Con la sentenza del 26 settembre 2024 nella causa C – 792/22 (Energotehnica), la Corte di Giustizia, nel ribadire il primato del diritto unionale, ha affermato il principio per cui i giudici nazionali devono potersi astenere dal seguire l’interpretazione fornita dalla corte costituzionale di riferimento qualora tale decisione si ponga in contrasto con il diritto dell'Unione e segnatamente nel caso di specie con la direttiva 89/391/CEE in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, letta in relazione al principio di effettività ed all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

1.- I fatti di causa

La vicenda oggetto della sentenza della Corte di Giustizia trae origine da un infortunio sul lavoro verificatosi nel 2017 in Romania. A causa del predetto infortunio perse la vita un elettricista dipendente della soc. Energotehnica che rimase folgorato in occasione di un intervento su un apparecchio di illuminazione esterno.

A seguito del decesso, vennero avviati due procedimenti: un procedimento di indagine amministrativa condotto dall’Ispettorato del Lavoro della Romania nei confronti dell’Energotehnica ed un procedimento penale a carico del responsabile dell’organizzazione del lavoro della società, il sig. MG, per inosservanza delle misure di legge in materia di sicurezza sul lavoro e omicidio colposo.

L’indagine amministrativa avviata dall’Ispettorato del Lavoro si concluse con il verbale d’indagine del 9 settembre 2019 in cui era stata accolta la qualificazione del fatto come «infortunio sul lavoro», ai sensi della normativa nazionale.

In seguito al ricorso proposto in sede amministrativa dalla Società, il verbale fu annullato in quanto secondo il Tribunale Superiore di Sibiu l’evento non costituiva un infortunio sul lavoro.

Il ricorso proposto dall’Ispettorato del Lavoro contro la sentenza del predetto Tribunale fu poi respinto dalla Corte d’appello di Alba Iulia.

Parallelamente si svolgeva il procedimento penale ed il sig. MG veniva rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di primo grado di Rupea della Romania che con la sentenza del 24 dicembre 2021, lo assolveva dai reati respingendo l’azione civile intentata dagli aventi causa della vittima. 

All’esito del giudizio di secondo grado la Corte d’appello di Brașov rilevava che “conformemente al diritto rumeno, come interpretato alla luce della giurisprudenza della Curtea Constituțională (Corte costituzionale, Romania), la decisione del giudice amministrativo si impone al giudice penale a causa dellautorità di cosa giudicata di cui essa è dotata” precisando altresì che “chiarire se levento allorigine del decesso della vittima costituisca un «infortunio sul lavoro», ai sensi della legge sulla sicurezza e la salute sul lavoro, è una questione preliminare, nellaccezione dellarticolo 52 del codice di procedura penale”.

Infine, la Corte d’appello, dopo aver ricordato che con decisione del 17 febbraio 2021 la Corte Costituzionale ha riconosciuto carattere assoluto all’autorità di cosa giudicata delle sentenze civili che dirimono questioni preliminari, ha ricordato di essere vincolata nel caso di specie dalle conclusioni del giudice amministrativo, il quale ha rifiutato di qualificare l’evento come infortunio sul lavoro ai sensi del diritto rumeno.

Ciò considerato, continua la Corte, l’autorità di cosa giudicata di cui è munita una siffatta qualificazione impedisce di pronunciarsi sulla responsabilità penale o civile delle parti sottoposte a procedimento penale, dal momento che detta qualificazione costituisce un elemento costitutivo del reato. 

D’altra parte, rileva sempre la Corte, il procedimento amministrativo ha visto come parti contrapposte solo l’Energotehnica e l’Ispettorato del Lavoro, mentre non sono state ascoltate le parti civili, costituitesi invece nel procedimento penale.

Secondo la Corte d’appello “tale impossibilità di statuire sul sorgere della responsabilità penale o civile, laddove le parti ascoltate nei due procedimenti non sono le stesse, minerebbe il principio della responsabilità del datore di lavoro e quello della tutela dei lavoratori, sanciti dall’articolo 1, paragrafi 1 e 2, e dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391, letti alla luce dell’articolo 31, paragrafo 1, della Carta”.

La Corte d’appello di Brașov ha dunque sospeso il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali

2. - Sulla prima questione pregiudiziale

Con la prima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio si è chiesto in sostanza “se l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, e l’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391, in combinato disposto con l’articolo 31 della Carta e con il principio di effettività, debbano essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro, come interpretata dalla corte costituzionale di tale Stato membro, in forza della quale la sentenza definitiva di un giudice amministrativo relativa alla qualificazione di un evento come «infortunio sul lavoro» riveste autorità di cosa giudicata dinanzi al giudice penale, nel caso in cui tale normativa non consente agli aventi causa del lavoratore vittima di tale evento di essere ascoltati in nessun procedimento in cui si statuisca sull’esistenza di siffatto infortunio sul lavoro”.

Nell’ambito della risoluzione della prima questione pregiudiziale la Corte di Giustizia ha ricordato in via preliminare la rilevanza nel caso in esame del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, garantito dall’articolo 47 della Carta.

Inoltre, con specifico riferimento alle normative in tema di organizzazione del lavoro la Corte ha ricordato altresì l’importanza nel caso di specie della Direttiva 89/391, che ha lo scopo di attuare misure preventive volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, in modo da assicurare un miglior livello di protezione.

I principi generali fissati dalla Direttiva sono relativi alla prevenzione dei rischi professionali e alla protezione della sicurezza e della salute, all’eliminazione dei fattori di rischio e di incidente nonché direttive generali per l’attuazione di tali principi.

D’altra parte, afferma la Corte, “la direttiva 89/391, pur facendo riferimento al principio della responsabilità del datore di lavoro, e pur stabilendo obblighi generali relativi alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi al lavoro, non contiene alcuna disposizione specifica relativa alle modalità procedurali dei ricorsi diretti a far sorgere la responsabilità del datore di lavoro che non abbia rispettato tali obblighi”.

Inoltre, ricorda sempre la Corte nella sentenza in commento che il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili al sorgere della responsabilità del datore di lavoro in caso di inosservanza delle condizioni stabilite dall’articolo 4, paragrafo 1, e dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391.

Tali procedure, come è noto, “rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività)”.

La Corte precisa però che gli Stati membri sono tenuti a definire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali destinati ad assicurare la salvaguardia dei diritti conferiti dalla direttiva 89/391 in modo da garantire il rispetto del diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, sancito dall’articolo 47 della Carta, che costituisce una riaffermazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva. 

Per cui è compito degli Stati membri quello di assicurarsi che le modalità concrete di esperimento dei mezzi di ricorso a causa di una violazione degli obblighi previsti da tale direttiva non pregiudichino in modo sproporzionato il diritto a un ricorso effettivo sancito come già detto dall’art. 47 della Carta e che si compone anche del “diritto ad essere ascoltato”

In altre occasioni la Corte ha ritenuto incompatibile con il diritto fondamentale a una tutela giurisdizionale effettiva “che si ponessero alla base di una decisione giudiziaria circostanze e documenti di cui le parti stesse, o una di esse, non abbiano avuto conoscenza e sui quali non abbiano, conseguentemente, potuto esprimersi”.

Alla luce dei predetti principi risulta evidente allora la lesione dei diritti delle parti civili che nel perseguire, nell’ambito del procedimento penale, l’accertamento della responsabilità dell’imputato, si sono trovate

nell’impossibilità di prendere posizione in merito ad una condizione necessaria per il sorgere di detta responsabilità, accertata con efficacia di giudicato nel procedimento amministrativo a cui non hanno potuto prendere parte.

In conclusione sulla prima questione pregiudiziale la Corte di Giustizia ha affermato il seguente principio: “Alla luce di quanto sopra, occorre rispondere alla prima questione che l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, nonché l’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391, letti in combinato disposto con il principio di effettività e con l’articolo 47 della Carta, devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro, come interpretata dalla corte costituzionale di tale Stato membro, in forza della quale la sentenza definitiva di un giudice amministrativo relativa alla qualificazione di un evento come «infortunio sul lavoro» riveste autorità di cosa giudicata dinanzi al giudice penale chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità civile in forza dei fatti addebitati all’imputato, nel caso in cui tale normativa non consenta agli aventi causa del lavoratore vittima di tale evento di essere ascoltati in nessun procedimento in cui si statuisca sull’esistenza di siffatto infortunio sul lavoro”.

2. - Sulla seconda questione pregiudiziale 

Con la seconda questione pregiudiziale il giudice del rinvio si è invece chiesto “se il principio del primato del diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro in base alla quale gli organi giurisdizionali nazionali di diritto comune non possono, a pena di procedimenti disciplinari a carico dei loro membri, disapplicare d’ufficio decisioni della corte costituzionale di tale Stato membro, sebbene ritengano, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte, che tali decisioni violino i diritti che i singoli traggono dalla direttiva 89/391”.

In via preliminare, la Corte di Giustizia ha ricordato che il principio di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di prendere in considerazione il diritto interno nel suo insieme e di applicare i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, “al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima”. 

Tale principio include in particolare l’obbligo, per i giudici nazionali, “di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva”.

Per quanto riguarda il sorgere di un’eventuale responsabilità disciplinare di un giudice nazionale, la Corte ha ricordato che il diritto dell’Unione “osta a una normativa o a una prassi nazionale che consente di contestare un illecito disciplinare a un giudice nazionale per qualsiasi inosservanza delle decisioni di una corte costituzionale nazionale”. Ed inoltre appare essenziale, proprio al fine di preservare l’indipendenza della magistratura, non esporre i giudici di diritto comune a procedimenti o sanzioni disciplinari per aver esercitato la facoltà di adire la Corte ai sensi dell’articolo 267 del TFUE, la quale rientra nella loro competenza esclusiva.

In conclusione, la Corte ha risposto alla seconda questione pregiudiziale affermando il seguente principio:  “il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro in base alla quale gli organi giurisdizionali nazionali di diritto comune non possono, a pena di procedimenti disciplinari a carico dei loro membri, disapplicare d’ufficio decisioni della corte costituzionale di tale Stato membro, sebbene ritengano, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte, che tali decisioni violino i diritti che i singoli traggono dalla direttiva 89/391”.

Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62022CJ0792

Il caso da cui origina l’ordinanza n. 40004/2021 della Corte di Cassazione

Una dirigente di un Ente locale, per un lungo periodo, ha percepito in buona fede indebite retribuzioni, corrisposte spontaneamente in suo favore dal datore di lavoro.

Dopo alcuni anni, l’Ente locale, avvedutosi dell’errore in cui è incorso e fondando la propria pretesa sulla disciplina dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ., agisce in giudizio per ottenere la ripetizione di ciò che ha pagato indebitamente.

La lavoratrice resiste invocando l’applicabilità dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così come interpretato in via consolidata dalla Corte EDU.

La disciplina prevista dalla CEDU

L’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU, sotto la rubrica “protezione della proprietà” prevede che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni Precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Il conflitto tra normativa interna e normativa convenzionale

La Suprema Corte muove innanzi tutto dal rilievo per cui l’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU si applica tanto all’indebito retributivo che all’indebito previdenziale. Sul piano dell’ordinamento interno, invece, se l’indebito previdenziale è oggetto di una regolamentazione speciale, l’indebito retributivo, in assenza di una disciplina speciale, è regolamentato dall’art. 2033 cod. civ.

Ciò premesso, poiché l’indebito riguarda alcune somme corrisposte dall’Ente locale a titolo retributivo, il potenziale conflitto tra norme interessa l’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU e l’art. 2033 del Codice civile[1].

Con riferimento alla disposizione codicistica trascritta in nota, la Cassazione, muovendo da un’analisi della propria “consolidata” giurisprudenza, afferma che in caso di indebito avente ad oggetto le retribuzioni di un pubblico dipendente, il diritto alla ripetizione del solvens non può escludersi in ragione dello stato psicologico di buona fede dell’accipiens: esso rileva unicamente in quanto consente di escludere l’obbligo di restituire i frutti e gli interessi maturati prima della domanda giudiziale, posto che “la buona fede...non incide sulle obbligazioni di restituzione, ma unicamente sul tempo di maturazione delle obbligazioni accessorie”.

Tale – pacifico – principio di diritto, tuttavia, entra in rotta di collisione con l’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU che si rinviene nell’altrettanto consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui il “legittimo affidamento” del dipendente/percipiente nella definitività dell’attribuzione retributiva è un elemento che rende illegittima ed infondata la pretesa restitutoria del datore di lavoro pubblico.

Quindi, attraverso un’analisi particolareggiata dei casi in cui la Corte EDU ha fatto applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU per respingere la pretesa restitutoria dell’Ente pubblico, la Cassazione delinea le caratteristiche che devono ricorrere affinché possa dirsi sussistente una condizione di “legittimo affidamento” del percipientesul carattere definitivo dell’attribuzione indebita. Il pagamento della somma deve esser stato effettuato spontaneamente dalla Pubblica Amministrazione o comunque su domanda del dipendente che fosse in buona fede; è necessario che vi siano ragionevoli motivi affinché l’accipiens possa ritenere che il pagamento sia sorretto da un valido titolo giuridico e non sia il frutto di un mero errore di calcolo; è necessario altresì che i versamenti siano stati effettuati per un periodo di tempo non breve e che non sia stata espressamente prevista la riserva di ripetizione; è necessario, infine, che colui/colei che riceve il pagamento dell’indebito sia in buona fede e dunque non sia consapevole della natura indebita dell’attribuzione patrimoniale. Poiché tuttavia, afferma la Cassazione, la stessa Corte EDU, nei casi in cui ha fatto applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU per negare la legittimità della pretesa restitutoria, ha comunque astrattamente riconosciuto la legittimità dell’azione volta ad ottenere la ripetizione dell’indebito in quanto finalizzata al perseguimento di un interesse di carattere generale (quale l’interesse pubblico a che i beni ricevuti in assenza di titolo debbano essere restituiti allo Stato), affinché la pretesa restitutoria del solvens possa davvero ritenersi lesiva del diritto di proprietà dell’accipiens è altresì necessario che essa sia sproporzionata. A tal fine, dovranno allora essere oggetto di ulteriore valutazione circostanze di fatto quali: l’esclusiva imputabilità dell’errore del pagamento all’autorità pubblica, la possibilità di individuare il titolo del pagamento nel corrispettivo per lo svolgimento dell’ordinaria prestazione lavorativa, la condizione economico-patrimoniale dell’accipiens –al momento in cui l’Autorità pubblica, avvedutasi dell’errore, eserciti la propria pretesa restitutoria –, condizione che deve risultare fortemente incisa dall’eventuale affermazione dell’obbligo restitutorio.

Il conseguente “inevitabile” incidente di costituzionalità

Vengono così delineati i termini del conflitto tra normativa interna e normativa convenzionale: per il Codice civile la buona fede del percipiente non rileva ai fini dell’obbligo alla restituzione della somma percepita indebitamente, obbligo, quest’ultimo, destinato a prevalere sul diritto di proprietà dell’accipiens; per la CEDU, invece, la configurabilità di un “legittimo affidamento” del dipendente pubblico (ravvisabile solo in presenza delle circostanze di fatto tipiche più sopra individuate) consente di escludere la legittimità della pretesa restitutoria della Pubblica Amministrazione e conseguentemente di prevalere su di essa. E’ questo un conflitto insanabile, nel senso che “la ricezione nell’ordinamento interno dei principi sottesi all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU sarebbe l’esito non di una diversa interpretazione dell’art. 2033 cod. civ. ma, piuttosto, di una vera e propria disapplicazione della disposizione codicistica in favore di una normativa diversa – sia quanto all’ambito soggettivo, relativo ai soli pagamenti provenienti dalla pubblica amministrazione, sia nel disposto oggettivo – corrispondente all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU”.

Tuttavia, prosegue la Cassazione, il rinvio alla CEDU operato dall’art. 6, par. 3 del Trattato UE di Lisbona[2] non ha modificato la posizione della Convenzione all’interno del sistema delle fonti, sicché, nell’ipotesi in cui essa contrasti con una normativa di carattere nazionale, non ne determina la disapplicazione, appunto perché la CEDU, in ragione della sua (invariata) natura di trattato internazionale, non è direttamente applicabile all’interno degli ordinamenti giuridici dei singoli stati membri[3].

E’ però noto che l’art. 117 della Costituzione prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni debba essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Pertanto, conclude la Cassazione con l’ordinanza qui brevemente commentata, “l’impossibilità di recepire i principi enunciati dalla Corte EDU attraverso un’operazione genuinamente interpretativa dell’art. 2033 cod. civ. dà luogo all’incidente di costituzionalità dello stesso articolo per violazione degli articoli 11 e 117 Cost., in rapporto all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU, nella parte in cui, in caso di retribuzioni erogate indebitamente da un ente pubblico e di legittimo affidamento, da parte del dipendente pubblico percipiente, nella definitività dell’attribuzione, consente un’ingerenza non proporzionata nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni (nel senso di cui all’art. 1 del protocollo 1 alla CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU”.

La Corte Costituzionale sarà dunque chiamata a pronunciarsi sulla questione sottopostale dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza di rimessione qui illustrata che, ove ritenuta fondata, determinerà l’introduzione nel nostro sistema normativo di una regola di contenuto fortemente innovativo.


[1] Come noto, l’art. 2033 cod. civ. così dispone: “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”.

[2] Secondo cui “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”.

[3][3] A supporto di tale conclusione la Cassazione richiama: Corte Cost. n. 80/2011; Cass. Sez. VI 4/12/2013, n. 27102; CGUE, sentenza 24 aprile 2012 in causa C 571/10, KamberaJ, punti 62 e 63.

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