Con la sentenza del 28 ottobre 2021 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, prima sezione, nell’affaire Succi et autres c. Italie, ha ritenuto che l’approccio della Corte di Cassazione, al momento di valutare l’ammissibilità del ricorso, quando legato ad un rigido ed eccessivo formalismo nell’applicazione dei criteri di redazione dello stesso, configura una violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU, limitando il diritto ad un equo processo per i cittadini.

Con 3 distinti ricorsi (nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/2014) alcuni cittadini italiani hanno adito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, invocando la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, in seguito alla declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Cassazione dei ricorsi da questi proposti.

Secondo i ricorrenti, la Corte di Cassazione avrebbe respinto i loro ricorsi ingiustamente, avendo applicato in modo eccessivamente formalistico i criteri di redazione dei ricorsi previsti dal codice di procedura civile.

Nello specifico, nel ricorso n. 55064/11, il ricorrente ha lamentato che il principio di autonomia, a cui dovrebbe ispirarsi la redazione del ricorso per cassazione (principio di autosufficienza), all’epoca dei fatti, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente.

Tant’è vero che il principio era stato oggetto di un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 8077/2012) necessitato dall’esigenza di chiarire l’applicazione pratica di tale principio.

Qualche anno dopo la medesima esigenza è stata alla base dell’emanazione del ‘Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria’, siglato nel 2015, con l’intento di frenare l’approccio eccessivamente formalistico della Cassazione.

In ultimo, il ricorrente ha censurato l’applicazione che la Corte di Cassazione ha fatto del principio di autonomia, avendolo utilizzato principalmente come un mezzo per limitare l’accesso alla giustizia e ridurre l’arretrato della Corte medesima.

Nella causa n. 37781/13 il ricorrente ha evidenziato il fatto che, nel momento in cui ha presentato il ricorso per cassazione, non esisteva una giurisprudenza su come formulare i quesiti di diritto.

Più in generale, ha lamentato la mancanza di prevedibilità circa l’applicazione dei criteri di redazione del ricorso.

In alcuni casi, i criteri di redazione del ricorso sono stati interpretati dalla giurisprudenza di legittimità in modo ‘flessibile’, limitandosi a chiedere alla parte di presentare tutti gli elementi necessari alla comprensione delle sue allegazioni.

In altri casi, è stata data una lettura ‘più rigorosa’ degli stessi, imponendo un obbligo di trascrizione di ogni documento citato nel ricorso, nonostante il deposito dei documenti nel procedimento di merito.

L’esigenza di chiarire i confini del principio di autonomia ha portato il legislatore ad intervenire con la riforma del 2006 anche al fine di accantonare l’obbligo di trascrizione. L’intervento normativo non è stato però risolutore in quanto parte della giurisprudenza di legittimità ha continuato a richiedere la trascrizione degli atti citati nel ricorso (Cass. nn. 1952/2009; 6397/2010; 10605/2010; 24548/2010; 20028/2011) e ciò anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 8077/2012 e il Protocollo del 2015 (Cass. nn. 15634/2013; 7362/2015; 18316/2018).

Il rigetto del ricorso, secondo il ricorrente, visto il quadro giurisprudenziale e normativo testè delineato, è stato sproporzionato in considerazione del fatto che l’obbligo di riprodurre il contenuto di un documento, già incluso nel fascicolo allegato al ricorso e menzionato dal ricorrente, non poteva essere considerato necessario per la corretta amministrazione della giustizia e la certezza del diritto.

Nel lamentare l’eccessivo formalismo nell’applicazione del principio di autonomia, il ricorrente ha concluso sostenendo di essere stato “victime d’une entrave excessive et disproportionnée à son droit d’accès à un tribunal” (vittima di un’interferenza eccesiva e sproporzionata nel suo diritto di accesso ad un tribunale).

Nel ricorso n. 26049/14 il ricorrente ha lamentato che l’eccessivo formalismo abbracciato dalla Cassazione nell’applicazione dei criteri di redazione del ricorso e che trae il suo fondamento da una giurisprudenza di legittimità troppe volte incerta e contradditoria costituisce un rafforzamento dei meccanismi esistenti di limitazione procedurale dell’accesso alla giustizia.

Nello specifico il ricorrente ha ritenuto violato il suo diritto di accesso alla Corte di Cassazione in quanto l’obbligo di redigere una sintesi dei fatti, obbligo imposto dall’art. 366 c.p.c., quando il contenuto dell’obbligo venga determinato con criteri incerti e poco prevedibili, finisce per costituire un filtro e una barriera procedurale al diritto di accesso alla giustizia del cittadino.

L’obiettivo di garantire una durata ragionevole del procedimento civile, secondo il ricorrente, non può tradursi in un ostacolo all’accesso al tribunale e in una limitazione del diritto a un equo processo.

Nella sentenza in commento la Corte Europea ha preliminarmente richiamato i principi inerenti le limitazioni del diritto di accesso a un tribunale superiore affermati nel caso Zubac, ricordando che il modo in cui l’articolo 6 § 1 si applica alle corti d’appello o di cassazione dipende dalle caratteristiche particolari del procedimento in questione.

Secondo la Corte Europea deve ritenersi legittimo lo scopo perseguito con il principio di autonomia essendo quello di “faciliter la compréhension de l’affaire et des questions soulevées dans le pourvoi et à permettre à la Cour de cassation de statuer sans devoir s’appuyer sur d’autres documents, afin qu’elle puisse préserver son rôle et sa fonction qui consistent à garantir en dernier ressort l’application uniforme et l’interprétation correcte du droit interne (nomofilachia)” (facilitare la comprensione del caso e delle questioni sollevate e permettere alla Cassazione di pronunciarsi senza doversi basare su altri documenti in modo da preservare il suo ruolo e la sua funzione di garantire in ultima istanza l’applicazione uniforme e l’interpretazione corretta del diritto interno - nomofilachia).

La Corte Europea ha ritenuto pienamente ammissibili le restrizioni all’accesso alla Corte di Cassazione determinate dall’applicazione del principio di autonomia anche quando più rigorose di quelle previste per un appello. L’ammissibilità della restrizione trova il suo fondamento anche nella necessità di smaltimento dell’enorme arretrato causato dal notevole afflusso di ricorsi presentati ogni anno davanti alla Corte di Cassazione. Sicuramente il principio di autonomia è in grado di garantire un uso più appropriato e più efficiente delle risorse disponibili.

D’altra parte, le restrizioni all’accesso alla Corte, anche quando giustificate dall’enorme carico di lavoro della Cassazione, difettano del requisito della proporzionalità, se interpretate in modo troppo formale.

L’eccessivo formalismo inevitabilmente finisce per limitare il diritto di accesso ad un tribunale ed incide sulla sostanza stessa di tale diritto.

La Corte Europea ha evidenziato come, con specifico riguardo all’obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso, almeno fino alle sentenze nn. 5698 e 8077 del 2012, vi fosse una tendenza della Corte di Cassazione a concentrarsi su aspetti meramente formali che non rispondono affatto allo scopo legittimo posto a fondamento delle restrizioni.

In relazione ai ricorsi n. 37781/13 e n. 26049/14, la Corte Europea non ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, non avendo la Corte di Cassazione, in tali casi, tenuto un atteggiamento eccessivamente formalistico. La decisione presa dalla Cassazione di dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi è stata presa, afferma la Corte EDU, nel pieno rispetto dello scopo legittimamente perseguito dal principio di autonomia: cioè la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.

Al contrario la Corte Europea ha ritenuto fondato il ricorso n. 55064/11, avendo la Corte di Cassazione in tal caso, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, dato prova di eccessivo formalismo non giustificato alla luce delle finalità proprie del principio di autonomia.

Il ricorso era stato dichiarato inammissibile in quanto non era stato rispettato, secondo la Cassazione, l’obbligo di indicare, per ogni motivo di ricorso, i casi in cui la sentenza di secondo grado era ricorribile per Cassazione.

Eppure, il ricorrente aveva indicato in relazione ad ogni motivo di ricorso gli articoli e i principi di diritto violati, facendo riferimento specifico alle ipotesi previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c.

Da questo punto di vista la Corte Europea ha ritenuto che l’obbligo di specificare il tipo di critica in conformità all’art. 360, comma 1, del c.p.c. fosse stato sufficientemente rispettato.

La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto che il ricorso non menzionasse gli elementi necessari per identificare i documenti citati a sostegno delle critiche formulate.

Mentre, secondo la Corte Europea, il ricorrente aveva trascritto i passaggi pertinenti e aveva fatto riferimento ai documenti fondamentali rendendo così possibile la loro identificazione tra i documenti depositati con il ricorso.

La Corte Europea, nel dichiarare la fondatezza del ricorso n. 55064/11, al momento della liquidazione del danno ‘materiale’, ha ritenuto non fosse suo compito quello di speculare su quale sarebbe stato l’esito del procedimento in assenza della violazione riscontrata, riconoscendo al ricorrente il solo danno morale.

Concludendo, se, da una parte, il contenuto della sentenza può essere condiviso, in quanto la necessità di smaltire l’arretrato giudiziario non può giustificare ogni rigido ed eccessivo formalismo, d’altra parte, il lavoro di sintesi che viene richiesto agli avvocati nella redazione del ricorso consente di spogliare la controversia di tutto ciò che non è più necessario, andando dritto al cuore del motivo di censura, facilitando, in tal modo, il compito del giudice di ultima istanza, oberato nel ruolo.

Difficile essendo trovare una risoluzione al problema nel breve periodo, di questo dovrà sicuramente occuparsi il legislatore colmando le lacune normative evidenziate dalla Corte Europea nella sentenza in commento, in modo da evitare che i contrasti e le oscillazioni della giurisprudenza ricadano sui cittadini.

In ogni caso dovranno essere salvati gli sforzi fatti dalla giurisprudenza di legittimità volti al rafforzamento del principio di autonomia ed autosufficienza del ricorso in quanto, se è pur vero che è importante l’accesso alla giustizia (nei limiti in cui due gradi di giudizio sono stati comunque assicurati), ancor più importante è che tale accesso, a causa dell’enorme contenzioso arretrato, non venga ritardato talmente in là nel tempo da diventare del tutto inutile.

Per leggere il testo integrale clicca qui: https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-212667%22]}

La fattispecie che ha originato la pronuncia della Corte di Giustizia

Con la pronuncia del 15 luglio 2021 la Corte di Giustizia ha deciso le cause riunite C-152/20 e C-218/20. Le fattispecie da cui è scaturita la pronuncia, che qui si annota brevemente, ineriscono le vicende lavorative di due autotrasportatori, dipendenti di due distinte società rumene ed assunti con contratti di lavoro che prevedevano l’applicazione al singolo rapporto di lavoro della legge nazionale rumena, i quali prestatori eseguivano abitualmente la loro prestazione lavorativa al di fuori del confine nazionale, vale a dire, nello specifico, uno in Germania e l’altro in Italia.

Invocando l’art. 8 del Regolamento (CE) n. 593/2008, c.d. Roma I –  come noto il Regolamento dell’Unione Europea che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali che presentino caratteristiche di internazionalità – ciascun lavoratore ha chiesto l’applicazione delle leggi in materia di salario minimo del rispettivo Paese dove ha abitualmente eseguito la prestazione lavorativa; ciò in quanto più favorevoli rispetto a quella rumena, quest’ultima, come detto, scelta convenzionalmente dalle parti come legge applicabile al rapporto lavorativo.

La disciplina normativa che viene in rilievo

La questione di diritto che la Corte di Giustizia è stata chiamata a risolvere, pertanto, afferisce all’individuazione della legge applicabile ad un rapporto lavorativo che presenti caratteristiche di internazionalità, interessando l’interpretazione e la portata dell’art. 8 del Regolamento (CE) n. 593/2008, c.d. Roma I, il quale articolo “stabilisce norme speciali di conflitto di leggi relative al contratto di individuale di lavoro che si applicano quando, in esecuzione di un contratto di questo tipo, il lavoro è svolto in almeno uno Stato diverso da quello della legge scelta”.

Per meglio comprendere la decisione, è bene soffermarsi brevemente sul contenuto dell’art. 8.

Al primo comma esso prevede che, conformemente al dettato dell’art. 3, le parti di un rapporto di lavoro siano libere di scegliere la legge applicabile al suddetto rapporto. Tuttavia, è altresì sancito l’importante principio per cui tale scelta non può privare il lavoratore della protezione che gli è assicurata da quelle disposizioni di legge inderogabili che troverebbero applicazione ove tale scelta non fosse stata fatta dalle parti ed è proprio in base a tale ultimo principio che vengono decise le fattispecie concrete.

Il secondo, il terzo e il quarto comma dell’art. 8 disciplinano appunto i casi in cui le parti non abbiano individuato convenzionalmente la legge applicabile al rapporto di lavoro. In questi casi, quale criterio primario di individuazione della legge applicabile al rapporto, è stabilito che trovi applicazione la “legge del paese nel quale, o in mancanza, a partire dal quale il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro”. Ove in base a tale criterio non si riesca a determinare la legge applicabile al rapporto, quale criterio sussidiario, al terzo comma è previsto che il contratto sia disciplinato “dalla legge del paese nel quale si trova la sede” del datore di lavoro “che ha proceduto ad assumere il lavoratore”. Infine, quale criterio residuale, è previsto al quarto comma dell’art. 8 che se le circostanze di fatto del caso concreto non consentano di individuare la legge applicabile al rapporto, né valorizzando il criterio primario del Paese nel quale il rapporto è eseguito abitualmente, né quello sussidiario del Paese nel quale si trova la sede del datore di lavoro, trovi applicazione la legge del Paese con cui “il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto”.

La soluzione del caso concreto

Poste queste premesse, con la decisione che qui brevemente si annota la Corte di Giustizia ha descritto le tappe del processo logico-giuridico che il Giudice nazionale è chiamato a svolgere per individuare la legge applicabile al rapporto di lavoro che presenti elementi di transnazionalità, nel caso in cui una delle parti di esso invochi l’applicazione di una legge nazionale diversa da quella scelta convenzionalmente.

In relazione al concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro ed in base ai criteri elencati dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 8 del Regolamento n. 593/2008, il Giudice nazionale deve innanzi tutto individuare la legge nazionale ad esso applicabile nel caso in cui le parti, in sede di stipula del contratto, non avessero compiuto ex ante alcuna scelta in punto di disciplina applicabile al rapporto. Così individuata la legge nazionale astrattamente applicabile al rapporto lavorativo, l’Organo giurisdizionale deve altresì stabilire se tale disciplina è in grado di assicurare una protezione degli interessi del lavoratore più efficace rispetto alle disposizioni di legge la cui applicabilità è stata scelta convenzionalmente dalle parti. Ove la disciplina astrattamente applicabile sia maggiormente protettiva e nel caso in cui essa, in base all’ordinamento di quel Paese dell’Unione, non possa essere derogata convenzionalmente dalle parti, allora si dovrà necessariamente prescindere dalla scelta compiuta dalle parti e dare ad essa esclusiva applicazione.

Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento 593/2008, le parti di un contratto di lavoro che presenta elementi di transnazionalità sono libere di scegliere quale legge applicare al rapporto sottostante. Tuttavia tale scelta convenzionale potrà incidere effettivamente sulla legge applicabile al rapporto solo se, e nella misura in cui, le disposizioni di cui le parti auspicano l’applicazione assicurano una protezione del lavoratore almeno uguale a quella che gli sarebbe assicurata dalle disposizioni di legge inderogabili del Paese dove il rapporto di lavoro è eseguito abitualmente, oppure, nel caso in cui non si possa stabilire il luogo di esecuzione abituale della prestazione, da quelle del Paese dove ha sede il datore di lavoro, oppure ancora delle disposizioni inderogabili del Paese con cui “il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto”.

Detto ancora diversamente, sono i criteri stabiliti dai commi 2, 3 e 4 del Regolamento n. 593/2008 a determinare la legge applicabile al rapporto di lavoro che presenti elementi di transnazionalità. La scelta delle parti (che ricada su un’altra e diversa legislazione nazionale) può prevalere solo nel caso di cui le disposizioni di legge la cui applicazione è auspicata dalle parti non prevedano una regolamentazione per gli interessi del lavoratore che sia deteriore rispetto alle disposizioni di legge inderogabili destinate a trovare applicazione al rapporto in base ai criteri di cui all’art. 8 del Regolamento n. 593/2008: questi ultimi, come detto, sono destinati a trovare applicazione in ogni caso di mancata scelta convenzionale.

Posti questi principi, tornando alla soluzione del caso concreto, la Corte di Giustizia qualifica le disposizioni in materia di salario minimo italiane e tedesche come disposizioni di legge che, ai sensi di quanto previsto rispettivamente dai singoli, rispettivi ordinamenti, sono inderogabili convenzionalmente dalle parti: rilevato altresì che esse prevedono condizioni migliori rispetto alle corrispondenti norme di diritto rumeno e sulla premessa dell’accertamento che ai singoli rapporti lavorativi è stata data esecuzione abituale, rispettivamente, in Italia e in Germania, sono le norme di questi ultimi due Paesi che dovranno essere applicate ai rapporti di lavoro dedotti in lite. In tal modo, la natura inderogabile delle disposizioni di legge italiane e tedesche sul salario minimo, unita alla loro capacità di assicurare una maggiore protezione degli interessi del lavoratore rispetto alle corrispondenti norme di diritto rumeno, fa sì che esse prevalgano, trovando applicazione concreta ai rapporti lavorativi, sulla normativa scelta convenzionalmente dalle parti ed avente appunto ad oggetto l’applicazione del diritto rumeno.

Inoltre, per quel che riguarda l’esatta portata e l’individuazione dei confini della scelta della legge applicabile che, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento n. 593/2008, può essere compiuta dalle parti di un contratto di lavoro, la Corte di Giustizia afferma due importanti principi.

Da un lato, è riconosciuto che il diritto delle parti di scegliere la legge applicabile al rapporto di lavoro può ritenersi rispettato nel caso in cui una disposizione di legge di un dato ordinamento nazionale si limiti a prevedere che le clausole di un dato contratto di lavoro siano integrate dal complesso di disposizioni integranti il “diritto del lavoro” nazionale, la cui applicazione è stata appunto auspicata in prima battuta dalle stesse parti del rapporto. Viceversa, tale diritto di scelta delle parti sarebbe inevitabilmente leso se una disposizione di un ordinamento nazionale imponesse alle parti di un dato contratto di lavoro l’applicazione esclusiva del complesso di disposizioni integranti “il diritto del lavoro” di quel determinato Paese dell’Unione.

Dall’altro lato, il diritto delle parti di scegliere la legge applicabile al rapporto di lavoro deve ritenersi rispettato anche nel caso in cui la clausola contrattuale relativa alla scelta della legge applicabile sia stata predisposta unilateralmente dal datore di lavoro e il lavoratore, nel sottoscrivere il contratto, si sia limitato ad accettarla.

Per leggere il testo integrale della pronuncia della Corte di Giustizia clicca qui: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=244192&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=808450

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