La sentenza della Cassazione del 24 agosto 2021, n. 23332 è degna di nota per aver reso maggiormente intellegibile il principio dell’immediatezzain senso relativo” della contestazione disciplinare.

La vicenda oggetto della pronuncia in commento trae origine da una domanda di impugnativa proposta contro il provvedimento che aveva comminato la sanzione del licenziamento ad una direttrice amministrativa accusata di aver posto in essere condotte volte all’arbitrario accrescimento della retribuzione mediante il ripetuto ed abituale artificioso aumento delle somme riportate sui cedolini paga.

La Cassazione - confermando la sentenza della Corte d’appello di Napoli, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare così comminato - ha escluso la configurabilità di un licenziamento ritorsivo nonché l’allegata tardività della contestazione.

In particolare, su tale ultimo aspetto, nel solco di un orientamento ormai consolidato, la Suprema Corte ha ribadito che “nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti siano molto laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto della correttezza del dipendente o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (ex plurimis, Cass n. 5546 del 2010; Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 12193 del 2020)”.

Non si tratta dunque di un principio assoluto, in quanto il concetto di immediatezza della contestazione, che, come noto, risponde all’interesse del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione, deve necessariamente essere bilanciato con il contrapposto interesse del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver prima acquisito i dati essenziali della vicenda.

Alcuni elementi che consentono di ritenere comunque legittimo il licenziamento, nonostante questo sia intervenuto dopo un arco temporale in ipotesi significativo, sono, ad esempio, il tempo necessario per l’accertamento dei fatti e la complessità della struttura organizzativa dell’impresa.

Alcuni fatti possono avere una loro rilevanza laddove idonei a confermare la significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, anche quando siano stati contestati non subito dopo il loro verificarsi (v. Cass. nn. 412/1990; 11410/93; 3835/1981).

La relatività del principio di immediatezza della contestazione disciplinare non è messa in dubbio neppure laddove siano le parti, attraverso la regolamentazione contrattuale, a prevedere termini per l’invio della contestazione disciplinare.

I predetti termini devono essere considerati di regola ordinatori, salvo il caso in cui sia il regolamento contrattuale a prevedere espressamente una comminatoria di decadenza per l’ipotesi di superamento del termine previsto dalle parti. Solo in tal caso il termine può avere natura perentoria.

La Cassazione, nel caso oggetto del giudizio, pur riconoscendo alla contrattazione collettiva il potere di introdurre termini perentori per l’esercizio del potere disciplinare, ha negato la natura perentoria al termine previsto dall’art. 41 del CCNL per le aziende sanitarie che prevede che “la contestazione disciplinare deve essere inviata al lavoratore non oltre il termine di trenta giorni dal momento in cui gli organi direttivi sanitari ed amministrativi delle Strutture di cui all’art. 1 del presente contratto hanno avuto effettiva conoscenza della mancanza commessa”, affermandone la natura ordinatoria sulla base della stessa lettera della disposizione contrattuale.

In conclusione, il principio dell’immediatezza della contestazione va inteso in senso elastico e relativo con la conseguenza che, nella valutazione sull’immediatezza o meno della contestazione, devono essere tenuti in considerazione sia la complessità del fatto che la grandezza della struttura organizzativa dell’impresa datrice di lavoro.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui: https://www.rivistalabor.it/wp-content/uploads/2021/09/Cass.-24-agosto-2021-n.-23332.pdf

Quale comportamento processuale occorre tenere in sede di giudizio di rinvio a fronte della domanda avversaria di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza poi cassata?

In una recente pronuncia, la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, (sent. n. 11115/2021 del 27 aprile 2021) ha affermato quello che, oltre ad essere un importante principio in materia, si palesa quasi come un warning del quale si dovrà tenere conto.

In particolare, secondo la Suprema Corte, nel contesto dell’azione restitutoria proposta al giudice di rinvio ex art. 389 c.p.c., l’avvenuto pagamento in forza della sentenza provvisoriamente esecutiva “può essere desunto dal comportamento processuale delle parti, alla stregua del principio di non contestazione che informa il sistema processuale civile e del principio di leale collaborazione tra le parti, manifestata con la previa presa posizione sui fatti dedotti, funzionale all’operatività del principio di economia processuale”.

Nel caso affrontato dalla Corte, la Società ricorrente, datrice di lavoro, aveva impugnato la sentenza di appello per aver questa respinto la domanda restitutoria proposta nel giudizio di rinvio producendo la documentazione (in particolare, una busta paga) che faceva espresso riferimento alla sentenza resa tra le parti.

 In particolare, la Società aveva rilevato che, in occasione dell’udienza di discussione, la difesa avversaria non aveva contestato il fatto storico del pagamento a suo tempo intervenuto, ma si era limitata a rilevare che la domanda di restituzione delle somme al lordo avrebbe dovuto essere rivolta, quanto alle ritenute a suo tempo versate dal datore di lavoro, all’amministrazione finanziaria; in questo modo, il sistema difensivo della convenuta era stato improntato su una circostanza (la somma non poteva essere richiesta al lordo delle ritenute fiscali) incompatibile con la negazione dell’avvenuto pagamento.

Su tali premesse, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare il principio sopra richiamato prendendo le mosse, da un lato, dall’art. 389 c.p.c. e, dall’altro dal principio di non contestazione.

Sotto il primo aspetto, si rammenta che, come è noto, la norma citata attribuisce la competenza per le domande restitutorie al giudice di rinvio, atteso che alla Suprema Corte compete solo il giudizio rescindente; ne consegue che l’istanza restitutoria, laddove il pagamento sia avvenuto sulla base della sentenza poi annullata, va proposta al giudice di merito. Si ritiene infatti pacificamente che l’art. 389 c.p.c. tende a ripristinare la situazione di fatto illegittimamente modificata in base alla decisione cassata.

Nel caso affrontato nella sentenza in commento, la pronuncia resa dal giudice di rinvio, che aveva rigettato integralmente l’originaria domanda della lavoratrice, aveva travolto il titolo costituito dalle sentenze di primo e di secondo grado provvisoriamente esecutive tra le parti. Da ciò conseguiva il diritto della Società datrice di lavoro di ottenere la restituzione delle somme pagate in esecuzione delle sentenze.

Tuttavia, il giudice di rinvio aveva ritenuto che la domanda di restituzione, seppur proponibile, fosse infondata nel merito perché priva di adeguato riscontro probatorio, reputando insufficiente la busta paga prodotta.

Tuttavia, così facendo, il giudice di rinvio aveva violato il principio di non contestazione.

Come viene ricordato nella medesima pronuncia, secondo l’insegnamento della Suprema Corte (Cass. n. 19865 del 2015), anche prima della formale introduzione del principio di non contestazione, mediante la modifica dell’art. 115 c.p.c., il convenuto era tenuto a contestare in termini specifici, e non limitati ad una generica negazione, le circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda e, per il rito del lavoro (Cass. n. 16970 del 2018), ai sensi dell’art. 416 c.p.c., comma 3, a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda.

In sintesi, dunque, questi devono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nel primo atto difensivo, si limiti a negare genericamente la fondatezza della domanda attorea, senza sollevare alcuna contestazione chiara e specifica.

L’operatività del principio citato richiede che la parte dalla quale è invocato abbia per prima ottemperato all’onere processuale, posto a suo carico, di provvedere ad una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (Cass. n. 20525 del 2020, n. 3023 del 2016, n. 19896 del 2015); la generica deduzione di assenza di prova senza negazione del fatto storico non è equiparabile alla specifica contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 17889 del 2020).

Ne consegue che una circostanza dedotta da una parte può ritenersi pacifica se sia esplicitamente ammessa dalla controparte o se questa, pur non contestandola in modo specifico, abbia improntato la difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col suo disconoscimento, così implicitamente ammettendone l'esistenza (Cass. n. 23816 del 2010, n. 2699 del 2004, n. 13830 del 2004).

Orbene, la domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione di una sentenza poi cassata va proposta, come detto in precedenza, al giudice di rinvio, che opera quale giudice di primo grado, in quanto detta domanda non poteva essere formulata precedentemente.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la sentenza impugnata, nel limitarsi ad affermare l’inidoneità della busta paga a comprovare il fatto dell’avvenuto preesistente pagamento, avrebbe ammesso, per implicito, quale presupposto logico-giuridico imprescindibile del ragionamento decisorio, che vi fosse l’allegazione del fatto ritenuto non provato.

Di conseguenza, l’onere di allegazione del fatto costitutivo della domanda restitutoria, consistente nella affermazione di avere operato il pagamento di determinate somme di cui all’originario titolo provvisoriamente esecutivo, era stato assolto dalla Società in sede di memoria di costituzione in sede di riassunzione; pertanto, era onere della controparte formulare una contestazione specifica, nel primo atto difensivo successivo, cioè in sede di udienza di discussione. Eppure, in tale occasione, la difesa della lavoratrice si era limitata a contestare la domanda di restituzione delle somme lorde.

A fronte di tale comportamento processuale, secondo la Cassazione, la Corte di merito avrebbe omesso di esaminare la portata delle dichiarazioni delle parti alla luce del principio di circolarità degli oneri di allegazione e di contestazione: a fronte della allegazione da parte della Società ricorrente del fatto che costituiva il presupposto della pretesa restitutoria (il pregresso pagamento), la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se la difesa svolta dalla controparte nel primo atto difensivo successivo presentasse o meno gli estremi di una valida contestazione del fatto allegato ovvero costituisse una affermazione incompatibile con la negazione del pagamento.

La sentenza è stata allora cassata con rinvio alla Corte di appello in diversa composizione, che dovrà provvedere al riesame del merito della domanda restitutoria avanzata dalla Società, conformandosi al suddetto principio di diritto.

L’avvertimento è chiaro: ti conviene contestare…o rischi di pagare.

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