La Cassazione, nell’ordinanza n. 10822 del 24 aprile 2025, è tornata a ribadire che è illegittimo il licenziamento fondato su controlli difensivi disposti in assenza di prova di un “fondato sospetto” di condotte illecite del lavoratore.
Il caso
La vicenda trae origine dal licenziamento disposto da una Società di moda in ragione della sottrazione di alcuni prodotti all’interno di un punto vendita.
I giudici del merito, sia in primo che in secondo grado, avevano dichiarato il licenziamento illegittimo poiché le indagini difensive condotte dall’azienda e le immagini registrate dagli impianti audiovisivi erano state realizzate senza il rispetto della vigente normativa in materia.
Il quadro normativo di riferimento
La più recente giurisprudenza di legittimità distingue tra controlli a difesa del patrimonio aziendale – che riguardano tutti i dipendenti che nello svolgimento della loro prestazione di lavoro vengono a contatto con tale patrimonio (c.d. controlli difensivi in senso lato), cui è applicabile l’art. 4 St. Lav. – e controlli diretti ad accertare, in base alla ricorrenza di indizi concreti, condotte illecite ascrivibili ai singoli dipendenti e poste in essere dai medesimi durante la prestazione di lavoro (controlli difensivi in senso stretto) che, “non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situano, ancora oggi, all’esterno del perimento applicativo dell’art. 4”.
La distinzione è tracciata da Cass., sez. lav., 12 novembre 2021, n. 34092 (con nota sul nostro sito, I limiti all’ammissibilità dei c.d. controlli difensivi).
In particolare, per quanto sottratto al regime dell’art. 4 Stat. Lav., la Cassazione ha chiarito (v. Cass., sez. lav., 26 giugno 2023, n. 18168, di cui si è dato conto sul nostro sito, Ancora sui controlli difensivi: Cass. n. 18168/2023 ribadisce alcuni principi) che, affinché il controllo difensivo in senso stretto sia legittimo, e sia conseguentemente utilizzabile ai fini disciplinari il relativo esito, è necessario che in giudizio il datore di lavoro alleghi e provi:
Cass. 22 settembre 2021, n. 25732 (per una disamina della quale si rimanda a Controllo del lavoratore a distanza: quando sono legittimi i c.d. controlli difensivi?) ha poi chiarito che al fine di “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore”, non si può prescindere da un’attenta valutazione delle circostanze concrete del caso specifico.
Il controllo, pertanto, deve essere innanzi tutto rispettoso della disciplina in materia di privacy (D. Lgs. 101/2018) e degli obblighi specifici che essa prevede, primi fra tutti il rispetto dei principi “di minimizzazione e di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto ad uno scopo che sia legittimo, di trasparenza e correttezza”, appunto ricavabili dal Codice della privacy e dal Regolamento UE n. 2016/679.
La decisione della Cassazione
L’ordinanza in esame, in applicazione dei principi di cui sopra, ha qualificato l’indagine personale condotta da un collega nei confronti della lavoratrice (perquisizione nella borsa della stessa) in termini di controllo difensivo in senso stretto. Ha quindi condiviso la conclusione della Corte territoriale secondo cui l’attività di indagine in questione fosse in contrasto con la disciplina a tutela della riservatezza e della dignità della lavoratrice.
Con riferimento alle riprese degli impianti audiovisivi, ricondotte le stesse ai controlli difensivi del patrimonio aziendale, ha ritenuto incensurabili le conclusioni dei giudici di merito secondo cui il datore di lavoro non avrebbe provato di aver fornito un’adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti di controllo in questione, ai sensi dell’art. 4 Stat. Lav., e comunque l’effettuazione dei controlli nel rispetto della normativa a tutela della riservatezza della lavoratrice.
Le immagini raccolte dagli impianti audiovisivi nonché il materiale acquisito mediante le indagini difensive ritenute – con giudizio di merito incensurabile – illecite sono quindi inutilizzabili in sede disciplinare, con conseguente illegittimità del licenziamento sulla base di quel materiale comminato.
Il caso
Un lavoratore ha effettuato, presso l’orologio marcatempo del datore di lavoro, la timbratura del badge della collega assente, poi giunta sul posto di lavoro in un orario più tardo. Tale condotta provoca il licenziamento del primo dipendente, che viene però ritenuto illegittimo dalla Corte d’Appello, in applicazione dei principi dettati da una (precedente, rispetto a quella qui commentata) decisione della Suprema Corte, che aveva annullato la pronuncia di merito innanzi a lei impugnata. La (seconda) decisione d’appello, che aveva disposto la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato, viene confermata dalla sentenza che costituisce il termine di riferimento di queste brevi considerazioni.
Vediamo perché.
La disciplina di legge
Come è noto, l’uso di apparecchiature elettroniche idonee a controllare ‘a distanza’ la prestazione lavorativa dei dipendenti è disciplinato dall’art. 4 della L. n. 300/1970, modificato dall’art. 23 del d. lgs. 151/2015. Nella sua versione applicabile ratione temporis ai fatti di causa, l’articolo in parola sanciva un espresso divieto di utilizzare “impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Tale divieto, tuttavia, non era assoluto, ma era anzi destinato a venire meno nella ipotesi in cui ricorressero “esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro” e nel caso in cui, in ragione di tali esigenze, fosse precedentemente intervenuto un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali teso a disciplinare l’utilizzo degli strumenti elettronici in questione.
La decisione fornita da Cass. n. 25645/2023
Nel caso di specie, l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore si fonda proprio sulla disciplina più sopra brevemente accennata. Più in particolare, avendo riscontrato l’assenza di accordi autorizzativi tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali circa l’utilizzo degli strumenti elettronici che consentono il controllo a distanza dell’attività lavorativa, la Suprema Corte ha confermato la decisione con cui la Corte di Appello “ha accertato che le acquisizioni dei dati tramite il badge elettronico erano illegittime ed ha verificato, con accertamento di fatto a lei riservato, che i dati acquisiti per il tramite dei sistemi di rilevazione delle entrate e delle uscite non erano perciò utilizzabili e che non vi erano altre evidenze...per ritenere provata la condotta contestata che perciò era indimostrata”.
In sostanza, l’illegittimità delle rilevazioni dei sistemi elettronici determina l’inutilizzabilità ai fini disciplinari delle anzidette rilevazioni e, di conseguenza, l’illegittimità della sanzione disciplinare che su di esse si fondi.
Per un approfondimento sul tema, si veda anche https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sui-controlli-difensivi-cass-n-18168-2023-ribadisce-alcuni-principi/
Il caso
Un lavoratore inquadrato nella categoria dei dirigenti viene licenziato per violazione dei doveri di diligenza e fedeltà, essendo stato accertato come, in costanza di rapporto di lavoro, il predetto dirigente avesse avuto contatti e rapporti professionali con imprenditori che operavano in regime di concorrenza con il datore di lavoro. I fatti posti a base del recesso datoriale vengono appurati a seguito di un’attività investigativa posta in essere da uno specialista previamente incaricato, nonché attraverso un controllo della posta elettronica aziendale del dipendente operato direttamente dal datore di lavoro.
La soluzione offerta dalla Cassazione
La Corte, innanzi tutto, distingue tra controlli a difesa del patrimonio aziendale – che riguardano tutti i dipendenti che nello svolgimento della loro prestazione di lavoro vengono a contatto con tale patrimonio (c.d. controlli difensivi in senso lato), con riferimento ai quali, peraltro, la Corte ribadisce l’applicabilità dell’art. 4 St. Lav. – e controlli diretti ad accertare, in base alla ricorrenza di indizi concreti, condotte illecite ascrivibili ai singoli dipendenti e poste in essere dai medesimi durante la prestazione di lavoro. Questi ultimi sono i c.d. controlli difensivi in senso stretto[1] e, “non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situano, ancora oggi, all’esterno del perimento applicativo dell’art. 4”.
Il fatto che a tale tipologia di controllo datoriale non si applichi l’art. 4 L. n. 300/1970 non vuol dire, tuttavia, che i predetti controlli possano essere attuati dal datore in maniera indiscriminata o senza l’osservanza di regole precise.
E sono queste regole che la Corte ha ribadito con la pronuncia qui in commento.
In particolare, osserva la Corte nel solco di quanto già statuito dalla medesima con la pronuncia n. 25732/2021[2], al fine di “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore”, non si può prescindere da un’attenta valutazione delle circostanze concrete del caso specifico.
Analiticamente, affinché il controllo difensivo in senso stretto sia legittimo, e sia conseguentemente utilizzabile ai fini disciplinari il relativo esito, è necessario che in giudizio il datore di lavoro alleghi e provi:
Nell’ipotesi in cui il datore non riesca a fornire prova di quanto sopra, come già accennato, il controllo difensivo in senso stretto è illegittimo, con conseguente inutilizzabilità dei dati acquisiti in esecuzione del medesimo.
Inoltre, soggiunge la Corte, affinché il controllo difensivo in senso stretto sia legittimo, è necessario altresì che “sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore”. Il controllo, pertanto, deve essere innanzi tutto rispettoso della disciplina in materia di privacy (D. Lgs. 101/2018) e degli obblighi specifici che essa prevede, primi fra tutti il rispetto dei principi “di minimizzazione e di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto ad uno scopo che sia legittimo, di trasparenza e correttezza”, appunto “ricavabili dal Codice della privacy e dal Regolamento UE n. 2016/679”. In termini maggiormente concreti, pertanto, il Giudice chiamato a sindacare la legittimità del controllo difensivo in senso stretto dovrà verificare:
Pertanto, i presupposti – che, si è visto, sono il portato di regole giuridiche ben precise – necessari affinché un controllo difensivo in senso stretto sia legittimo sono numerosi; affinché il datore di lavoro possa far valere eventuali illeciti del lavoratore rilevati grazie al controllo è essenziale, dunque, che siano rispettati i principi di diritto ribaditi dalla Cassazione con la pronuncia che qui si è brevemente annotata; e ciò, come ovvio, a prescindere dalla gravità dell’illecito eventualmente ascrivibile al lavoratore.
[1] Sul tema, si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/i-limiti-allammissibilita-dei-c-d-controlli-difensivi/ e
[2] Su cui si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/controllo-del-lavoratore-a-distanza-quando-sono-legittimi-i-c-d-controlli-difensivi/