Nell’ambito di una recente pronuncia (Case of Ancient Baltic Religious Association Romuva v. Lithuania, dell’8 giugno 2021), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affrontato un caso di rifiuto da parte dello Stato di riconoscimento di un’associazione religiosa.

Il ricorso era stato presentato dall’Associazione Religiosa del Baltico antico ‘Romuva’ nei confronti della Lituania. Tale associazione aveva chiesto di ottenere lo status di associazione religiosa riconosciuta dallo Stato. Sebbene il Ministero della Giustizia avesse reputato sussistenti i requisiti necessari, a seguito dei dibattiti parlamentari, il progetto di risoluzione diretto al riconoscimento statale non era stato approvato dal Seimas, il Parlamento lituano.

Secondo la CEDU vi sarebbe stata una violazione dei diritti previsti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Come si evince dalla motivazione della pronuncia, la questione ruota intorno a due norme della Convenzione.

Da un lato, vi è l’articolo 9, dedicato alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione[1]; dall’altro, l’articolo 14, che prevede il divieto di discriminazione[2]. La Corte ha esaminato il ricorso della Romuva proprio sulla base del combinato disposto di tali due norme.

Già le premesse dell’assessment della Corte si presentano di particolare interesse.

Per cominciare, nella decisione in commento, viene ribadito che la Convenzione mira a garantire non diritti teorici o illusori, ma diritti “practical and effective”.

Su tale premessa, la Corte ha precisato che il diritto sancito dall’articolo 9 sarebbe altamente teorico se il grado di discrezionalità concessa agli Stati permettesse loro di interpretare la nozione di ‘religioso’ in modo così restrittivo da privare di protezione legale una forma di religione non tradizionale e minoritaria.

Rammentando di non dovere, e potere, decidere in astratto se un insieme di convinzioni e pratiche possano essere considerate una ‘religione’ ai sensi dell’articolo 9 della Convenzione, alla luce del carattere sussidiario del suo ruolo, la Corte ha rilevato che, nel caso di specie, né il governo né le autorità nazionali avevano contestato l’esistenza in Lituania di più comunità che professavano la vecchia fede baltica e che, sulla base di quanto allegato, non vi erano motivi per mettere in discussione la natura religiosa dell’associazione ricorrente.

La Corte ha poi osservato che lo status di associazione religiosa riconosciuta avrebbe conferito all’associazione una serie di privilegi aggiuntivi (tra i quali il diritto per i ministri di celebrare matrimoni religiosi con effetto civile, il diritto di insegnare la religione nelle scuole, l’esenzione dal pagamento dell’imposta fondiaria).

Secondo la Corte, tali privilegi rientrerebbero nell’ambito di applicazione dell’art. 9 della Convenzione.


Su tali premesse, la Corte ha valutato, in primo luogo, se vi fosse stata una differenza di trattamentotra situazioni simili”.

Dopo aver rammentato i requisiti per il riconoscimento fissati dal diritto nazionale (l’iscrizione da almeno venticinque anni, un sostegno pubblico sufficiente, insegnamenti che non violano la legge o la morale pubblica), la Corte ha ritenuto che non vi fossero motivi per mettere in discussione la conclusione raggiunta dal Ministero della Giustizia – nella sua veste di istituzione incaricata di effettuare tale valutazione - nel senso che l’associazione richiedente possedesse i suddetti requisiti.  

Ciò posto, a dire della Corte, l’associazione ricorrente sarebbe stata trattata in modo diverso dalle altre associazioni religiose che si trovavano in una situazione analoga o relativamente simile.

Tale differenza di trattamento, non sorretta da una giustificazione oggettiva, sarebbe stata basata proprio sulla religione, e questo, come si è visto, è uno dei motivi esplicitamente enumerati nell’art. 14 della Convenzione.

In assenza di una adeguata motivazione da parte del Seimas, la Corte ha esaminato le dichiarazioni rese dai membri del Parlamento durante i dibattiti, nonché le osservazioni del Governo.

Una delle argomentazioni svolte durante i dibattiti parlamentari riguardava la presunta esistenza di legami tra le attività dell’associazione e le politiche del KGB o del Cremlino.

A questo riguardo, la Corte ha osservato che tale affermazione non era stata sostenuta da autorità nazionali competenti: difatti, la proposta di concedere il riconoscimento statale all’associazione richiedente era stata esaminata, tra gli altri, anche dal Comitato per la sicurezza nazionale e la difesa, che non aveva sollevato obiezioni.

Inoltre, tali affermazioni erano state ritenute infondate dalla Commissione parlamentare per l’etica.

La Corte ha altresì evidenziato che il governo, nelle proprie osservazioni, non aveva sostenuto che l’associazione richiedente potesse aver posto rischi per la sicurezza nazionale; né la Corte sarebbe stata informata del coinvolgimento dell’associazione in qualsiasi procedimento interno riguardante un qualche presunto pericolo anche su altri piani.
Alla luce di tali circostanze, la Corte ha dichiarato di non poter accettare che il rifiuto del riconoscimento fosse stato giustificato da motivi di sicurezza nazionale.

Un altro argomento proposto durante i dibattiti parlamentari riguardava i dubbi sul fatto che le attività dell’associazione richiedente fossero religiose, piuttosto che culturali o etnografiche.

In questa prospettiva, la Corte ha osservato che né il Seimas né il governo avevano sostenuto che i beliefs dell’associazione ricorrente non raggiungessero il livello necessario di cogenza, serietà, coesione ed importanza per poter essere considerata ‘religione’.

In ogni caso, la Corte ha dato atto del fatto che l’associazione ricorrente era stata registrata come associazione religiosa e che, come già detto, la sua natura religiosa non era stata contestata da nessuno fino ai dibattiti.

Da qui la conclusione secondo la quale il Parlamento aveva messo in discussione la legittimità delle credenze dell’associazione e le modalità nelle quali tali convinzioni erano espresse, cosa che – secondo il giudizio della Corte – sarebbe incompatibile con il dovere di neutralità e imparzialità dello Stato.

Ci sarebbe stata, poi, una terza categoria di argomenti emersi durante i dibattiti parlamentari, concernente i rapporti dell’associazione con il cristianesimo: diversi membri del Parlamento avevano riferito che la maggioranza dei lituani era cattolica, evidenziando l’importanza storica del cristianesimo in Lituania, e l’impatto che il riconoscimento di un’associazione religiosa pagana avrebbe potuto avere sui rapporti della Lituania con il “mondo cristiano”.

A questo proposito, si segnala il passaggio della decisione nella quale la Corte ha sottolineato l’importanza del mantenimento di un pluralismo religioso, definendolo vitale per la sopravvivenza di una società democratica.

Secondo la Corte, l’esistenza di una religione alla quale aderisce la maggioranza della popolazione, o qualsiasi presunta tensione tra l’associazione richiedente e la religione di maggioranza, o l’opposizione di un’autorità, non potrebbero costituire una giustificazione ragionevole del rifiuto del riconoscimento da parte dello Stato all’associazione.

La Corte ha così concluso che, nel rifiutare il riconoscimento dello Stato all’associazione ricorrente, le autorità statali non avevano fornito una giustificazione ragionevole e obiettiva per trattare l’associazione richiedente in modo diverso dalle altre associazioni religiose che si trovavano in una situazione relativamente simile, e che i membri del Seimas, che avevano votato contro la concessione del riconoscimento statale, non
erano rimasti neutrali ed imparziali nell’esercizio dei loro poteri di regolamentazione.


In conclusione, la Corte ha ritenuto che vi sia stata una violazione dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 9.

Poiché l’associazione non aveva potuto disporre di un ricorso interno effettivo, è stata altresì reputata violata la previsione dell’art. 13 della Convenzione.

Si rammenta, a questo riguardo, che tale disposizione, rubricata ‘Diritto a un ricorso effettivo’, prevede che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

Più diritti, dunque, sono stati reputati violati.

A conferma che il complesso mondo che ruota intorno alla libertà religiosa merita – ancora – una forte attenzione.


[1] Art. 9: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2.  La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.

[2] Art. 14: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.

“Mi piace”, “condivi”, “commenta”.

Quando, nel lontano 4 novembre 1950, i Paesi membri del Consiglio d’Europa firmarono la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non potevano certo immaginare che la libertà di espressione, enunciata nell’art. 10, sarebbe stata abbinata anche a tali espressioni, ed azioni, in un mondo virtuale che è per noi ora ben più che familiare.

Eppure, questo è quanto ha affermato recentemente la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU, 15 giugno 2021) la quale, nell’affrontare un caso di licenziamento intimato per alcuni “like”, ha evidenziato, nella sostanza, quale sia la portata della libertà di espressione nell’epoca dei social network.

Una lavoratrice, dipendente del Ministero dell’istruzione della Turchia, con mansioni di addetta al servizio di pulizia, aveva messo un “like” ad un post su facebook che aveva criticato le scelte dell’autorità pubblica e, per questo motivo, era stata licenziata. Dopo aver tentato tutti i rimedi interni di impugnazione del licenziamento, reputato legittimo dai giudici nazionali, la lavoratrice si è rivolta alla Corte di Strasburgo al fine di rivendicare il proprio diritto di espressione.

Si tratta di una decisione senz’altro interessante, alla luce, in particolare, dell’attualità della questione affrontata.

La libertà di espressione, come si è anticipato, è tutelata dall’art. 10 della Convenzione[1] e, secondo la Corte, la sua protezione si estende alla sfera professionale in generale e si applica anche alle relazioni tra soggetti privati. In effetti, il reale ed effettivo esercizio della libertà di espressione non dipende solamente dal dovere dello Stato di astenersi da ogni ingerenza, ma può esigere misure positive di protezione all’interno dei rapporti e, in alcuni casi, lo Stato ha altresì l’obbligo ‘positivo’ di tutelare il diritto alla libertà di espressione, anche di fronte ad attacchi di privati.

Nella decisione in commento, la Corte ha esaminato la vicenda prendendo le mosse proprio dagli obblighi positivi posti a carico dello Stato, alla luce dell’art. 10 della Convenzione.

In particolare, secondo la Corte, la questione principale posta nel caso di specie è se lo Stato fosse tenuto a garantire il rispetto della libertà di espressione della lavoratrice ricorrente, annullando il licenziamento. Da qui la valutazione della proporzionalità, o meno, della sanzione.

Di particolare interesse è la premessa in fatto svolta dalla Corte: nella decisione viene precisato che, nella fattispecie concreta, la lavoratrice era stata licenziata per aver premuto il pulsante ‘mi piace’ su alcuni contenuti pubblicati da terze parti sul sito web del social network Facebook. Secondo la Corte, l’utilizzo delle parole ‘mi piace’ sui social network, che può essere considerato un mezzo per mostrare il proprio interesse o la propria approvazione ad un contenuto, costituisce “una forma corrente e popolare di esercizio della libertà di espressione on line”.

Ciò posto, secondo la valutazione della Corte, i giudici nazionali non avrebbero svolto un esame sufficientemente approfondito del contenuto dei post controversi né del contesto in cui questi si inserivano. Si trattava, in particolare, di post contenenti aspre critiche politiche delle presunte pratiche repressive delle autorità, appelli a manifestare e protestare, denunce di presunti abusi degli alunni che avrebbero avuto luogo negli stabilimenti posti sotto il controllo delle autorità nonché una reazione aspra a una dichiarazione, giudicata sessista, di una personalità religiosa nota al pubblico.

Sulla premessa secondo la quale tali contenuti posti alla base della sanzione espulsiva erano stati pubblicati su facebook, la Corte ha rammentato quanto aveva avuto già modo di affermare in relazione ai social network nell’ambito di precedenti decisioni.

In particolare, secondo la Corte di Strasburgo, la possibilità di esprimersi su internet deve essere vista come uno strumento senza precedenti di esercizio della libertà di espressione (Delfi AS c. Estonia [GC], n. 64569/09, §§ 110 e 133, CEDU 2015).

In effetti, grazie alle loro accessibilità e capacità di conservare e diffondere grandi quantità di dati, i siti internet contribuiscono notevolmente a facilitare la comunicazione dell'informazione, tanto che internet è oggi diventato uno dei principali mezzi di esercizio della libertà di espressione.

La Corte, pur dando atto dell’esistenza dei rischi che accompagnano i vantaggi di questo mezzo di comunicazione (si pensi alle dichiarazioni illecite o diffamatorie, a quelle che incitano all'odio o alla violenza e che possono essere diffuse in pochi secondi), ha evidenziato che una dichiarazione pubblicata on line per un piccolo numero di lettori non potrebbe certamente avere la stessa portata e le stesse conseguenze di una dichiarazione pubblicata su siti molto visitati.

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte ha – coerentemente - rilevato che la ricorrente in questione non aveva “creato” i contenuti controversi, ma si era limitata a cliccare sul tasto “like” (il nostro “mi piace”).

È stata poi reputata rilevante la circostanza secondo la quale, in virtù del ruolo lavorativo ricoperto, la ricorrente potesse disporre di una notorietà e di una rappresentatività limitata sul luogo di lavoro e che le sue attività su Facebook non potevano avere un impatto significativo sugli studenti, sui genitori, sugli insegnanti o su altri dipendenti.
In sintesi, secondo la Corte, i giudici nazionali non avrebbero tenuto conto di tutte le circostanze al fine di concludere nel senso della idoneità dell’atto a “perturbare la pace e la tranquillità del luogo di lavoro dell'interessata”.

La conclusione alla quale è pervenuta la Corte – all’unanimità - è allora severa: in mancanza di motivi pertinenti e sufficienti a giustificare il licenziamento, i giudici non avrebbero applicato norme conformi all’art. 10 della Convenzione e, in ogni caso, nella vicenda di specie, non sussisterebbe un rapporto di “proporzionalità ragionevole” tra l’ingerenza nell’esercizio del diritto della lavoratrice alla libertà di espressione e lo scopo legittimo perseguito dalle autorità nazionali.

In un’epoca in cui le opinioni vengono condivise (quasi esclusivamente) sui social network, la libertà di espressione (anche) dei lavoratori richiede una rinnovata tutela.

Perché, come diceva il filosofo Spinoza, “il diritto di pensare e di esprimersi liberamente non è trasferibile, né può essere soppresso dal potere politico (…) Qualsiasi Stato che non riconosce la libertà di pensiero e di espressione è destinato all’instabilità” (B. Spinoza, La libertà di pensiero e di espressione, GoWare, Collana di Filosofia 2017, p. 35).


[1] Articolo 10 – Libertà di espressione “1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza,  alla  difesa  dell’ordine  e  alla  prevenzione  dei  reati,  alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione  o  dei  diritti  altrui,  per  impedire  la  divulgazione  di  informazioni  riservate  o  per  garantire  l’autorità  e  l’imparzialità  del potere giudiziario”.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram