Lo ha chiarito la Cassazione con la recente sentenza n. 11136/2023 (in allegato).

La fattispecie concreta ha riguardato il caso di una dipendente occupata presso un esercizio di ristorazione che, in regime di appalto, svolgeva il servizio mensa in favore della committente. Durante l’espletamento della prestazione lavorativa, una vetrinetta termica in uso all’appaltatrice e di proprietà della committente (e di cui quest’ultima aveva attestato il buono stato di manutenzione e la conformità alle norme di legge) esplode improvvisamente, provocando un infortunio professionale alla lavoratrice. Rimasta assente dal posto di lavoro, in ragione dell’infortunio occorso, per un periodo superiore a quello del comporto fissato dalla regolamentazione collettiva, la dipendente viene licenziata; pertanto, agisce in giudizio per vedere dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato nei suoi confronti.

La Corte di Cassazione dà seguito al proprio orientamento secondo cui le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale rientrano – a tutti gli effetti – nella nozione di infortunio e malattia di cui all’art. 2110 cod. civ. Ne deriva che, al pari cioè di qualsiasi altra assenza per malattia o infortunio riconducibili a fattori causali extralavorativi, le anzidette assenze concorrono a formare “il montante” del periodo di comporto, cioè il periodo di tempo massimo entro il quale è garantito il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, ovvero, da un angolo visuale opposto, quel periodo di tempo decorso il quale il datore di lavoro è legittimato ad intimare il licenziamento ai sensi del secondo comma dell’art. 2110 cod. civ.. E ciò perché, afferma la Suprema Corte, non è “sufficiente, perché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, che si tratti di malattia di origine professionale, meramente connessa cioè alla prestazione lavorativa, ma è necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.”.

Per rispondere all’interrogativo posto nel titolo del presente commento, e quindi per comprendere se il licenziamento intimato per il superamento del periodo di comporto sia o meno legittimo, il discorso deve volgersi alle regole che governano la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Come è noto, tale norma sancisce il diritto del lavoratore alla tutela dell’integrità fisica e della personalità morale sul posto di lavoro, ponendo a carico del datore di lavoro il correlativo obbligo di adottare tutte quelle misure che, “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” sono atte a realizzare in concreto tale tutela. E’ parimenti noto però che tale disposizione di legge “non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti da conoscenze sperimentali o tecniche del momento”. Pertanto, è onere del lavoratore provare il danno subito, allegare la nocività dell’ambiente di lavoro (leggasi: l’inadempimento datoriale all’obbligo di adottare tutte quelle misure che consentano di escludere la nocività dell’ambiente di lavoro) e il nesso di causalità tra l’uno e l’altro, mentre sul datore di lavoro ricade il correlativo – e opposto – onere di provare di aver adempiuto l’obbligo di sicurezza sul medesimo gravante (leggasi: l’adempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure di sicurezza ragionevolmente esigibili) e che la malattia del dipendente non è causalmente collegabile all’eventuale violazione di tali obblighi.

Nella fattispecie concreta che ha originato la pronuncia che qui si commenta, peraltro, oltre che l’eventuale responsabilità datoriale per inadempimento all’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 cod. civ., viene in rilievo la responsabilità da cose in custodia di cui all’art. 2051 cod. civ.[1] In tal caso, come è pacifico, sussiste una presunzione di colpa in capo a colui che aveva la disponibilità della cosa che ha cagionato il danno, “che può essere superata solo dalla dimostrazione dell’avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e della natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso”.

Pertanto, per concludere, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza di una sorta di automatismo tra natura professionale dell’infortunio o della malattia e diritto del lavoratore a non vedere conteggiati i relativi giorni di assenza tra quelli “utili” a determinare il superamento del periodo in cui la conservazione del posto di lavoro è garantita dall’art. 2110 c.c. In altri termini, solo nel caso in cui la malattia o l’infortunio professionale siano imputabili al datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. (o, nel caso di specie, ai sensi dell’art. 2051 c.c.) allora le relative assenze del lavoratore non potranno contribuire a determinare il superamento del periodo di comporto.

Nel caso di specie, invece, non essendo configurabile alcuna responsabilità datoriale ai sensi delle disposizioni codicistiche sopra richiamate[2], i periodi di assenza della lavoratrice causalmente collegati all’infortunio occorso alla medesima sul posto di lavoro concorrono a formare il periodo massimo in cui è consentita l’assenza dal lavoro, con il corollario che il superamento di detto periodo da parte della dipendente ha legittimato il datore di lavoro ad intimarle il recesso dal rapporto di lavoro.

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[1] Così l’art. 2051 del Codice civile: “Danno da cose in custodia – Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. [1] In punto di fatto, ha osservato la Corte che “nello specifico, la presunzione di colpa per la vetrinetta in custodia a carico della parte datoriale risulta superata dall’accertamento del giudice di merito il quale ha ritenuto l’evento non prevedibile in cosiderazione della diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali applicabili al tempo”.

Il caso da cui origina la pronuncia

Un lavoratore – che nell’ultimo anno di servizio è stato assente per malattia in un numero di giorni che effettivamente è superiore a quello del periodo di comporto per sommatoria – viene licenziato dal datore di lavoro in ragione del superamento del periodo di comporto.

L’atto di recesso viene impugnato giudizialmente dal lavoratore che ne deduce l’illegittimità per varie ragioni. Prima fra tutte, la mancata ricezione, nell’approssimarsi del completamento del periodo di comporto, di una comunicazione datoriale idonea ad informarlo dell’imminente superamento dell’anzidetto periodo, tanto più che, nel caso di specie, i prospetti presenza (che mensilmente erano allegati alle buste paga inviategli dal datore) indicavano un numero di assenze inferiore al numero delle assenze effettivamente realizzate e, soprattutto, inferiore a quello successivamente conteggiato dal datore in sede di licenziamento.

La soluzione della Corte di Appello di Roma

La Corte territoriale, innanzi tutto, chiarisce che il requisito della motivazione del licenziamento, così come sancito dall’art. 2 della L. n. 604/1966, è senz’altro rispettato allorquando nella lettera di licenziamento, come appunto avvenuto nel caso di specie, sono esaustivamente indicati, sia il numero dei giorni complessivi di assenze per malattia fatte registrare dal lavoratore, sia i periodi temporali in cui tali assenze si collocano. La circostanza specifica che le indicazioni della lettera di licenziamento non coincidano con le risultanze dei prospetti presenza (inviati mensilmente al lavoratore insieme alle buste paga) non incide sul requisito della motivazione del recesso, che, pertanto, deve ritenersi chiara ed intellegibile.

Tuttavia, osserva la Corte, la discrasia oggettivamente esistente tra i prospetti presenza allegati mensilmente alle buste paga (che riportano, erroneamente, un numero di assenze inferiore a quello oggettivamente realizzato dal lavoratore) e le indicazioni contenute nella lettera di licenziamento (la quale, sulla base dei certificati di malattia INPS prodotti in giudizio, corrispondono alle effettive assenze fatte registrare del lavoratore) rileva nella misura in cui ha ingenerato nel lavoratore un incolpevole affidamento sul fatto di aver accumulato un numero di giorni di assenza per malattia non idoneo a determinare, di lì a poco, un imminente superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL.

Se quindi, in via generale e astratta, la Corte di Appello di Roma afferma esplicitamente di condividere il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in assenza di una specifica previsione del CCNL applicato al rapporto, il datore di lavoro non è obbligato ad avvertire il lavoratore dell’imminente scadenza del periodo di comporto, nel caso di specie, al contrario, l’aver indotto il lavoratore in errore (per il tramite dell’invio mensile, e dunque reiterato, di prospetti presenza recanti indicazioni erronee) fa sì che il successivo licenziamento che si basi sul (diverso) numero delle assenze effettivamente fatte registrare dal lavoratore sia non conforme all’obbligo di buona fede e correttezza comunque gravante sul datore di lavoro. In altri termini, nel caso di specie, ai fini della legittimità del recesso sarebbe stato necessario che il datore di lavoro avvertisse il lavoratore del prossimo compimento del periodo di comporto, informandolo in merito all’erroneità dei dati riepilogativi delle sue assenze comunicatigli mensilmente con le buste paga.

Inoltre, osserva la Corte al fine di contrastare una delle argomentazioni difensive della società, la possibilità del lavoratore di consultare il sito internet dell’INPS e di avvedersi autonomamente di quale fosse l’effettivo numero delle sue assenze non consente di ritenere che licenziamento sia legittimo: “quand’anche questa verifica fosse stata compiuta, comunque sarebbe rimasto nel reclamante il ragionevole affidamento – indotto dal reiterato comportamento datoriale – nel fatto che il proprio datore di lavoro avrebbe considerato rilevanti, ai fini del comporto, solo alcune di quelle assenze e non tutte[1].

La rilevanza del principio di buona fede e correttezza

Da quanto sopra siricava che, nel caso in cui le condotte precedenti al licenziamento abbiano un inequivoco significato tale da far ragionevolmente presumere la volontà del datore di lavoro di conteggiare, ai fini del comporto, solo alcune assenze per malattia fatte registrare dal lavoratore, il dato “oggettivo ed indubitabile” del superamento di detto periodo (così come determinato dalla considerazione numerica di tutte le assenze per malattia del lavoratore) non è di per sé sufficiente a determinare la legittimità del relativo recesso. Tale conclusione è il portato della applicabilità anche al rapporto di lavoro, così come a qualsiasi altro rapporto obbligatorio, della regoladi buona fede e correttezza, la cui “rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge[2] .

Attenzione, dunque, perché anche un potere datoriale in astratto esistente – quello di licenziare un lavoratore che ha superato il periodo di comporto – può essere invalidato, se è stato esercitato in un contesto ‘inquinato’ da una precedente condotta del medesimo datore contraria a buona fede.


[1] Così, a pagina 8, la sentenza qui brevemente annotata.

Tale passo della sentenza qui annotata è maggiormente comprensibile se si considera il dato che l’art. 16 co. 14 del CCNL applicato al rapporto prevede che “le giornate di malattia derivante da documentate patologie particolarmente gravi e/o invalidanti (affezioni in forme meno acute e/o croniche, patologie oncologiche, sclerosi multipla o distrofie muscolari) non verranno computate ai fini dei termini previsti dal presente articolo”. Ne deriva che, nel ragionamento operato dalla Corte, un’eventuale verifica compiuta dal lavoratore sul portale INPS non avrebbe consentito di escludere il suo ragionevole affidamento sul fatto che solo alcuni periodi di assenza per malattia dal medesimo fatti registrare venivano computati dal datore di lavoro ai fini del calcolo del comporto.

[2] In questi termini, tra le più recenti, Cassazione civile sez. III, 14/06/2021, n.16743

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