Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione si è espressa in materia di prescrizione di crediti di lavoro affermando il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
I fatti di causa
La Corte d’appello di Brescia aveva respinto le domande di pagamento delle differenze retributive avanzate da due lavoratrici, le sig.re M.C.P e A.B., loro spettanti per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno, in quanto eccedenti la prescrizione quinquennale.
Ai fini della decorrenza della prescrizione, la Corte d’appello aveva negato che le due lavoratrici si trovassero in una condizione psicologica di timore (metus) che aveva impedito loro di avanzare le pretese creditorie relative alle predette differenze retributive durante il corso del rapporto di lavoro temendo possibili reazioni del datore di lavoro comportanti la risoluzione del rapporto di lavoro.
Alla base del ragionamento svolto dal giudice di 2° grado vi era “la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro” anche dopo la novellazione dell’art. 18 legge n. 300/1970, per effetto della legge n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”) e del decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).
La condizione psicologica di timore, secondo la Corte d’appello bresciana, non poteva essere riconosciuta a fronte del mantenimento di una tutela ripristinatoria piena in caso di licenziamento intimato per ritorsione, e dunque discriminatorio, ovvero per motivo illecito determinante.
Nel rigettare la pretesa delle lavoratrici la Corte d’appello aveva ribadito l’irrilevanza del fatto che con le predette riforme vi fosse stata un’attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni (giusta causa o giustificato motivo) estranee alle predette rivendicazioni retributive.
Il ricorso per cassazione
Con ricorso affidato ad un unico motivo le sig.re M.C.P e A.B. impugnavano la sentenza di secondo grado davanti alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4, c.c., 18 l. 300/1970, 36 Cost., per avere la Corte d’appello di Brescia ritenuto, anche dopo la novellazione dell’art. 18 l. 300/1970 ad opera della riforma Fornero e del Jobs Act, la vigenza di un regime di stabilità del rapporto di lavoro.
Secondo la prospettazione delle ricorrenti, poteva intendersi “rapporto stabile di lavoro”, solo quel “rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo”.
In via subordinata, le due lavoratrici hanno sollevato questione di illegittimità costituzionale degli art. 2935 e 2948, n. 4, c.c. con riferimento all’art. 36 Cost. sostenendo che un regime di stabilità del rapporto di lavoro, che sia idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, non può essere integrato da un regime che preveda la tutela reintegratoria, come dispositivo sanzionatorio, per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo.
I principi affermati dalla Corte di Cassazione
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto le argomentazioni delle lavoratrici, ritenendo fondato il ricorso dalle stesse proposto.
Nel prendere la sua decisione la Suprema Corte ha ritenuto di poter rispondere al dubbio di costituzionalità, sollevato dalle ricorrenti, senza dover interpellare la Corte Costituzionale, ma richiamando “l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il c.d. diritto vivente)”.
Il focus della questione, che la Corte si è trovata a dirimere nella sentenza in commento, riguarda il momento di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. in relazione all’art. 2935 c.c., per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di stabilità o meno del rapporto di lavoro.
A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la stabilità del rapporto di lavoro, secondo la Corte, si fonderebbe “su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”
In relazione alla prescrizione, nella sentenza la Corte ha ribadito l’importanza del principio della certezza del diritto, in quanto segno di civiltà giuridica di un Paese, in quanto consente allo Stato di essere attrattivo per investimenti e iniziative di intrapresa economica all’interno del contesto internazionale “nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese”.
La Corte invita poi a riflettere sul doveroso coordinamento di tali principi con la disciplina dei rapporti di lavoro oggi più flessibilmente modulata in ordine alle varie forme di tutela previste nelle varie ipotesi di licenziamento.
Da tale punto di vista, emerge la necessità che il dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore sia ancorato ad un criterio certo che soddisfi un’esigenza di conoscibilità di quelle regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.
Ne deriva che entrambe le parti del rapporto di lavoro - compreso dunque anche il datore di lavoro - siano consapevoli, fin dall’instaurazione del predetto rapporto, non solo di quali siano i diritti che ciascuno può far valere, ma anche “fino a quando” è possibile farli valere.
La Corte, nella sentenza in commento, evidenzia come anche per il datore di lavoro sia fondamentale conoscere, fin dall’instaurazione del rapporto, quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti al fine di programmare “una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d'impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino”.
La pronuncia distingue inoltre il “diritto al lavoro” dal “diritto al posto di lavoro”.
Mentre il primo è riconosciuto a tutti i cittadini dalla Costituzione della Repubblica, che ne deve promuovere le condizioni che lo rendano effettivo, il secondo è invece “oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa”.
Nelle situazioni di crisi, ricorda la Corte, la tutela del posto di lavoro può cedere di fronte a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, “inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell'occupazione possibile con la condizione di crisi data”.
Il diritto al lavoro, nell’insegnamento dato dalla Corte Costituzionale, pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione né, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto, costituisce diritto fondamentale di libertà ed impone allo Stato non solo di creare le condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, ma anche di introdurre “garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4)”.
Ai fini di una chiara individuazione del termine di decorrenza della prescrizione, occorre dunque che la stabilità o meno del rapporto di lavoro risulti:
“a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato […];
b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all'esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post (Cass. s.u. 28 marzo 2012, n. 4942; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774)”.
L'individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, perché possa dirsi coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, ribadisce la Corte, non può dipendere da una qualificazione del Giudice effettuata ex post.
Come noto, la riforma operata con la L. n. 92 del 2012 e con il D.Lgs. n. 23 del 2015 ha segnato il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento “ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. "piena" o "forte", ovvero "attenuata" o "debole") assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2)”.
Nonostante gli sforzi della giurisprudenza volti ad estendere i casi in cui può essere disposta la tutela reintegratoria, quest’ultima ormai non costituisce più la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.
Neppure può dirsi che il quadro normativo sia stato modificato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale (del 7.4.2022, n. 125 e del 24.02.2021, n. 59) con le quali è stata “dichiarata l'illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l'insussistenza "manifesta" del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere "può" come "deve"), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59)”.
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione, preso atto del mutato quadro normativo e tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza anche costituzionale, ha ritenuto l’attuale regime delineato dall’art. 18 della L. 300 del 1970 non in grado di assicurare un’adeguata stabilità del rapporto di lavoro con la conseguenza che “la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione "contro ogni illegittima risoluzione" nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava”.
La Corte di Cassazione, a conclusione del suo ragionamento, dopo aver ritenuto di escludere, “per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità”, ha affermato “la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012”.
Per leggere la sentenza integrale:
http://www.lavorosi.it/fileadmin/user_upload/GIURISPRUDENZA_2022/Cass.-sent.-n.-26246-2022.pdf
Con la sentenza del 28 ottobre 2021 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, prima sezione, nell’affaire Succi et autres c. Italie, ha ritenuto che l’approccio della Corte di Cassazione, al momento di valutare l’ammissibilità del ricorso, quando legato ad un rigido ed eccessivo formalismo nell’applicazione dei criteri di redazione dello stesso, configura una violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU, limitando il diritto ad un equo processo per i cittadini.
Con 3 distinti ricorsi (nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/2014) alcuni cittadini italiani hanno adito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, invocando la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, in seguito alla declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Cassazione dei ricorsi da questi proposti.
Secondo i ricorrenti, la Corte di Cassazione avrebbe respinto i loro ricorsi ingiustamente, avendo applicato in modo eccessivamente formalistico i criteri di redazione dei ricorsi previsti dal codice di procedura civile.
Nello specifico, nel ricorso n. 55064/11, il ricorrente ha lamentato che il principio di autonomia, a cui dovrebbe ispirarsi la redazione del ricorso per cassazione (principio di autosufficienza), all’epoca dei fatti, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente.
Tant’è vero che il principio era stato oggetto di un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 8077/2012) necessitato dall’esigenza di chiarire l’applicazione pratica di tale principio.
Qualche anno dopo la medesima esigenza è stata alla base dell’emanazione del ‘Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria’, siglato nel 2015, con l’intento di frenare l’approccio eccessivamente formalistico della Cassazione.
In ultimo, il ricorrente ha censurato l’applicazione che la Corte di Cassazione ha fatto del principio di autonomia, avendolo utilizzato principalmente come un mezzo per limitare l’accesso alla giustizia e ridurre l’arretrato della Corte medesima.
Nella causa n. 37781/13 il ricorrente ha evidenziato il fatto che, nel momento in cui ha presentato il ricorso per cassazione, non esisteva una giurisprudenza su come formulare i quesiti di diritto.
Più in generale, ha lamentato la mancanza di prevedibilità circa l’applicazione dei criteri di redazione del ricorso.
In alcuni casi, i criteri di redazione del ricorso sono stati interpretati dalla giurisprudenza di legittimità in modo ‘flessibile’, limitandosi a chiedere alla parte di presentare tutti gli elementi necessari alla comprensione delle sue allegazioni.
In altri casi, è stata data una lettura ‘più rigorosa’ degli stessi, imponendo un obbligo di trascrizione di ogni documento citato nel ricorso, nonostante il deposito dei documenti nel procedimento di merito.
L’esigenza di chiarire i confini del principio di autonomia ha portato il legislatore ad intervenire con la riforma del 2006 anche al fine di accantonare l’obbligo di trascrizione. L’intervento normativo non è stato però risolutore in quanto parte della giurisprudenza di legittimità ha continuato a richiedere la trascrizione degli atti citati nel ricorso (Cass. nn. 1952/2009; 6397/2010; 10605/2010; 24548/2010; 20028/2011) e ciò anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 8077/2012 e il Protocollo del 2015 (Cass. nn. 15634/2013; 7362/2015; 18316/2018).
Il rigetto del ricorso, secondo il ricorrente, visto il quadro giurisprudenziale e normativo testè delineato, è stato sproporzionato in considerazione del fatto che l’obbligo di riprodurre il contenuto di un documento, già incluso nel fascicolo allegato al ricorso e menzionato dal ricorrente, non poteva essere considerato necessario per la corretta amministrazione della giustizia e la certezza del diritto.
Nel lamentare l’eccessivo formalismo nell’applicazione del principio di autonomia, il ricorrente ha concluso sostenendo di essere stato “victime d’une entrave excessive et disproportionnée à son droit d’accès à un tribunal” (vittima di un’interferenza eccesiva e sproporzionata nel suo diritto di accesso ad un tribunale).
Nel ricorso n. 26049/14 il ricorrente ha lamentato che l’eccessivo formalismo abbracciato dalla Cassazione nell’applicazione dei criteri di redazione del ricorso e che trae il suo fondamento da una giurisprudenza di legittimità troppe volte incerta e contradditoria costituisce un rafforzamento dei meccanismi esistenti di limitazione procedurale dell’accesso alla giustizia.
Nello specifico il ricorrente ha ritenuto violato il suo diritto di accesso alla Corte di Cassazione in quanto l’obbligo di redigere una sintesi dei fatti, obbligo imposto dall’art. 366 c.p.c., quando il contenuto dell’obbligo venga determinato con criteri incerti e poco prevedibili, finisce per costituire un filtro e una barriera procedurale al diritto di accesso alla giustizia del cittadino.
L’obiettivo di garantire una durata ragionevole del procedimento civile, secondo il ricorrente, non può tradursi in un ostacolo all’accesso al tribunale e in una limitazione del diritto a un equo processo.
Nella sentenza in commento la Corte Europea ha preliminarmente richiamato i principi inerenti le limitazioni del diritto di accesso a un tribunale superiore affermati nel caso Zubac, ricordando che il modo in cui l’articolo 6 § 1 si applica alle corti d’appello o di cassazione dipende dalle caratteristiche particolari del procedimento in questione.
Secondo la Corte Europea deve ritenersi legittimo lo scopo perseguito con il principio di autonomia essendo quello di “faciliter la compréhension de l’affaire et des questions soulevées dans le pourvoi et à permettre à la Cour de cassation de statuer sans devoir s’appuyer sur d’autres documents, afin qu’elle puisse préserver son rôle et sa fonction qui consistent à garantir en dernier ressort l’application uniforme et l’interprétation correcte du droit interne (nomofilachia)” (facilitare la comprensione del caso e delle questioni sollevate e permettere alla Cassazione di pronunciarsi senza doversi basare su altri documenti in modo da preservare il suo ruolo e la sua funzione di garantire in ultima istanza l’applicazione uniforme e l’interpretazione corretta del diritto interno - nomofilachia).
La Corte Europea ha ritenuto pienamente ammissibili le restrizioni all’accesso alla Corte di Cassazione determinate dall’applicazione del principio di autonomia anche quando più rigorose di quelle previste per un appello. L’ammissibilità della restrizione trova il suo fondamento anche nella necessità di smaltimento dell’enorme arretrato causato dal notevole afflusso di ricorsi presentati ogni anno davanti alla Corte di Cassazione. Sicuramente il principio di autonomia è in grado di garantire un uso più appropriato e più efficiente delle risorse disponibili.
D’altra parte, le restrizioni all’accesso alla Corte, anche quando giustificate dall’enorme carico di lavoro della Cassazione, difettano del requisito della proporzionalità, se interpretate in modo troppo formale.
L’eccessivo formalismo inevitabilmente finisce per limitare il diritto di accesso ad un tribunale ed incide sulla sostanza stessa di tale diritto.
La Corte Europea ha evidenziato come, con specifico riguardo all’obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso, almeno fino alle sentenze nn. 5698 e 8077 del 2012, vi fosse una tendenza della Corte di Cassazione a concentrarsi su aspetti meramente formali che non rispondono affatto allo scopo legittimo posto a fondamento delle restrizioni.
In relazione ai ricorsi n. 37781/13 e n. 26049/14, la Corte Europea non ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, non avendo la Corte di Cassazione, in tali casi, tenuto un atteggiamento eccessivamente formalistico. La decisione presa dalla Cassazione di dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi è stata presa, afferma la Corte EDU, nel pieno rispetto dello scopo legittimamente perseguito dal principio di autonomia: cioè la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.
Al contrario la Corte Europea ha ritenuto fondato il ricorso n. 55064/11, avendo la Corte di Cassazione in tal caso, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, dato prova di eccessivo formalismo non giustificato alla luce delle finalità proprie del principio di autonomia.
Il ricorso era stato dichiarato inammissibile in quanto non era stato rispettato, secondo la Cassazione, l’obbligo di indicare, per ogni motivo di ricorso, i casi in cui la sentenza di secondo grado era ricorribile per Cassazione.
Eppure, il ricorrente aveva indicato in relazione ad ogni motivo di ricorso gli articoli e i principi di diritto violati, facendo riferimento specifico alle ipotesi previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c.
Da questo punto di vista la Corte Europea ha ritenuto che l’obbligo di specificare il tipo di critica in conformità all’art. 360, comma 1, del c.p.c. fosse stato sufficientemente rispettato.
La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto che il ricorso non menzionasse gli elementi necessari per identificare i documenti citati a sostegno delle critiche formulate.
Mentre, secondo la Corte Europea, il ricorrente aveva trascritto i passaggi pertinenti e aveva fatto riferimento ai documenti fondamentali rendendo così possibile la loro identificazione tra i documenti depositati con il ricorso.
La Corte Europea, nel dichiarare la fondatezza del ricorso n. 55064/11, al momento della liquidazione del danno ‘materiale’, ha ritenuto non fosse suo compito quello di speculare su quale sarebbe stato l’esito del procedimento in assenza della violazione riscontrata, riconoscendo al ricorrente il solo danno morale.
Concludendo, se, da una parte, il contenuto della sentenza può essere condiviso, in quanto la necessità di smaltire l’arretrato giudiziario non può giustificare ogni rigido ed eccessivo formalismo, d’altra parte, il lavoro di sintesi che viene richiesto agli avvocati nella redazione del ricorso consente di spogliare la controversia di tutto ciò che non è più necessario, andando dritto al cuore del motivo di censura, facilitando, in tal modo, il compito del giudice di ultima istanza, oberato nel ruolo.
Difficile essendo trovare una risoluzione al problema nel breve periodo, di questo dovrà sicuramente occuparsi il legislatore colmando le lacune normative evidenziate dalla Corte Europea nella sentenza in commento, in modo da evitare che i contrasti e le oscillazioni della giurisprudenza ricadano sui cittadini.
In ogni caso dovranno essere salvati gli sforzi fatti dalla giurisprudenza di legittimità volti al rafforzamento del principio di autonomia ed autosufficienza del ricorso in quanto, se è pur vero che è importante l’accesso alla giustizia (nei limiti in cui due gradi di giudizio sono stati comunque assicurati), ancor più importante è che tale accesso, a causa dell’enorme contenzioso arretrato, non venga ritardato talmente in là nel tempo da diventare del tutto inutile.
Per leggere il testo integrale clicca qui: https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-212667%22]}
L’attore, deducendo di essere stato investito da un autoveicolo poi risultato rubato ed il cui conducente non è stato identificato, conviene in giudizio la Società designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada al fine di chiedere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza del sinistro stradale.
La domanda, rigettata in primo grado, viene accolta dalla Corte d’Appello che, in relazione alla quantificazione, applicando le Tabelle di Milano, liquida il danno aumentando l’importo riconosciuto per invalidità permanente del 25 % , a titolo di ‘personalizzazione’, sul presupposto della “indubbia impossibilità (per la vittima) di cimentarsi in attività fisiche”, e riconosce altresì un’ulteriore somma a titolo di danno morale, ritenendo che le sofferenze di natura interiore e non relazionale fossero meritevoli “di un compenso aggiuntivo” al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi.
La sentenza d’appello viene impugnata per cassazione dalla Società.
Questa è la vicenda dalla quale ha preso le mosse la ormai nota pronuncia della Corte di Cassazione del 10 novembre 2020, n. 25164.Sembra il ‘tipico’ caso di risarcimento danni alla persona, eppure, il medesimo ha fornito alla Corte l’occasione per evidenziare alcuni profili opinabili delle Tabelle milanesi.
Le questioni affrontate
Nella pronuncia ora citata, è la stessa Corte a premettere che i motivi di ricorso proposti dalla Società avevano posto tre delicate questioni di diritto, di rilievo nomofilattico:
La personalizzazione del danno
Per quanto riguarda la prima questione, la pronuncia sembra porsi in continuità con la giurisprudenza più recente.
Viene, infatti, ribadito che la personalizzazione del risarcimento del danno alla salute consiste in una variazione in aumento (o, in astratta ipotesi, in diminuzione) del valore standard del risarcimento, per tenere conto delle specificità del caso concreto. Queste devono consistere “in circostanze eccezionali e specifiche”, con la conseguenza che “non può essere accordata alcuna variazione in aumento del risarcimento standard previsto dalle "tabelle" per tenere conto di pregiudizi che qualunque vittima che abbia patito le medesime lesioni deve sopportare, secondo l'id quod plerumque accidit, trattandosi di conseguenze già considerate nella liquidazione tabellare del danno” (cfr. Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 10912/2018, Cass. n. 23469/2018, Cass. n. 27482/2018 e, da ultimo, Cass. 28988/2019).
Nel casodi specie – secondo la Cassazione - la Corte territoriale aveva accordato la personalizzazione affermando che “non si rinvengono in atti elementi utili che consentano di altrimenti valutare in termini economici la perdita di capacità di lavoro, sia generica che specifica” e che la vittima si trova nella “indubbia impossibilità di cimentarsi in attività fisiche”, e ritenendo di dover considerare tale circostanza quale elemento per la personalizzazione nell’ambito del danno biologico.
Orbene, così facendo, secondo la Corte, il Collegio di merito sarebbe incorso in un duplice errore di diritto: da un lato, non avrebbe considerato che la personalizzazione del danno - come si è già poc’anzi rammentato - deve trovare giustificazione nel positivo accertamento di specifiche conseguenze eccezionali, ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione, e che non potrebbe costituire lo strumento per ovviare alla carenza di prova in punto di danno alla capacità lavorativa (tanto più che la lesione alla capacità di lavoro generica è ricompresa nell’ambito delle conseguenze ordinarie del danno alla salute e quella relativa alla capacità lavorativa specifica, da valutarsi nell’ambito del danno patrimoniale, esula dalla sfera del danno biologico). Dall’altro, la Corte avrebbe liquidato due volte il pregiudizio relativo all’impossibilità di compiere determinati atti fisici, dapprima a titolo di danno alla salute e, poi, a titolo, appunto, di personalizzazione, seppure in difetto, come detto, dell’indicazione di circostanze specifiche ed eccezionali.
Il danno morale
La Corte ribadisce, poi, il principio, più volte condiviso nelle precedenti pronunce, dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico.
Si rammenta che, con tale espressione, si fa riferimento ad un pregiudizio di natura del tutto interiore e non relazionale e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi (Cass. n. 910/2018, Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 28989/2019). Si tratta, infatti, di un danno che:
- non è suscettibile di accertamento medico – legale;
- si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore che prescinde dalle vicende dinamico – relazionali della vita del danneggiato.
Le indicazioni ‘operative’ fornite dalla Suprema Corte
Su tali premesse, ecco, allora, che la Corte fornisce le linee – guida che il giudice di merito dovrà seguire nel procedere alla liquidazione del danno alla salute:
La prova del danno morale
Come può, allora, il danneggiato dimostrare il danno morale?
A questo riguardo, la Corte ha ribadito che, venendo in rilievo il pregiudizio ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo e può costituire anche l'unica fonte di convincimento del giudice.
Resta comunque fermo l’onere del danneggiato di allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti, al fine di consentire di risalire al fatto ignoto.
Oggetto di tale onere di allegazione sono i fatti primari, ovvero i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno; con specifico riguardo alle conseguenze pregiudizievoli causalmente riconducibili alla condotta, “l’attività assertoria deve consistere nella compiuta descrizione di tutte le sofferenze di cui si pretende la riparazione”.
Secondo la Corte, ad un così puntuale onere di allegazione non corrisponde un onere probatorio parimenti ampio, alla luce, anche, e soprattutto, della dimensione eminentemente soggettiva del danno morale.
Da qui la possibilità di provare il danno morale anche mediante massime di esperienza che consentirebbero di evitare “che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito”.
Del resto, lo stesso sistema delle tabelle per la liquidazione del danno alla salute si basa su un ragionamento presuntivo fondato sulla massima di esperienza per la quale ad un certo tipo di lesione corrispondono determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie.
I primi ‘effetti’ della pronuncia
Come è noto, nel nostro ordinamento – il solo in Europa – coesistono più tabelle di liquidazione del danno alla persona, con la conseguenza che i risarcimenti concessi dai vari giudici possono essere diversi a seconda delle tabelle applicate.
Per oltre un decennio, quelle di Milano hanno costituito lo strumento per mezzo del quale si è tentato di dare certezza al risarcimento del danno; si tratta, infatti, delle tabelle più diffuse sul territorio nazionale ed era quindi prevedibile che la sentenza della Cassazione qui esaminata catturasse sin da subito l’attenzione di dottrina e giurisprudenza.
A questo proposito, si segnala la sentenza del Tribunale di Torino n. 4423 del 10 dicembre 2020 nell’ambito della quale il Tribunale, seguendo espressamente l’insegnamento della Corte di Cassazione, ha ritenuto che “non può essere riconosciuta alcuna personalizzazione, mancando la prova di “specifiche conseguenze eccezionali, ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione, e tali da incidere in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati ed obiettivamente accertati (v. art. 138 CdA)”.
Per completezza, si fa presente che anche la medesima Corte di Cassazione ha avuto modo di richiamare la pronuncia n. 25164/2020, ribadendo che “questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (…) da ultimo Cass. n. 25164 del 2020)” (Cass. 10 febbraio 2021, n. 3310; in precedenza anche Cass. 13 gennaio 2021, n. 460).
Quel che è certo che il ribollire di problemi in materia di danno morale non pare essere finito.
Intanto, in date 8 - 10 marzo 2021, l’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano ha pubblicato la versione aggiornata delle Tabelle con i relativi Criteri applicativi che espressamente tengono conto, oltre che degli indici ISTAT, anche della “rivisitazione resasi necessaria a seguito dei recenti orientamenti della Cassazione”.
Ecco, allora, che, per mezzo di quello che viene chiamato un “ritocco della veste grafica della Tabella”, si è cercato di contrastare la pratica, emersa nella prassi, ma non in linea con l’andamento affermatosi in sede di legittimità, di liquidare il danno alla salute attenendosi alla somma indicata nella tabella senza esplicitare gli “specifici pregiudizi dinamico – relazionali e sofferenziali accertati e liquidati”.
L’Osservatorio ribadisce, infatti, che l’applicazione degli importi indicati nella Tabella esprime esercizio del potere di liquidazione equitativa del giudice e, pertanto, attiene alla fase del quantum debeatur, atteso che la medesima applicazione non esonera affatto il giudice dall’obbligo di motivazione in ordine al preventivo - e necessario – accertamento dell’an.
Viene poi previsto un nuovo modello di quesito medico legale, nell’ambito del quale si chiederà al consulente di offrire al Giudice tutti quegli elementi utili per accertare non solo l’entità del danno biologico/dinamico – relazionale temporaneo e permanente, ma anche il grado di sofferenza c.d. menomazione-correlata,cioè la sofferenza soggettiva interiore correlata alla lesione dell’integrità psicofisica. Restano escluse dalla pronuncia del consulente tecnico le componenti della sofferenza interiore che “non hanno base organica”, quali il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione.
Altra novità è, poi, l’elaborazione di “Criteri orientativi per la liquidazione del danno da mancato/carente consenso in ambito sanitario”, all’esito dell’analisi dei dati raccolti dall’Osservatorio da oltre un centinaio di sentenza.
Del resto, la liquidazione di tale danno non può livellarsi su quella del danno alla salute. Si rammenta, infatti, a questo proposito, che “la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute (…); nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute” (cfr., in questo senso, Cass., 11 novembre 2019, n. 28985). Si tratta, dunque, di un diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute (Cass. del 23 marzo 2021, n. 8163).