Con la sentenza del 28 ottobre 2021 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, prima sezione, nell’affaire Succi et autres c. Italie, ha ritenuto che l’approccio della Corte di Cassazione, al momento di valutare l’ammissibilità del ricorso, quando legato ad un rigido ed eccessivo formalismo nell’applicazione dei criteri di redazione dello stesso, configura una violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU, limitando il diritto ad un equo processo per i cittadini.

Con 3 distinti ricorsi (nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/2014) alcuni cittadini italiani hanno adito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, invocando la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, in seguito alla declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Cassazione dei ricorsi da questi proposti.

Secondo i ricorrenti, la Corte di Cassazione avrebbe respinto i loro ricorsi ingiustamente, avendo applicato in modo eccessivamente formalistico i criteri di redazione dei ricorsi previsti dal codice di procedura civile.

Nello specifico, nel ricorso n. 55064/11, il ricorrente ha lamentato che il principio di autonomia, a cui dovrebbe ispirarsi la redazione del ricorso per cassazione (principio di autosufficienza), all’epoca dei fatti, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente.

Tant’è vero che il principio era stato oggetto di un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 8077/2012) necessitato dall’esigenza di chiarire l’applicazione pratica di tale principio.

Qualche anno dopo la medesima esigenza è stata alla base dell’emanazione del ‘Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria’, siglato nel 2015, con l’intento di frenare l’approccio eccessivamente formalistico della Cassazione.

In ultimo, il ricorrente ha censurato l’applicazione che la Corte di Cassazione ha fatto del principio di autonomia, avendolo utilizzato principalmente come un mezzo per limitare l’accesso alla giustizia e ridurre l’arretrato della Corte medesima.

Nella causa n. 37781/13 il ricorrente ha evidenziato il fatto che, nel momento in cui ha presentato il ricorso per cassazione, non esisteva una giurisprudenza su come formulare i quesiti di diritto.

Più in generale, ha lamentato la mancanza di prevedibilità circa l’applicazione dei criteri di redazione del ricorso.

In alcuni casi, i criteri di redazione del ricorso sono stati interpretati dalla giurisprudenza di legittimità in modo ‘flessibile’, limitandosi a chiedere alla parte di presentare tutti gli elementi necessari alla comprensione delle sue allegazioni.

In altri casi, è stata data una lettura ‘più rigorosa’ degli stessi, imponendo un obbligo di trascrizione di ogni documento citato nel ricorso, nonostante il deposito dei documenti nel procedimento di merito.

L’esigenza di chiarire i confini del principio di autonomia ha portato il legislatore ad intervenire con la riforma del 2006 anche al fine di accantonare l’obbligo di trascrizione. L’intervento normativo non è stato però risolutore in quanto parte della giurisprudenza di legittimità ha continuato a richiedere la trascrizione degli atti citati nel ricorso (Cass. nn. 1952/2009; 6397/2010; 10605/2010; 24548/2010; 20028/2011) e ciò anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 8077/2012 e il Protocollo del 2015 (Cass. nn. 15634/2013; 7362/2015; 18316/2018).

Il rigetto del ricorso, secondo il ricorrente, visto il quadro giurisprudenziale e normativo testè delineato, è stato sproporzionato in considerazione del fatto che l’obbligo di riprodurre il contenuto di un documento, già incluso nel fascicolo allegato al ricorso e menzionato dal ricorrente, non poteva essere considerato necessario per la corretta amministrazione della giustizia e la certezza del diritto.

Nel lamentare l’eccessivo formalismo nell’applicazione del principio di autonomia, il ricorrente ha concluso sostenendo di essere stato “victime d’une entrave excessive et disproportionnée à son droit d’accès à un tribunal” (vittima di un’interferenza eccesiva e sproporzionata nel suo diritto di accesso ad un tribunale).

Nel ricorso n. 26049/14 il ricorrente ha lamentato che l’eccessivo formalismo abbracciato dalla Cassazione nell’applicazione dei criteri di redazione del ricorso e che trae il suo fondamento da una giurisprudenza di legittimità troppe volte incerta e contradditoria costituisce un rafforzamento dei meccanismi esistenti di limitazione procedurale dell’accesso alla giustizia.

Nello specifico il ricorrente ha ritenuto violato il suo diritto di accesso alla Corte di Cassazione in quanto l’obbligo di redigere una sintesi dei fatti, obbligo imposto dall’art. 366 c.p.c., quando il contenuto dell’obbligo venga determinato con criteri incerti e poco prevedibili, finisce per costituire un filtro e una barriera procedurale al diritto di accesso alla giustizia del cittadino.

L’obiettivo di garantire una durata ragionevole del procedimento civile, secondo il ricorrente, non può tradursi in un ostacolo all’accesso al tribunale e in una limitazione del diritto a un equo processo.

Nella sentenza in commento la Corte Europea ha preliminarmente richiamato i principi inerenti le limitazioni del diritto di accesso a un tribunale superiore affermati nel caso Zubac, ricordando che il modo in cui l’articolo 6 § 1 si applica alle corti d’appello o di cassazione dipende dalle caratteristiche particolari del procedimento in questione.

Secondo la Corte Europea deve ritenersi legittimo lo scopo perseguito con il principio di autonomia essendo quello di “faciliter la compréhension de l’affaire et des questions soulevées dans le pourvoi et à permettre à la Cour de cassation de statuer sans devoir s’appuyer sur d’autres documents, afin qu’elle puisse préserver son rôle et sa fonction qui consistent à garantir en dernier ressort l’application uniforme et l’interprétation correcte du droit interne (nomofilachia)” (facilitare la comprensione del caso e delle questioni sollevate e permettere alla Cassazione di pronunciarsi senza doversi basare su altri documenti in modo da preservare il suo ruolo e la sua funzione di garantire in ultima istanza l’applicazione uniforme e l’interpretazione corretta del diritto interno - nomofilachia).

La Corte Europea ha ritenuto pienamente ammissibili le restrizioni all’accesso alla Corte di Cassazione determinate dall’applicazione del principio di autonomia anche quando più rigorose di quelle previste per un appello. L’ammissibilità della restrizione trova il suo fondamento anche nella necessità di smaltimento dell’enorme arretrato causato dal notevole afflusso di ricorsi presentati ogni anno davanti alla Corte di Cassazione. Sicuramente il principio di autonomia è in grado di garantire un uso più appropriato e più efficiente delle risorse disponibili.

D’altra parte, le restrizioni all’accesso alla Corte, anche quando giustificate dall’enorme carico di lavoro della Cassazione, difettano del requisito della proporzionalità, se interpretate in modo troppo formale.

L’eccessivo formalismo inevitabilmente finisce per limitare il diritto di accesso ad un tribunale ed incide sulla sostanza stessa di tale diritto.

La Corte Europea ha evidenziato come, con specifico riguardo all’obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso, almeno fino alle sentenze nn. 5698 e 8077 del 2012, vi fosse una tendenza della Corte di Cassazione a concentrarsi su aspetti meramente formali che non rispondono affatto allo scopo legittimo posto a fondamento delle restrizioni.

In relazione ai ricorsi n. 37781/13 e n. 26049/14, la Corte Europea non ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, non avendo la Corte di Cassazione, in tali casi, tenuto un atteggiamento eccessivamente formalistico. La decisione presa dalla Cassazione di dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi è stata presa, afferma la Corte EDU, nel pieno rispetto dello scopo legittimamente perseguito dal principio di autonomia: cioè la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.

Al contrario la Corte Europea ha ritenuto fondato il ricorso n. 55064/11, avendo la Corte di Cassazione in tal caso, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, dato prova di eccessivo formalismo non giustificato alla luce delle finalità proprie del principio di autonomia.

Il ricorso era stato dichiarato inammissibile in quanto non era stato rispettato, secondo la Cassazione, l’obbligo di indicare, per ogni motivo di ricorso, i casi in cui la sentenza di secondo grado era ricorribile per Cassazione.

Eppure, il ricorrente aveva indicato in relazione ad ogni motivo di ricorso gli articoli e i principi di diritto violati, facendo riferimento specifico alle ipotesi previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c.

Da questo punto di vista la Corte Europea ha ritenuto che l’obbligo di specificare il tipo di critica in conformità all’art. 360, comma 1, del c.p.c. fosse stato sufficientemente rispettato.

La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto che il ricorso non menzionasse gli elementi necessari per identificare i documenti citati a sostegno delle critiche formulate.

Mentre, secondo la Corte Europea, il ricorrente aveva trascritto i passaggi pertinenti e aveva fatto riferimento ai documenti fondamentali rendendo così possibile la loro identificazione tra i documenti depositati con il ricorso.

La Corte Europea, nel dichiarare la fondatezza del ricorso n. 55064/11, al momento della liquidazione del danno ‘materiale’, ha ritenuto non fosse suo compito quello di speculare su quale sarebbe stato l’esito del procedimento in assenza della violazione riscontrata, riconoscendo al ricorrente il solo danno morale.

Concludendo, se, da una parte, il contenuto della sentenza può essere condiviso, in quanto la necessità di smaltire l’arretrato giudiziario non può giustificare ogni rigido ed eccessivo formalismo, d’altra parte, il lavoro di sintesi che viene richiesto agli avvocati nella redazione del ricorso consente di spogliare la controversia di tutto ciò che non è più necessario, andando dritto al cuore del motivo di censura, facilitando, in tal modo, il compito del giudice di ultima istanza, oberato nel ruolo.

Difficile essendo trovare una risoluzione al problema nel breve periodo, di questo dovrà sicuramente occuparsi il legislatore colmando le lacune normative evidenziate dalla Corte Europea nella sentenza in commento, in modo da evitare che i contrasti e le oscillazioni della giurisprudenza ricadano sui cittadini.

In ogni caso dovranno essere salvati gli sforzi fatti dalla giurisprudenza di legittimità volti al rafforzamento del principio di autonomia ed autosufficienza del ricorso in quanto, se è pur vero che è importante l’accesso alla giustizia (nei limiti in cui due gradi di giudizio sono stati comunque assicurati), ancor più importante è che tale accesso, a causa dell’enorme contenzioso arretrato, non venga ritardato talmente in là nel tempo da diventare del tutto inutile.

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L’attore, deducendo di essere stato investito da un autoveicolo poi risultato rubato ed il cui conducente non è stato identificato, conviene in giudizio la Società designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada al fine di chiedere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza del sinistro stradale.

La domanda, rigettata in primo grado, viene accolta dalla Corte d’Appello che, in relazione alla quantificazione, applicando le Tabelle di Milano, liquida il danno aumentando l’importo riconosciuto per invalidità permanente del 25 % , a titolo di ‘personalizzazione’, sul presupposto della “indubbia impossibilità (per la vittima) di cimentarsi in attività fisiche”, e riconosce altresì un’ulteriore somma a titolo di danno morale, ritenendo che le sofferenze di natura interiore e non relazionale fossero meritevoli “di un compenso aggiuntivo” al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi.

La sentenza d’appello viene impugnata per cassazione dalla Società.

Questa è la vicenda dalla quale ha preso le mosse la ormai nota pronuncia della Corte di Cassazione del 10 novembre 2020, n. 25164.Sembra il ‘tipico’ caso di risarcimento danni alla persona, eppure, il medesimo ha fornito alla Corte l’occasione per evidenziare alcuni profili opinabili delle Tabelle milanesi.

Le questioni affrontate

Nella pronuncia ora citata, è la stessa Corte a premettere che i motivi di ricorso proposti dalla Società avevano posto tre delicate questioni di diritto, di rilievo nomofilattico:

  1. la corretta individuazione, anche ai fini della determinazione della quantificazione del risarcimento, dei presupposti per la personalizzazione del danno alla salute e della relativa motivazione:
  2. la corretta individuazione dei presupposti per il risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali non aventi fondamento medico – legale, della relativa prova e della relativa motivazione;
  3. la corretta individuazione dei confini tra la personalizzazione del danno alla salute e la liquidazione dei pregiudizi morali non aventi fondamento medico – legale.

La personalizzazione del danno

Per quanto riguarda la prima questione, la pronuncia sembra porsi in continuità con la giurisprudenza più recente.

Viene, infatti, ribadito che la personalizzazione del risarcimento del danno alla salute consiste in una variazione in aumento (o, in astratta ipotesi, in diminuzione) del valore standard del risarcimento, per tenere conto delle specificità del caso concreto. Queste devono consistere “in circostanze eccezionali e specifiche”, con la conseguenza che “non può essere accordata alcuna variazione in aumento del risarcimento standard previsto dalle "tabelle" per tenere conto di pregiudizi che qualunque vittima che abbia patito le medesime lesioni deve sopportare, secondo l'id quod plerumque accidit, trattandosi di conseguenze già considerate nella liquidazione tabellare del danno” (cfr. Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 10912/2018, Cass. n. 23469/2018, Cass. n. 27482/2018 e, da ultimo, Cass. 28988/2019).

Nel casodi specie – secondo la Cassazione - la Corte territoriale aveva accordato la personalizzazione affermando che “non si rinvengono in atti elementi utili che consentano di altrimenti valutare in termini economici la perdita di capacità di lavoro, sia generica che specifica” e che la vittima si trova nella “indubbia impossibilità di cimentarsi in attività fisiche”, e ritenendo di dover considerare tale circostanza quale elemento per la personalizzazione nell’ambito del danno biologico.

Orbene, così facendo, secondo la Corte, il Collegio di merito sarebbe incorso in un duplice errore di diritto: da un lato, non avrebbe considerato che la personalizzazione del danno - come si è già poc’anzi rammentato - deve trovare giustificazione nel positivo accertamento di specifiche conseguenze eccezionali, ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione, e che non potrebbe costituire lo strumento per ovviare alla carenza di prova in punto di danno alla capacità lavorativa (tanto più che la lesione alla capacità di lavoro generica è ricompresa nell’ambito delle conseguenze ordinarie del danno alla salute e quella relativa alla capacità lavorativa specifica, da valutarsi nell’ambito del danno patrimoniale, esula dalla sfera del danno biologico). Dall’altro, la Corte avrebbe liquidato due volte il pregiudizio relativo all’impossibilità di compiere determinati atti fisici, dapprima a titolo di danno alla salute e, poi, a titolo, appunto, di personalizzazione, seppure in difetto, come detto, dell’indicazione di circostanze specifiche ed eccezionali.

Il danno morale

La Corte ribadisce, poi, il principio, più volte condiviso nelle precedenti pronunce, dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico.

Si rammenta che, con tale espressione, si fa riferimento ad un pregiudizio di natura del tutto interiore e non relazionale e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi (Cass. n. 910/2018, Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 28989/2019). Si tratta, infatti, di un danno che:

- non è suscettibile di accertamento medico – legale;

- si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore che prescinde dalle vicende dinamico – relazionali della vita del danneggiato.

Le indicazioni ‘operative’ fornite dalla Suprema Corte

Su tali premesse, ecco, allora, che la Corte fornisce le linee – guida che il giudice di merito dovrà seguire nel procedere alla liquidazione del danno alla salute:

  1. accertare l’esistenza, nel singolo caso, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale;
  2. in caso di positivo accertamento dell’esistenza (anche) di quest'ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le Tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono (non correttamente) all'indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno);
  3.  in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno, considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale,secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale;
  4. in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno, procedere all’aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato dalla componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella.

La prova del danno morale

Come può, allora, il danneggiato dimostrare il danno morale? 

A questo riguardo, la Corte ha ribadito che, venendo in rilievo il pregiudizio ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo e può costituire anche l'unica fonte di convincimento del giudice.

Resta comunque fermo l’onere del danneggiato di allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti, al fine di consentire di risalire al fatto ignoto.

Oggetto di tale onere di allegazione sono i fatti primari, ovvero i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno; con specifico riguardo alle conseguenze pregiudizievoli causalmente riconducibili alla condotta, “l’attività assertoria deve consistere nella compiuta descrizione di tutte le sofferenze di cui si pretende la riparazione”.

Secondo la Corte, ad un così puntuale onere di allegazione non corrisponde un onere probatorio parimenti ampio, alla luce, anche, e soprattutto, della dimensione eminentemente soggettiva del danno morale.

Da qui la possibilità di provare il danno morale anche mediante massime di esperienza che consentirebbero di evitare “che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito”.

Del resto, lo stesso sistema delle tabelle per la liquidazione del danno alla salute si basa su un ragionamento presuntivo fondato sulla massima di esperienza per la quale ad un certo tipo di lesione corrispondono determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie.

I primi ‘effetti’ della pronuncia

Come è noto, nel nostro ordinamento – il solo in Europa – coesistono più tabelle di liquidazione del danno alla persona, con la conseguenza che i risarcimenti concessi dai vari giudici possono essere diversi a seconda delle tabelle applicate.

Per oltre un decennio, quelle di Milano hanno costituito lo strumento per mezzo del quale si è tentato di dare certezza al risarcimento del danno; si tratta, infatti, delle tabelle più diffuse sul territorio nazionale ed era quindi prevedibile che la sentenza della Cassazione qui esaminata catturasse sin da subito l’attenzione di dottrina e giurisprudenza.

A questo proposito, si segnala la sentenza del Tribunale di Torino n. 4423 del 10 dicembre 2020 nell’ambito della quale il Tribunale, seguendo espressamente l’insegnamento della Corte di Cassazione, ha ritenuto che “non può essere riconosciuta alcuna personalizzazione, mancando la prova di “specifiche conseguenze eccezionali, ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione, e tali da incidere in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati ed obiettivamente accertati (v. art. 138 CdA)”.

Per completezza, si fa presente che anche la medesima Corte di Cassazione ha avuto modo di richiamare la pronuncia n. 25164/2020, ribadendo che “questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (…) da ultimo Cass. n. 25164 del 2020)” (Cass. 10 febbraio 2021, n. 3310; in precedenza anche Cass. 13 gennaio 2021, n. 460).

Quel che è certo che  il ribollire di problemi  in materia di danno morale non pare essere finito.

Intanto, in date 8 - 10 marzo 2021, l’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano ha pubblicato la versione aggiornata delle Tabelle con i relativi Criteri applicativi che espressamente tengono conto, oltre che degli indici ISTAT, anche della “rivisitazione resasi necessaria a seguito dei recenti orientamenti della Cassazione”.

Ecco, allora, che, per mezzo di quello che viene chiamato un “ritocco della veste grafica della Tabella”, si è cercato di contrastare la pratica, emersa nella prassi, ma non in linea con l’andamento affermatosi in sede di legittimità, di liquidare il danno alla salute attenendosi alla somma indicata nella tabella senza esplicitare gli “specifici pregiudizi dinamico – relazionali e sofferenziali accertati e liquidati”.

L’Osservatorio ribadisce, infatti, che l’applicazione degli importi indicati nella Tabella esprime esercizio del potere di liquidazione equitativa del giudice e, pertanto, attiene alla fase del quantum debeatur, atteso che la medesima applicazione non esonera affatto il giudice dall’obbligo di motivazione in ordine al preventivo -  e necessario – accertamento dell’an.

Viene poi previsto un nuovo modello di quesito medico legale, nell’ambito del quale si chiederà al consulente di offrire al Giudice tutti quegli elementi utili per accertare non solo l’entità del danno biologico/dinamico – relazionale temporaneo e permanente, ma anche il grado di sofferenza c.d. menomazione-correlata,cioè la sofferenza soggettiva interiore correlata alla lesione dell’integrità psicofisica. Restano escluse dalla pronuncia del consulente tecnico le componenti della sofferenza interiore che “non hanno base organica”, quali il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione.

Altra novità è, poi, l’elaborazione di “Criteri orientativi per la liquidazione del danno da mancato/carente consenso in ambito sanitario”, all’esito dell’analisi dei dati raccolti dall’Osservatorio da oltre un centinaio di sentenza.

Del resto, la liquidazione di tale danno non può livellarsi su quella del danno alla salute. Si rammenta, infatti, a questo proposito, che “la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute (…); nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute” (cfr., in questo senso, Cass., 11 novembre 2019, n. 28985). Si tratta, dunque, di un diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute (Cass. del 23 marzo 2021, n. 8163).

Se non firmerai il nuovo contratto di collaborazione entro il 2 novembre, a partire dal 3 novembre non potrai più consegnare con Deliveroo poiché il tuo contratto non sarà più conforme alla legge”.

Questo il messaggio apparso sugli smartphone dei rider di Firenze con cui Deliveroo Italy s.r.l. ha comunicato il recesso dal rapporto di lavoro e la nuova proposta contrattuale che richiama in più punti il c.d. “C.C.N.L. rider”, stipulato tra Assodelivery e Ugl Rider mentre era pendente la trattativa promossa dal Ministero del Lavoro con le organizzazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative.

Secondo Nidil CGIL Firenze, Filt CGIL Firenze e Filcams CGIL Firenze, Deliveroo avrebbe imposto l’accettazione della predetta contrattazione collettiva, sottoscritta da Ugl (soggetto non qualificato in quanto organismo sindacale che beneficia di un illegittimo sostegno anche di carattere finanziario da parte della stessa Deliveroo), come condizione per continuare a lavorare tramite un licenziamento di massa. Le O.O.S.S. hanno agito davanti al Tribunale di Firenze proponendo ricorso ex art. 28 della l. 300/70 al fine di ottenere la repressione della condotta antisindacale posta in essere dalla società datrice di lavoro lesiva del diritto alla consultazione informata, nonché del ruolo e dell’immagine delle organizzazioni sindacali nei confronti dei propri iscritti.

Nel giudizio si è costituita Deliveroo Italy s.r.l. eccependo l’incompetenza del giudice adito e il difetto di legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali ricorrenti.

Il Tribunale di Firenze, in merito alla prima eccezione, richiamato ilconsolidato orientamento del giudice di legittimità, secondo cui ai fini dell’individuazione del giudice territorialmente competente all’emissione del decreto di repressione della condotta antisindacale “rileva il luogo di commissione del comportamento denunciato, e non quello in cui esso è deliberato, anche quando il medesimo comportamento (deciso con un’unica deliberazione) sia posto in essere in luoghi ricadenti in diverse circoscrizioni giudiziarie – dovendo, in tal caso, escludersi la possibilità di un conflitto di giudicati, in quanto i provvedimenti, eventualmente diversi, dei vari giudici avrebbero una efficacia limitata alla condotta realizzata nella circoscrizione di ciascuno di essi”, ha affermato la propria competenza in quanto il comportamento antisindacale denunciato è da ritenersi posto in essere in ogni luogo nel quale i rider hanno ricevuto in modalità telematica (messaggio sullo smartphone) la comunicazione del recesso e della proposta contrattuale, atti unilaterali recettizi, e quindi, anche in Firenze.

In relazione alla seconda eccezione, il Tribunale di Firenze, premesso che il perimetro di azione del procedimento per la repressione della condotta antisindacale resta confinato ai soli conflitti che si sviluppano all’interno dei rapporti di natura subordinata, ha affrontato la questione pregiudiziale relativa alla “natura” del rapporto di lavoro tra i rider e Deliveroo.

Nel periodo contestato, secondo quanto accertato dal Tribunale di Firenze, seppur nei limiti della sommarietà del giudizio instaurato che impedisce l’assunzione di prove costituende, i rider erano liberi di dare o meno la propria diponibilità per i vari turni (slot), e, quindi, di decidere se e quando lavorare, senza dover giustificare la loro decisione e senza dover reperire un sostituto. La mancanza dell’obbligo di lavorare, che costituisce elemento caratterizzante, ai sensi dell’art. 2094 c.c., la prestazione di natura subordinata (C. App. Torino n. 26/2019), impedirebbe di qualificare il rapporto di lavoro tra i rider e Deliveroo come rapporto di natura subordinata, con la conseguenza che non sarebbe applicabile alla fattispecie l’art. 28 della l. 300/1970.

Anche laddove il rapporto di lavoro del rider venisse inquadrato come collaborazione organizzata dal committente (o eterorganizzata) si arriverebbe alla medesima conclusione, in quanto il richiamo, operato dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. 81/2015, alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato concerne solo la disciplina (sostanziale) relativa al trattamento economico e normativo dei rapporti individuali di lavoro subordinato. Pertanto, anche la lettura della disposizione dell’art. 2, co. 1° co. cit. come norma di disciplina, secondo la nota impostazione di Cass. 1663/2020, (solo) implicitamente richiamata dal decreto, non potrebbe mutare i termini del discorso. L’art. 28 della L. 300/1970, essendo una disposizione di carattere esclusivamente processuale, resterebbe fuori da tale richiamo.

Né – secondo il Tribunale – potrebbe essere utilmente richiamata, al fine di estendere l’applicabilità del rimedio della condotta antisindacale anche a quest’area di ipotesi, la previsione dell’art. 47 – quinquies d. lgs. 81/08, in quanto essa è in grado di fondare l’applicazione all’area dei lavoratori autonomi delle sole previsioni contenute nel libro I, ma non anche di quelle del libro IV della L. n. 300/70.

Con decreto del 9 febbraio 2021 il Tribunale di Firenze ha, pertanto, rigettato il ricorso dichiarando il difetto di legittimazione attiva delle O.O.S.S. ricorrenti non essendo l’azione prevista dall’art. 28 della l. 300/70 estensibile alle organizzazioni sindacali di soggetti qualificati come lavoratori autonomi o parasubordinati.

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