Il Tribunale ordinario di L’Aquila con ordinanza n. cronol. n. 233 del 17/01/2024, ha disposto, ai sensi del nuovo art. 363 - bis c.p.c., il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione della questione relativa all’ammissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, nonché quella relativa all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto.

Alla data di pubblicazione di questo commento, la Prima Presidente non si è ancora pronunciata sul rinvio pregiudiziale, dichiarandolo, o meno, ammissibile.

I fatti di causa

La controversia nasce in seguito all’impugnazione davanti al Tribunale di L’Aquila da parte del Ministero dell’Economia e Finanze e da parte del Demanio degli atti di rinuncia dei signori T.S. e T.M. alla proprietà di alcuni terreni siti nel Comune di Bomba ormai sostanzialmente inservibili e privi di reale valore economico, in quanto sottoposti a Vincolo di Pericolosità elevata P2 - del PAI (Piano di Assetto Idrogeologico), redatto dalla Regione Abruzzo ai sensi dell’art. 17, co. 6 ter, della L. 183/89, dell’art. 1, co. 1, del D.L. 180/98, conv. con mod. dalla L. 267/98, e dell’art. 1 bis del D.L. 279/2000, conv. con mod. dalla L. 365/2000.

Le amministrazioni attrici hanno agito al fine di ottenere la declaratoria di nullità, invalidità e, in ogni caso, di inefficacia nei confronti dello Stato degli atti di rinuncia posti in essere dai convenuti, rilevando, in via principale, l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una generica facoltà di rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare e, in via subordinata, comunque la nullità della rinuncia, attesa la non meritevolezza e/o illiceità della causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c.

Rilevata la sussistenza dei presupposti previsti per l’applicazione dell’art. 363 - bis c.p.c., norma recentemente introdotta dal d.lgs. 149/2022, il Tribunale di L’Aquila con l’ordinanza in commento ha rimesso gli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione delle questioni sollevate.

Due gli orientamenti a confronto

La questione relativa all’amissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, per il giudice abruzzese, è di assoluta novità, non essendo stata mai direttamente affrontata dalla Corte di Cassazione.

Il tema è stato solo incidentalmente toccato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 2 del 20 gennaio 2020 in tema di espropriazione per pubblica utilità e dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 1907 del 4 marzo 1997 in tema di risarcimento del danno da occupazione appropriativa.

Nell’ordinanza in commento, il Tribunale aquilano ha ricostruito l’annoso dibattito dottrinario e giurisprudenziale sorto intorno alla questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare.

L’orientamento favorevole, facendo leva sugli artt. 827, 1118, co. 2, 1350, n. 5, e 2643, n. 5, c.c., configura la rinuncia come “un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette una situazione giuridica di cui è titolare, ovvero un diritto del suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso”.

Da questo punto di vista, la rinuncia abdicativa, non producendo alcun effetto traslativo-derivativo si differenzia dalla rinuncia c.d. traslativa, propria delle fattispecie di c.d. abbandono liberatorio di cui agli artt. 1170, 882, 550 e 1004 c.c., in quanto in quest’ultima ipotesi la rinuncia alla proprietà non ne produce la ‘vacanza’, passando la titolarità del bene in capo, ad es., al proprietario del fondo dominante o al proprietario confinante, agli altri eredi o agli altri comproprietari.

A sostegno dell’orientamento favorevole milita l’art. 827 c.c., che, nel disciplinare i c.d. beni immobili vacanti, sottende la possibilità che possano esistere beni immobili privi di proprietario.

Non si tratterebbe di una norma residuale finalizzata cioè a dare copertura a fattispecie imprevedibili ed estreme, ma, secondo quanto riportato nell’ordinanza in commento, “esprimerebbe piuttosto un principio cardine del sistema, che prevede l’intervento dello Stato laddove non sia esigibile la prestazione richiesta al singolo privato”. Il medesimo principio opera anche in materia successoria laddove, in mancanza di successibili, l’eredità, in forza dell’art. 586 c.c., anche quando comprensiva di beni immobili, viene devoluta allo Stato.

Sempre in favore di tale orientamento vi è poi l’art. 1350 c.c. che al n. 5 del comma 1 prevede tra gli atti che devono essere fatti per iscritto “gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti”, tra cui vi rientrerebbe anche “la proprietà di beni immobili”.

Al contrario, secondo l’orientamento che nega l’ammissibilità nel nostro ordinamento alla rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, il n. 5 dell’art. 1350, co. 1, c.c. “dovrebbe riferirsi comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante”.

Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643, n. 5, c.c. che non intende richiamare i diritti in sé, ma quelli nascenti da determinati contratti.

Secondo l’orientamento favorevole, anche il disposto dell’art. 1118, comma 2, c.c. propende per l’ammissibilità del negozio di rinuncia in quanto nel prevedere che “il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”, indirettamente ammette che una rinuncia, in linea generale, sia invece possibile.

Al contrario, per l’orientamento che nega l’ammissibilità della rinuncia, la previsione dell’art. 1118, co. 2, risulta controbilanciata dal principio opposto stabilito dall’art. 1104, co. 1, c.c. che impone a ciascun partecipante di “contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune… salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”.

In tal caso, la rinunzia, però, non renderebbe il bene acefalo in quanto “si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune”.

Il medesimo principio è ribadito anche al comma 2 dell’art. 882 c.c. in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune.

L’inammissibilità della rinuncia abdicativa deriverebbe dal fatto che “in tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso, comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario”.

La “causa in concreto” dell’atto di rinuncia

L’ordinanza in commento prosegue poi esaminando il diverso problema dell’individuazione del perimetro di sindacabilità dell’atto di rinuncia da parte dell’Autorità giudiziaria e, più in particolare, se l’atto unilaterale in questione possa ritenersi compatibile con i concetti di causa concreta e meritevolezza degli interessi.

Anche su tale questione si è registrato un contrasto in dottrina, tra chi ritiene che la rinuncia debba esprimere, ai fini della sua validità, “un interesse meritevole di tutela” e chi invece ritiene che non sia necessario che l’atto unilaterale in questione presenti “il requisito ulteriore di essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, come invece richiesto per i contratti atipici dall’art. 1322 comma II c.c.”.

Secondo una prima impostazione, ai fini della validità della rinuncia abdicativa, è necessario che il raggiungimento dell’effetto tipico della rinunzia, ovverosia “la perdita del diritto”, si accompagni adelementi di giustificazione economico-sociale.

Non sarebbe possibile, dunque, per il privato rinunciare al diritto di proprietà “al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex art. 827 c.c. - e dunque in capo alla collettività intera - i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale, come nel caso di cui all’art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile”.

Con la conseguenza che, in tal caso, l’atto di rinuncia deve ritenersi nullo in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c. ponendosi “in palese contrasto con le istanze solidaristiche immanenti nella funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost., e (comunque) con gli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’art. 2 Cost., nonché con il limite del rispetto della sicurezza dei consociati ex art. 41, comma II, Cost., l’una e gli altri costituenti limite inderogabile delle prerogative dominicali ex art. 832 c.c. (cfr. T.A.R., Lombardia, 18.12.2020, n. 2553; T.A.R. Piemonte - Torino, Sez. I, 28.03.2018, n. 368; Trib. Ancona, Sez. I, 15.06.2021, n. 771; Trib. Genova, ord. 05.02.2019)”.

Secondo altro orientamento, l’atto di rinuncia abdicativa sarebbe incompatibile con la disciplina propria della causa, “non avendo il legislatore imposto alcun controllo espresso su tale atto di autonomia privata non si porrebbe, dunque, né un problema di valutarne la tipicità, né la necessità di accertarne la funzione economico-sociale, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra soggetti diversi”.

Il richiamo alla funzione sociale di cui all’art. 42, co. 2, Cost., per tale orientamento, sarebbe inconferente non risultando alcuna disposizione legislativa generale che preveda una limitazione al potere dispositivo espressamente riconosciuto al proprietario dall’art. 832 c.c.

Il legislatore quando ha voluto porre limiti alla facoltà del proprietario di rinunciare alla proprietà privata di immobili lo ha espressamente disciplinato nella fattispecie normativa, come nel caso dell’art. 1118, co. 2, c.c.

Secondo tale impostazione, la funzione sociale del diritto di proprietà, in assenza di una puntuale disposizione di legge, “non potrebbe spingersi al punto tale da impedirne la rinuncia al titolare, rendendo di fatto il soggetto ‘prigioniero’ del suo diritto”.

Il fine o il motivo legato alla convenienza economica ovvero al risparmio di spesa non può rientrare nel concetto di causa illecita, non sussistendo “una norma che imponga al privato di essere generoso e altruista nella gestione dei propri affari”.

In conclusione, secondo tale orientamento “la rinuncia abdicativa non diverrebbe di per sé illegittima perché posta in essere in base a mere valutazioni di convenienza e opportunità, peraltro riscontrabili in maniera analoga nelle fattispecie di cui agli artt. 1104 e 1070 c.c. (cfr. Trib. Firenze, 15.09.2022, n. 2529, secondo cui “Al contrario, risulta invece conforme ai principi solidaristici che, in presenza di un terreno con elevata pericolosità geomorfologica, che determina una situazione di rischio per la circolazione su strada pubblica, utilizzata quindi dalla collettività, in conseguenza della rinuncia alla proprietà da parte del privato, i costosi interventi di messa in sicurezza siano finanziati con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario, del resto neppure colpevole per la conformazione del luogo e la composizione del suolo”; in senso conforme Trib. L’Aquila, 10.10.2023, n. 623; Trib. L’Aquila, 23.10.2023, n. 656; Trib. L’Aquila, 27.10.2023, n. 682)”.

Sulla base di tutto quanto sopra esposto, il Tribunale di L’Aquila, ritenendo le questioni sopra illustrate suscettibili di porsi in numerosi altri giudizi, ha sospeso il procedimento ed ha disposto, ai sensi dell’art. 363 - bis, co. 2 c.p.c. il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione.

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Per un approfondimento leggi anche:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza, 20 gennaio 2020, n. 2;

Con la sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023 la Cassazione ha enunciato importanti principi di diritto in tema di giusto salario minimo costituzionale.

In particolare, la Corte ha affermato che nel giudizio di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost., il giudice deve fare riferimento, in via preliminare, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale, però, può discostarsi, dandone motivazione, quando la stessa non sia rispettosa dei principi di “proporzionalità” e “sufficienza” della retribuzione dettati dalla Costituzione, e ciò anche quando il rinvio alla contrattazione collettiva sia contemplato in una legge. Per la valutazione, il giudice può servirsi, a fini parametrici, del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di “settori affini” o per “mansioni analoghe”, potendo altresì fare riferimento all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea.

I fatti di causa

M.A., dipendente di Servizi Fiduciari Soc. Coop. (già Sicuritalia Servizi Fiduciari Soc. Coop), agiva in giudizio per ottenere il diritto all'adeguamento delle retribuzioni percepite, ritenuta la non conformità ai parametri dell'art. 36 Cost. del trattamento retributivo applicato, anche ai sensi della L. n. 142 del 2001, art. 3, comma 1, e L. n. 31 del 2008, art. 7, corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione Servizi Fiduciari del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari dell'1/2/2013.

Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta da M.A., accertava il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del CCNL dei dipendenti di proprietari di fabbricati, condannando la datrice di lavoro Servizi Fiduciari al pagamento delle differenze retributive.

La Corte d'appello di Torino riformava la sentenza di primo grado accogliendo l'appello proposto dalla datrice di lavoro. Per il giudice di secondo grado, devono ritenersi esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Cost. quei rapporti di lavoro che, come nel caso di specie, sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Poiché la Cooperativa Servizi Fiduciari aveva applicato ai propri dipendenti il CCNL Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, contratto attinente al settore di operatività del lavoratore e stipulato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale, la domanda del lavoratore doveva essere rigettata. Secondo la Corte di appello “la retribuzione stabilita dalla norma collettiva acquista, sia pure solo in via generale, una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche del contratto collettivo anche negli interni rapporti fra le singole retribuzioni”. Solo in tal modo può essere valorizzato il principio dell'autonomia sindacale art. 39 Cost., co. 4, a cui la contrattazione collettiva è demandata in via esclusiva. Rimettere invece al giudice il potere di sindacare i livelli retributivi al fine di scegliere quello più alto, per il giudice di secondo grado, non risulta coerente con l'attuale sistema contrattuale. 

Contro la sentenza della Corte d’appello di Torino M.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi.

I principi costituzionali della ‘sufficienza’ e della ‘proporzionalità’ della retribuzione.

Con la sentenza in commento n. 27711 del 2 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore ritenendo fondati tutti e 5 i motivi di impugnazione.

La decisione della Corte d’appello, secondo la Cassazione, discostandosi dall’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato principi contrastanti con quelli che regolano la materia del salario minimo costituzionale fissato dall'art. 36 Cost.

La Costituzione garantisce due diritti distinti al lavoratore che si integrano a vicenda nella concreta determinazione della retribuzione e che sono:

  • il diritto ad una retribuzione “proporzionata” che garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata”;
  • il diritto ad una retribuzione “sufficiente” che invece dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standard minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo”, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.

Il primo stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, il secondo “un limite negativo, invalicabile in assoluto”. Le due valutazioni costituiscono le direttrici sulla cui base il Giudice deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.

Ai fini della valutazione non basta fare riferimento al valore soglia di povertà assoluta calcolato ogni anno dall'Istat sulla base di “un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia”, dovendo il trattamento economico essere orientato “non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all'interno dell'Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”)”.

A tale scopo vengono in rilievo i principi di sufficienza e di proporzionalità che mirano a garantire al lavoratore una vita che sia “non solo non povera ma persino dignitosa”. La verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, attraverso il confronto con il livello Istat di povertà assoluta, non può dunque esaurire l'oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell'art. 36 Cost, in quanto tale indice, afferma la Cassazione, “non è di per sé indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo altresì rispettare l'altro profilo della proporzionalità”. La determinazione del quantum del salario costituzionale, continua la Corte, deve essere “improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettivaritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità”. Il lavoratore che chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto. In mancanza, la retribuzione corrisposta nella misura prevista in relazione alle mansioni esercitate dal contratto collettivo del settore “si presume adeguata e sufficiente”.

L’intervento correttivo del Giudice, a tutela della precettività dell’art. 36 Cost., è ammesso anche sulla stessa contrattazione collettiva. Tant’è vero che il giudice del merito, ai fini della valutazione di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost., gode di un’ampia discrezionalità “potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione”. Nel discostarsi da quanto previsto dai contratti collettivi, il giudice è tenuto, però, ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione giacché sottolinea la Cassazione, “difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”. In ogni caso, si è affermato che il riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria costituisce una facoltà per il giudice e non un obbligo inderogabile, fatto ovviamente salvo l'onere della motivazione conforme. Il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e fondare la pronuncia ad es. sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi (es. dimensioni o localizzazione dell'impresa, specifiche situazioni locali o qualità della prestazione offerta dal lavoratore). Tra i parametri presi a riferimento dalla giurisprudenza, oltre alla soglia di povertà calcolata dall'Istat, sono stati utilizzati ad es. l'importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l'accesso alla pensione di inabilità e l'importo del reddito di cittadinanza; tutte forme di sostegno al reddito che, secondo la Corte di Cassazione, “fanno però riferimento a disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione nei termini prima indicati”.

La Direttiva Europea sul salario minimo.

Alla luce dell’integrazione del nostro ordinamento a livello Europeo ed internazionale, la valutazione di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost deve oggi avvenire anche considerando le indicazioni sovranazionali.

Recentemente è intervenuta la Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa proprio ai salari minimi, dei cui contenuti il giudice interno deve tenere conto ai fini del giudizio di conformità ai sensi dell’art. 36 Cost. La Direttiva in più di una disposizione conferma come valido il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali (v. considerando n. 28 in cui si afferma che “un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso”; “quanto al livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato - che "oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”).

La Corte nella sentenza in commento ha ricordato che l’Italia non ha ratificato la convenzione OIL n. 131/1970 che da quasi un secolo prevede l'introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali " mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi" (art. 1). Sempre in tema di giusta retribuzione sono state dettate altre disposizioni dall'art. 4 della Carta sociale Europea e dagli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Il punto 6, lettera a) del Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017 “prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso, mentre la lettera b) “impegna all'implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia”. L’obiettivo dichiarato dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 è quello della “convergenza sociale verso l'alto” dei salari minimi, in quanto la salvaguardia e l'adeguamento dei salari minimi "contribuiscono a sostenere la domanda interna".

La portata generale delle Tabelle Salariali previste dai contratti collettivi.

Secondo una elaborazione giurisprudenziale che dura oramai da oltre 70 anni, il giudice chiamato ad adeguare il trattamento retributivo all'art. 36 Cost. ai fini della determinazione del giusto corrispettivo può fare riferimento alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, in quanto questi ultimi fissando “standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, una efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute”.

La Corte precisa che il riferimento al salario previsto nel CCNL integra, però, solo una “presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario” e che “attraverso questo sistema si è pure temperata, in concreto, in mancanza dell'attuazione dell'art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già richiamata sentenza delle Sez. Unite n. 2655/1997, secondo cui l'ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare”.

È consentito al lavoratore di appellarsi ad un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l'applicazione bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto. L'oggetto dell'intervento giudiziale può riguardare non solo “il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”.

Le cause del ‘Lavoro povero’ e della ‘povertà nonostante il lavoro’.

La Cassazione, pur ribadendo l’importante ruolo svolto dalla contrattazione collettiva nella determinazione della giusta retribuzione, nella sentenza in commento ha messo in evidenza alcune problematiche che nel corso degli anni hanno interessato le organizzazioni sindacali e che hanno contribuito ad indebolire la posizione dei lavoratori.

In particolare, tra le varie problematiche segnalate, vi sono:

a) “la frammentazione della rappresentanza e la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di "contratti pirata")”;

b) “la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie”;

c) “la conseguente proliferazione del numero dei CCNL - Il CNEL ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbero stati stipulati da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti”;

d) “la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro e la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi;

e) “il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai cambiamenti economici (l'ultimo Report del CNEL denuncia come scaduti 563 contratti del settore privato, pari al 60%);

f) “una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari”.

I fattori suindicati (ed in particolare la molteplicità dei contratti all'interno della stessa contrattazione collettiva)rileva la Corte di Cassazione, avendo innescato una concorrenza salariale ‘al ribasso’, sono responsabili di ciò che viene notoriamente definito ‘lavoro povero’ o ‘povertà nonostante il lavoro’. La contrattazione collettiva, quale espressione della libertà sindacale e necessaria per la tutela dei diritti collettivi dei lavoratori, rileva la Cassazione, “può entrare in tensione con il principio dell'art. 36 Cost., che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro”. Dopo aver ricordato “la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale” (principio garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo), la Cassazione precisa che “nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere” e questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che mai deve tradursi, in un fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale. Un esempio delle problematiche sopra evidenziate è fornito proprio dall’esperienza riguardante i lavoratori c.d. rider (v. circolare del Ministero del lavoro del 19.11.2020). La presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o per nulla rappresentativi, ha costituito un fattore di destabilizzazione in grado di mettere in discussione l'attitudine alla parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende.

In uno stato di mancata attuazione dell'art. 39 Cost. non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario.

La Cassazione, nella sentenza in commento, dopo aver ribadito la validità della regola in forza della quale sussiste una “presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale” e chiarito, però, che la stessa opera non solo “in mancanza di una specifica contrattazione di categoria”, ma anche “nonostante una specifica contrattazione di categoria”, ha affermato altresì che “non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell'attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in uno stato di mancata attuazione dell'art. 39 Cost)”.

I principi di “sufficienza” e “proporzionalità” della retribuzione costituiscono limiti alla stessa autonomia negoziale collettiva e ciò perché la nostra Costituzione non ha accolto una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro “come prezzo di mercato”, ma come “retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all'autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi”.

Fermo il rispetto della riserva di competenza attribuita alla contrattazione collettiva, quale autorità salariale massima, la Cassazione ribadisce che poiché i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione hanno contenuti “(anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall'esterno nella determinazione del salario” sono gerarchicamente sovraordinati sia alla legge che alla stessa contrattazione collettiva.

Una legge ‘sul salario legale’?

L’aporia tra il trattamento retributivo previsto nella contrattazione collettiva e i contenuti precettivi dell'art. 36 Cost. può “prodursi anche per il tramite di una legge che rinvii alla contrattazione; e come tale contraddizione non sia del tutto idonea ad essere risolta con il solo sostegno alla contrattazione nazionale maggiormente rappresentativa (come ad es. nella L. n. 142 del 2001, e nella L. n. 31 del 2008); non potendosi mai escludere che il trattamento retributivo erogato in forza della stessa possa attestarsi nel caso concreto al di sotto del minimo costituzionale”. La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone in ogni caso in cui il giudice è chiamato a sindacare il salario applicato ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l'applicazione. In ultima analisi la Cassazione rileva come nel nostro ordinamento una legge sul 'salario legale' non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva. Il rinvio deve essere inteso nel quadro costituzionale che impone un minimo invalicabile nel caso concreto. Non potendo il giudice abdicare alla sua funzione di controllo, si pone comunque il problema dell'orientamento della sua discrezionalità motivata, in relazione all'applicazione di una norma costituzionale a contenuto generale direttamente applicabile nei rapporti inter partes ed inoltre il tema della ricerca di un quid pluris congruo e funzionale allo scopo, rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola contrattazione, che si riveli in concreto inappagante.

Il riferimento anche ad altri contratti collettivi di “settori affini” e per “mansioni analoghe”.

Venendo al caso di specie, rileva la Corte, come proprio in virtù dell'applicazione allo stesso lavoratore ricorrente, da un cambio di appalto all'altro, di CCNL sempre diversi e peggiorativi - sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative - si è prodotto il risultato di una diminuzione della retribuzione pur nell'identità dell'attività di lavoro svolta da esso e dalla stessa datrice di lavoro. Nel corso del tempo al lavoratore ricorrente sono stati applicati diversi CCNL pur svolgendo egli sempre il medesimo lavoro nell'ambito dell'appalto "Carrefour". La Cassazione, dopo aver rilevato che la Corte d’appello non aveva svolto alcun giudizio comparatistico, ha ricordato, nel rimandare al giudice del rinvio, che nella determinazione del giusto salario ai sensi dell'art. 36 Cost. (a fronte di una pluralità di contratti collettivi ma anche di un unico contratto collettivo) il giudice è chiamato ad adoperare una griglia di criteri comparativi, “avendo come punto di partenza la contrattazione collettiva, e potendo fare riferimento anche a contratti di settore e categorie affini relativamente alle analoghe mansioni in concreto svolte”.

I principi di diritto enunciati nella sentenza in commento

In ultima analisi, la Corte di Cassazione ha enunciato i seguenti principi di diritto:

  • "Nell'attuazione dell'art. 36 Cost., il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata";
  • Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe”;
  • Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost., il giudice, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099 c.c., comma 2, può fare altresì riferimento, all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022”.

Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui: https://www.giuslavoristi.it/agi_cms/public/news/1_99.pdf

Per leggere il testo della Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea clicca qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX%3A32022L2041

Sullo stesso tema, v. la sentenza della Cassazione n. 27713/2023 pubbl. il. 2/10/2023 al seguente link: https://www.cortedicassazione.it/it/civile_dettaglio.page?contentId=SZC10110

Con l’ordinanza n. 26493 del 14 settembre 2023, la Corte di Cassazione è tornata sul tema del frazionamento giudiziale del credito chiarendo la portata dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite nella precedente sentenza n. 4090 del 16 febbraio 2017.

I fatti di causa e il giudizio di merito

Il giudice di pace di Napoli, accogliendo l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 645 c.p.c. da un condomino, revocava il decreto ingiuntivo ottenuto da un avvocato per i compensi professionali maturati per le prestazioni svolte quale difensore del Condominio. L’opposizione veniva accolta avendo il professionista abusivamente proceduto alla parcellizzazione della domanda giudiziale depositando tre distinti ricorsi monitori. Era stato così realizzato un illegittimo frazionamento giudiziale del credito.

Il Tribunale di Napoli, nella veste di giudice di secondo grado, esclusa la sussistenza di un interesse del professionista alla trattazione separata – stante la vicinanza temporale dei diversi ricorsi proposti –, rigettava l’appello riconducendo la condotta posta in essere dall’avvocato nella categoria “dell’abuso del diritto”.

Il giudizio davanti alla Corte di Cassazione

Avverso la sentenza di secondo grado il professionista ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che i diversi giudizi in cui aveva rappresentato il Condominio non costituivano un'unica prestazione professionale, ma si articolavano in distinte attività giudiziarie che escludono il frazionamento di un unico credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, e legittimano, invece, il ricorrente al compenso per l'attività professionale esercitata limitatamente a ciascuna specifica controversia, quand'anche l'incarico fosse stato unico”.

Il ricorrente lamentava altresì che, nel caso di parcellizzazione giudiziale dei crediti, la sanzione non può consistere nell'inammissibilità delle domande giudiziali, ma semmai nella revoca del decreto ingiuntivo e delle spese giudiziali con esso liquidate, rendendosi comunque necessaria una pronuncia sul diritto di credito al compenso professionale maturato.

Nello specifico, per il professionista poteva dirsi sussistente l’interesse ad una tutela processuale frazionata stante l'assenza di un accordo riguardante il compenso per le singole attività defensionali ovvero per l'incarico professionale unitario.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in commento del 14 settembre 2023, n. 26493 ha rigettato il ricorso, ritenendo, in particolare, il motivo riguardante il frazionamento del credito in plurime richieste giudiziali del tutto infondato.

Nella motivazione la Corte, dopo aver ricordato il principio di diritto espresso nella sentenza n. 4090 del 16 febbraio 2017 dalle Sezioni Unite (secondo cui “le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata”), ne ha chiarito la portata specificando il significato da attribuire ai concetti di ‘medesimo rapporto di durata’ e ‘medesimo fatto costitutivo’.

L'espressione “medesimo rapporto di durata” va letta “in senso storico/fenomenologico”, con il significato di “relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia”.

Così, per l'espressione “medesimo fatto costitutivo”, l'aggettivo medesimo va inteso come sinonimo di analogo (e non di identico) e, comunque, “non come fatto costitutivo delle singole pretese ai sensi dell'art. 1173 c.c., configurandosi in tal caso il medesimo diritto di credito, ma come fatto storico che, seppur diverso, abbia però la stessa natura di quello che, nell'ambito del rapporto tra le parti, sia stato già dedotto in giudizio: l'uno e l'altro, quindi, costitutivi di più crediti ontologicamente distinti (pur se riconducibili allo stesso rapporto tra le parti, ma tra loro giuridicamente simili”.

Alla luce delle predette chiarificazioni, con riferimento al caso di specie, la Cassazione, nell’ordinanza in commento, ha affermato che “l'asserita mancanza di un accordo negoziale non rende, di per sé, indispensabile il frazionamento” rilevando in ogni caso “il dato fattuale della riconducibilità ed omogeneità dei singoli incarichi nell'ambito di una relazione unitaria svoltasi nel tempo”.

A conclusione del ragionamento la Corte di Cassazione ha poi affermato che si configura frazionamento abusivo nel caso “in cui le pretese creditorie separatamente azionate siano riconducibili a fatti costitutivi storicamente distinti che si sono verificati nel contesto di un rapporto di durata tra le parti anche se non ha avuto origine nella stipulazione di un contratto che ne regolasse gli effetti: (quanto meno) tutte le volte in cui si tratti di fatti che, seppur distinti, sono tra loro simili (come l'esecuzione di distinti incarichi professionali ovvero di distinte forniture) e, in quanto tali, idonei a costituire, tra le stesse parti, diritti di credito giuridicamente eguali. In tali (e in altre simili) ipotesi, infatti, la contemporanea sussistenza di crediti giuridicamente eguali, che siano riconducibili (come pretendono le Sezioni Unite) nell'ambito di un "rapporto" che, nel corso del tempo, si sia venuto a determinare (pur se in via di mero fatto) tra le stesse parti, ne impone la deduzione (ove esigibili) nello stesso giudizio (salvo che l'attore non abbia, e da ciò non può prescindersi, un oggettivo interesse alla loro tutela frazionata: cfr. testualmente, Cass. 24371/2021)”.

Infine, in relazione all’altra questione sollevata dal ricorrente, la Corte, nell’ordinanza in commento, ha precisato che la violazione del divieto di indebito frazionamento del credito, costituendo una statuizione su una questione processuale, dà luogo ad un giudicato meramente formale e, come tale, ha un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è pronunciata.

È dunque sempre possibile la riproposizione della medesima questione in un successivo giudizio tra le stesse parti.

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