima costituisce la base di calcolo per la quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, la quale, peraltro, deve tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà (il cui peso deve essere adeguatamente considerato), un'altra attività lavorativa retribuita”(Cass., 23 maggio 2023, n.14241).

Pertanto – rileva l’ordinanza in commento - il danno da perdita della capacità lavorativa deve essere liquidato “moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione affidabili, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”.

Come ribadito, ancora di recente, da Cass. 16 gennaio 2024, n. 1607 (con nota, sul nostro sito, di Maria Santina Panarella, dal titolo, Come deve essere risarcito il danno da perdita di capacità lavorativa specifica in caso di illecito?), “il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita”.

Se è vero che questi criteri sono calibrati sul caso di un rapporto di lavoro in essere al momento dell’evento dannoso, la giurisprudenza di legittimità ormai estende l’applicazione degli stessi al caso in cui lo stato di disoccupazione, oltre che involontario, sia anche contingente e temporaneo, sussistendo la ragionevole certezza o addirittura la positiva dimostrazione che, se non vi fosse stato l'illecito, il danneggiato avrebbe ripreso lo svolgimento della medesima attività lavorativa o comunque di un'attività confacente alle sue attitudini, idonea a produrre lo stesso reddito.

Come rilevato da Cass. n. 9682 del 2020, ai fini della liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, il Giudice deve chiedersi:

  1. se possa ritenersi che la vittima, se fosse rimasta sana, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale;
  2. se i postumi residuati all'infortunio consentano o meno lo svolgimento di un lavoro confacente al profilo professionale della vittima.

L’ordinanza in commento, applicando tali principi, conclude che la Corte territoriale ha liquidato irragionevolmente, nella misura di un terzo del danno non patrimoniale già liquidato dal primo giudice, il danno patrimoniale di cui era stato invocato il ristoro, senza tenere conto che:

  • il danneggiato aveva sempre svolto l'attività lavorativa di autotrasportatore;
  • al momento dell'illecito si trovava in stato di disoccupazione non per propria volontà o colpa, ma per vicende oggettive che avevano colpito l'impresa datrice di lavoro;
  • sussisteva la ragionevole certezza - se non la positiva dimostrazione - che lo stato di disoccupazione sarebbe cessato, con ripresa della medesima attività lavorativa, ove non vi fosse stato l'illecito, per avere egli ricevuto una proposta di assunzione da un'altra impresa.
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