Con l’ordinanza n. 25023 del 17 settembre 2024 la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di responsabilità dell’avvocato ritenendo che “la perdita della possibilità di una "mera partecipazione" ad un giudizio, nell'ipotesi di omessa impugnazione del provvedimento giudiziario sfavorevole da parte del difensore incaricato, non vale ad integrare, di per sé, un danno risarcibile, poiché un tale danno è configurabile soltanto ove sussista la lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento che, nel caso, va rinvenuto nell' interesse al "bene della vita" del cliente per il cui soddisfacimento è unicamente diretto l'adempimento dell'obbligazione di diligenza professionale forense e cioè … l' interesse a "vincere la causa", a vedersi riconosciute le "proprie ragioni" e, quindi, ad ottenere tutela dei propri diritti/interessi legittimi”.

La questione di diritto affrontata nell’ordinanza in commento dalla Cassazione riguarda la risarcibilità o meno del danno da perdita di chance rappresentato dalla mera perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio, derivante dall’inadempimento dell’obbligazione professionale assunta dall’avvocato nei confronti del cliente e se tale danno possa considerarsi un danno distinto da quello eziologicamente correlato al mancato riconoscimento delle proprie ragioni (la 'vittoria della causa'), da provarsi in base a criteri probabilistici.

La responsabilità dell'avvocato, per un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, non può affermarsi per il solo fatto del non corretto adempimento dell'attività professionale. Occorre, come chiarito in numerose occasioni dalla Cassazione, verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del suo difensore, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove il difensore avesse tenuto il comportamento dovuto, alla stregua di criteri probabilistici, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.

Nell’ordinanza in commento la Corte ha ricordato che occorre poi distinguere tra “l’omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l'evento dannoso, dall'omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio".

Solo nella prima ipotesi l'evento dannoso si verifica quale conseguenza dell'omissione; nella seconda ipotesi, precisa la Corte, "il danno... deve costituire oggetto di un accertamento prognostico, dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si è realmente verificato e non può essere empiricamente accertato".

La responsabilità dell’avvocato per l’omessa impugnazione del provvedimento sfavorevole (nello specifico il tardivo deposito di atto di appello) rientra in questa seconda ipotesi, per cui l’esito del giudizio "non può essere accertato in via diretta, ma solo in via presuntiva e prognostica" – in base alla regola della preponderanza dell'evidenza o del 'più probabile che non”.

In tal caso, l'affermazione della responsabilità risarcitoria implica una valutazione prognostica positiva circa la ragionevole probabilità che l'azione giudiziale, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita, abbia un esito favorevole.

Ciò premesso, la Corte nell’ordinanza in commento è passata ad esaminare le ragioni che inducono ad escludere che la 'mera' perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio, per effetto dell'inadempimento dell'avvocato alla sua obbligazione professionale, possa costituire un danno, di per sé, risarcibile, a prescindere da una correlazione con il risultato 'utile cui mira il giudizio stesso.

Le ragioni, ha affermato la Corte, dipendono dalla natura dell’obbligazione professionale dell’avvocato "di mezzi e non di risultato" in quanto “il professionista si fa carico non già dell'obbligo di realizzare il risultato cui il cliente aspira, bensì dell'obbligo di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata”.

In tempi recenti la Corte di Cassazione ha affermato in tema di obbligazioni professionali principi importanti che, anche se espressi in materia di professioni sanitarie, hanno una portata generale e risultano applicabili anche alla professione forense.

Nelle obbligazioni professionali, ha di recente affermato la Corte, “occorre distinguere tra un interesse strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione (art. 1174 c.c.), e un interesse primario, o presupposto, del creditore. L' interesse strumentale è quello che connota la prestazione oggetto dell'obbligazione, ossia il rispetto delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore. L'interesse primario o presupposto non è, invece, dedotto in obbligazione, ma è, però, intimamente connesso a quello strumentale "già sul piano della programmazione negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della causa del contratto" (v. Cass. n. 28992/2019).

Calando i predetti principi nel caso dell'obbligazione di diligenza professionale dell'avvocato, nell’ordinanza in commento, la Corte ha chiarito che “l'interesse primario del cliente/creditore è la "vittoria della causa", così come nell'obbligazione del medico tale interesse è la "guarigione dalla malattia".

Ne deriva che il "danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda... non l' interesse corrispondente alla prestazione ma l' interesse presupposto", per cui l' inadempimento della prestazione dedotta in obbligazione comporterà certamente la lesione dell' interesse strumentale, ma non necessariamente di quello primario/presupposto, ponendosi, dunque, l'esigenza di dimostrare che la condotta contraria alle leges artis abbia determinato, eziologicamente, la lesione dell' interesse primario/presupposto e, dunque, il danno evento”.

Per cui la responsabilità risarcitoria dell'avvocato non può sussistere soltanto in ragione dell'inadempimento dell'incarico professionale (e, dunque, come conseguenza unicamente della lesione dell'interesse strumentale dedotto in obbligazione).

Nel perimetro dell'inadempimento, e quindi della lesione dell'interesse strumentale, si collocherà, afferma la Cassazione, anche la condotta imperita/negligente dell'avvocato che abbia cagionato la perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio.

Tuttavia, precisa la Corte, “ai fini del risarcimento del danno si rende necessaria, altresì, la prova del nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, e il risultato che ne è derivato, ovvero che si sia determinata, in termini di giudizio prognostico, la lesione dell'interesse primario del cliente stesso e cioè la mancata "vittoria della causa" o, in altri ma sovrapponibili termini, il mancato "riconoscimento delle proprie ragioni" nella sede giudiziaria. Diversamente, in assenza di quest'ultimo interesse – che è, in altri termini, l'interesse al c.d. "bene della vita" – non potrà esserci danno risarcibile”.

In conclusione la Corte ha pronunciato il seguente principio di diritto: "non costituisce un interesse giuridicamente tutelabile quello a proporre una impugnazione infondata; ne consegue che la tardiva proposizione, da parte dell'avvocato, di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento non costituisce per il cliente un danno risarcibile, e non fa sorgere per l'avvocato un obbligo risarcitorio, nemmeno sotto il profilo della perdita della chance della mera partecipazione al giudizio di impugnazione".

Con l’ordinanza n. 11174 del 26 aprile 2024 la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale d’interpretazione della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, e dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.

1. - I fatti di causa

In seguito alla stipulazione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, concluso nel 1998, sorgeva una controversia tra i signori D.G.M e B.S., promissari acquirenti, e la soc. S. S.p.A., promittente alienante, che veniva devoluta alla cognizione di un Collegio arbitrale.

Impugnato il lodo arbitrale dai promissari acquirenti ai sensi dell’art. 828 c.p.c., la Corte d’appello di Ancona ne dichiarava la nullità per essere stato emesso oltre il termine decadenziale di cui all’art. 820 c.p.c. vigente ratione temporis.

Nel merito, la Corte d’appello di Ancona, previa dichiarazione della nullità della clausola del preliminare che obbligava i promissari acquirenti a sottostare ad un indeterminato futuro regolamento condominiale predisposto dal costruttore-venditore, dichiarava la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento degli stessi promissari acquirenti all’obbligo di stipulare il definitivo, avverso cui avevano opposto un rifiuto ingiustificato, e al correlato obbligo di pagamento del saldo del prezzo.

Condannava, poi, i promissari acquirenti alla restituzione dell’immobile e la promittente venditrice alla restituzione degli acconti versati.

In ordine alla penale prevista nel contratto, la Corte d’appello ne disponeva la riduzione nei limiti dei soli interessi spettanti sulla restituzione dei versamenti effettuati a titolo di acconto, rigettando la domanda, proposta dalla S. S.p.A., di risarcimento degli ulteriori danni, in quanto non provati.

Contro la sentenza della Corte d’appello di Ancona, la soc. S. S.p.A. proponeva ricorso per cassazione.

Con sentenza n. 22550/2015, dep. in data 4 novembre 2015, la Cassazione accoglieva il primo motivo del ricorso principale, ritenendo che la motivazione sulla riduzione della penale non fosse stata adeguata, in difetto di alcuna indicazione dei criteri adottati per addivenire alla sua determinazione nella misura indicata. La causa veniva quindi rinviata alla Corte d’appello.

All’esito del giudizio di rinvio, la Corte d’appello, nel condannare i promissari acquirenti al pagamento della penale, rilevava, per quanto in questa sede interessa:

a) che l’oggetto del giudizio di rinvio era circoscritto all’applicazione della penale e alla sua prospettata riduzione, all’individuazione e alla prova, con relativa motivazione, di un eventuale maggior danno e alla regolamentazione delle spese;

b) che era pacifico e coperto dal giudicato interno il fatto che si fossero verificate le condizioni perché la S… potesse pretendere la penale ex art. 7 del preliminare risolto, secondo cui, a tale titolo, la promittente alienante avrebbe potuto trattenere le somme versate quale anticipo dai promissari acquirenti”.

Avverso la sentenza emessa in sede di rinvio i signori D.G.M. e B.S. proponevano ricorso per cassazione.

2. - Il ricorso per cassazione promosso dai promissari acquirenti

Con il ricorso i promissari acquirenti lamentavano per la prima volta in relazione alla clausola penale la violazione della normativa prevista a tutela del consumatore.

Nello specifico rilevavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 101 cpv c.p.c. e dell’art. 36, primo e terzo comma, del d.lgs. n. 206/2005, in ordine all’omesso rilievo d’ufficio della nullità di protezione, per avere la Corte di merito mancato di dichiarare la nullità della clausola penale che imponeva il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento di importo manifestamente eccessivo, determinando così una presunzione di vessatorietà per il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, secondo la normativa prevista a tutela del consumatore.

Secondo i ricorrenti la rilevazione d’ufficio del profilo di nullità non avrebbe potuto ritenersi preclusa dal giudicato implicito formatosi a seguito della pronuncia della Corte di legittimità sulla carenza di motivazione della riduzione della penale.

3. - L’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione

Nell’ordinanza in commento, la Cassazione si è dapprima soffermata sulla ricostruzione della normativa in materia consumeristica, affermando che la stessa è applicabile al contratto preliminare di compravendita di bene immobile, allorquando venga concluso tra un professionista ed altro soggetto, che contragga per esigenze estranee all’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale.

Inoltre, ha rilevato che, seppur in materia contrattuale le caparre e le clausole penali non abbiano natura vessatoria, non rientrando tra quelle di cui all’art. 1341 c.c. e non necessitando, pertanto, di specifica approvazione, deve ritenersi sussistente “una presunzione di vessatorietà delle clausole che, in caso di inadempimento, prevedano il pagamento di una somma manifestamente eccessiva”.

Successivamente la Corte è passata ad esaminare il punto centrale della questione e cioè si è chiesta se “sulla nullità (recte inefficacia) della clausola penale – quale questione nuova sollevata dai promissari acquirenti solo in sede di legittimità (all’esito del rinvio disposto da una precedente sentenza di questa Corte) … si sia formato il giudicato implicito interno, presupponendo la decisione sulla riduzione, come invocata dagli stessi promissari acquirenti nel corso dei gradi di merito del giudizio, la validità ed efficacia della clausola, con la conseguente preclusione della rilevazione dell’abusività della clausola stessa, oppure se – alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia – tale inefficacia possa essere comunque rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità, pure all’esito di un precedente rinvio (nella fattispecie, nessuna censura inerente alla validità/efficacia della clausola penale è stata a monte sollevata dai ricorrenti incidentali all’esito del primo ricorso principale in cassazione, con cui si contestava il difetto di motivazione sui termini della disposta riduzione)”.

Nel ricordare che il giudizio di rinvio è un procedimento chiuso, nel quale è inibito alle parti di ampliare il thema decidendum, mediante la formulazione di domande ed eccezioni nuove, la Cassazione ha altresì ribadito che nel predetto giudizio operano le preclusioni derivanti dal giudicato implicito formatosi con la sentenza rescindente, “onde neppure le questioni rilevabili d’ufficio che non siano state considerate dalla Corte Suprema possono essere dedotte o comunque esaminate, giacché, diversamente, si finirebbe per porre nel nulla o limitare gli effetti della stessa sentenza di cassazione, in contrasto con il principio della sua intangibilità.

Questi principi, d’altra parte, devono oggi essere riletti alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenze gemelle del 17 maggio 2022) e della Corte di Cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9479 del 06/04/2023) intervenute recentemente sulla questione delle clausole abusive in relazione al procedimento monitorio per decreto ingiuntivo.

Nelle quattro sentenze gemelle del 17 maggio 2022 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, è stata affrontata la questione relativa proprio alla compatibilità, con i principi posti dagli artt. 6, § 1, e 7, § 1, della direttiva 93/13/CEE e dall’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, delle norme processuali del diritto degli Stati membri (rispettivamente spagnolo, rumeno e italiano) che, in caso di intervenuta formazione del giudicato, impediscono al giudice dell’esecuzione (ovvero dell’appello) di esaminare, d’ufficio, la natura abusiva delle clausole contenute nei contratti posti a fondamento del provvedimento passato in giudicato.

Le sentenze interpretative del diritto dell’Unione europea rese dalla Corte di Giustizia, ha ricordato la Cassazione, “hanno effetto di ius superveniens” con la conseguenza che i principi dalla stessa enunciati devono ritenersi immediatamente applicabili nell’ordinamento nazionale, travalicando anche il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento con l’unico limite dei rapporti esauriti.

La Cassazione ha altresì ricordato che, in tema di nullità di protezione, “le indicazioni provenienti dalla stessa Corte di giustizia in tema di rilievo officioso (nella specie, delle clausole abusive nei contratti relativi alle ipotesi di cd. commercio business-to-consumer) consentono di desumere un chiaro rafforzamento del potere-dovere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità”, con la conseguenza che l’omessa rilevazione officiosa della nullità “finirebbe per ridurre la tutela di quel bene primario consistente nella deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole”.

In relazione poi al concetto di giudicato implicito, la Cassazione nell’ordinanza in commento ha ritenuto opportuno precisare che il giudicato implicito richiede, per la sua formazione, che “tra la questione decisa in modo espresso e quella che si deduce essere stata risolta implicitamente sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, tale da determinare l’assoluta inutilità di una decisione sulla seconda questione e che la questione decisa in modo espresso non sia stata impugnata”.

Si ritiene configurabile la decisione implicita di una questione o di un’eccezione di nullità, “quando queste risultino superate e travolte, benché non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di un’altra questione, il cui solo esame presupponga e comporti, come necessario antecedente logico-giuridico, la loro irrilevanza o infondatezza”.

Orbene, nel caso di specie, indubbiamente la disposizione della riduzione della clausola penale manifestamente eccessiva postula implicitamente la questione della validità/efficacia della clausola penale stessa.

In questo contesto, alla luce dei principi fissati dalla Corte di Giustizia con le sentenze gemelle del 17 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha ritenuto necessario dover rinviare alla Corte di giustizia l’esame della questione “relativa alla possibilità del Giudice di legittimità, adito all’esito del già disposto rinvio, di verificare – e a quali condizioni –, ove emerga ex actis, l’esistenza di una clausola che appaia abusiva in contratto concluso con un consumatore, anche a fronte della sollecitazione pervenuta dal consumatore, rilevandone d’ufficio l’inefficacia. E ciò tenuto conto, nella fattispecie, del precedente rinvio disposto da questa Corte, affinché fosse adeguatamente motivata la riduzione di una penale reputata manifestamente eccessiva, vincolando nei termini anzidetti il potere del giudice di rinvio, quale giudizio a carattere chiuso ex art. 394 c.p.c. In sede di rinvio, alcuna nullità è stata rilevata e si è invece provveduto a rimodulare i termini quantitativi della riduzione della clausola penale reputata manifestamente eccessiva, in attuazione del disposto della Corte di legittimità”.

A fare da contraltare al rilievo d’ufficio della natura abusiva della clausola vi è il principio di stabilità-intangibilità delle sentenze emesse in sede di legittimità, che dovrebbe impedire al giudice di legittimità, adito successivamente alla celebrazione del giudizio di rinvio, stando al diritto processuale interno, di rilevare, la nullità/inefficacia della clausola abusiva e ciò “a salvaguardia dell’unità dell’interpretazione giurisprudenziale rimessa alla Corte di legittimità, quale garante dell’uniforme interpretazione delle norme giuridiche e dell’unità del diritto oggettivo”.

4. - Il quesito di diritto oggetto del rinvio pregiudiziale

In conclusione, la Cassazione, visto il quadro normativo interno e giurisprudenziale delineato, ha ritenuto opportuno sottoporre alla Corte di Giustizia il seguente quesito, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE:

Se l’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, e l’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea debbano essere interpretati:

(a) nel senso che ostino all’applicazione dei principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali le questioni pregiudiziali, anche in ordine alla nullità del contratto, che non siano state dedotte o rilevate in sede di legittimità, e che siano logicamente incompatibili con la natura del dispositivo cassatorio, non possono essere esaminate nel procedimento di rinvio, né nel corso del controllo di legittimità a cui le parti sottopongono la sentenza del giudice di rinvio;

(b) anche alla luce della considerazione circa la completa passività imputabile ai consumatori, qualora non abbiano mai contestato la nullità/inefficacia delle clausole abusive, se non con il ricorso per cassazione all’esito del giudizio di rinvio;

(c) e ciò con particolare riferimento alla rilevazione della natura abusiva di una clausola penale manifestamente eccessiva, di cui sia stata disposta, in sede di legittimità, la rimodulazione della riduzione secondo criteri adeguati (quantum), anche in ragione del mancato rilievo della natura abusiva della clausola a cura dei consumatori (an), se non all’esito della pronuncia adottata in sede di rinvio”.

Per leggere il testo integrale dell’ordinanza interlocutoria della Cassazione n. 11174 del 26 aprile 2024 clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/11174_04_2024_civ_noindex.pdf

Per leggere il testo integrale della sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 17 maggio 2022

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:62019CJ0693

Sullo stesso tema leggi anche sempre sul nostro sito:

La protezione del consumatore nel procedimento di ingiunzione. Il vademecum delle Sezioni Unite.

Tutela del consumatore e decreto ingiuntivo non opposto. La parola alla Corte di Giustizia.

Il Tribunale ordinario di L’Aquila con ordinanza n. cronol. n. 233 del 17/01/2024, ha disposto, ai sensi del nuovo art. 363 - bis c.p.c., il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione della questione relativa all’ammissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, nonché quella relativa all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto.

Alla data di pubblicazione di questo commento, la Prima Presidente non si è ancora pronunciata sul rinvio pregiudiziale, dichiarandolo, o meno, ammissibile.

I fatti di causa

La controversia nasce in seguito all’impugnazione davanti al Tribunale di L’Aquila da parte del Ministero dell’Economia e Finanze e da parte del Demanio degli atti di rinuncia dei signori T.S. e T.M. alla proprietà di alcuni terreni siti nel Comune di Bomba ormai sostanzialmente inservibili e privi di reale valore economico, in quanto sottoposti a Vincolo di Pericolosità elevata P2 - del PAI (Piano di Assetto Idrogeologico), redatto dalla Regione Abruzzo ai sensi dell’art. 17, co. 6 ter, della L. 183/89, dell’art. 1, co. 1, del D.L. 180/98, conv. con mod. dalla L. 267/98, e dell’art. 1 bis del D.L. 279/2000, conv. con mod. dalla L. 365/2000.

Le amministrazioni attrici hanno agito al fine di ottenere la declaratoria di nullità, invalidità e, in ogni caso, di inefficacia nei confronti dello Stato degli atti di rinuncia posti in essere dai convenuti, rilevando, in via principale, l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una generica facoltà di rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare e, in via subordinata, comunque la nullità della rinuncia, attesa la non meritevolezza e/o illiceità della causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c.

Rilevata la sussistenza dei presupposti previsti per l’applicazione dell’art. 363 - bis c.p.c., norma recentemente introdotta dal d.lgs. 149/2022, il Tribunale di L’Aquila con l’ordinanza in commento ha rimesso gli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione delle questioni sollevate.

Due gli orientamenti a confronto

La questione relativa all’amissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, per il giudice abruzzese, è di assoluta novità, non essendo stata mai direttamente affrontata dalla Corte di Cassazione.

Il tema è stato solo incidentalmente toccato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 2 del 20 gennaio 2020 in tema di espropriazione per pubblica utilità e dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 1907 del 4 marzo 1997 in tema di risarcimento del danno da occupazione appropriativa.

Nell’ordinanza in commento, il Tribunale aquilano ha ricostruito l’annoso dibattito dottrinario e giurisprudenziale sorto intorno alla questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare.

L’orientamento favorevole, facendo leva sugli artt. 827, 1118, co. 2, 1350, n. 5, e 2643, n. 5, c.c., configura la rinuncia come “un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette una situazione giuridica di cui è titolare, ovvero un diritto del suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso”.

Da questo punto di vista, la rinuncia abdicativa, non producendo alcun effetto traslativo-derivativo si differenzia dalla rinuncia c.d. traslativa, propria delle fattispecie di c.d. abbandono liberatorio di cui agli artt. 1170, 882, 550 e 1004 c.c., in quanto in quest’ultima ipotesi la rinuncia alla proprietà non ne produce la ‘vacanza’, passando la titolarità del bene in capo, ad es., al proprietario del fondo dominante o al proprietario confinante, agli altri eredi o agli altri comproprietari.

A sostegno dell’orientamento favorevole milita l’art. 827 c.c., che, nel disciplinare i c.d. beni immobili vacanti, sottende la possibilità che possano esistere beni immobili privi di proprietario.

Non si tratterebbe di una norma residuale finalizzata cioè a dare copertura a fattispecie imprevedibili ed estreme, ma, secondo quanto riportato nell’ordinanza in commento, “esprimerebbe piuttosto un principio cardine del sistema, che prevede l’intervento dello Stato laddove non sia esigibile la prestazione richiesta al singolo privato”. Il medesimo principio opera anche in materia successoria laddove, in mancanza di successibili, l’eredità, in forza dell’art. 586 c.c., anche quando comprensiva di beni immobili, viene devoluta allo Stato.

Sempre in favore di tale orientamento vi è poi l’art. 1350 c.c. che al n. 5 del comma 1 prevede tra gli atti che devono essere fatti per iscritto “gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti”, tra cui vi rientrerebbe anche “la proprietà di beni immobili”.

Al contrario, secondo l’orientamento che nega l’ammissibilità nel nostro ordinamento alla rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, il n. 5 dell’art. 1350, co. 1, c.c. “dovrebbe riferirsi comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante”.

Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643, n. 5, c.c. che non intende richiamare i diritti in sé, ma quelli nascenti da determinati contratti.

Secondo l’orientamento favorevole, anche il disposto dell’art. 1118, comma 2, c.c. propende per l’ammissibilità del negozio di rinuncia in quanto nel prevedere che “il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”, indirettamente ammette che una rinuncia, in linea generale, sia invece possibile.

Al contrario, per l’orientamento che nega l’ammissibilità della rinuncia, la previsione dell’art. 1118, co. 2, risulta controbilanciata dal principio opposto stabilito dall’art. 1104, co. 1, c.c. che impone a ciascun partecipante di “contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune… salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”.

In tal caso, la rinunzia, però, non renderebbe il bene acefalo in quanto “si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune”.

Il medesimo principio è ribadito anche al comma 2 dell’art. 882 c.c. in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune.

L’inammissibilità della rinuncia abdicativa deriverebbe dal fatto che “in tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso, comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario”.

La “causa in concreto” dell’atto di rinuncia

L’ordinanza in commento prosegue poi esaminando il diverso problema dell’individuazione del perimetro di sindacabilità dell’atto di rinuncia da parte dell’Autorità giudiziaria e, più in particolare, se l’atto unilaterale in questione possa ritenersi compatibile con i concetti di causa concreta e meritevolezza degli interessi.

Anche su tale questione si è registrato un contrasto in dottrina, tra chi ritiene che la rinuncia debba esprimere, ai fini della sua validità, “un interesse meritevole di tutela” e chi invece ritiene che non sia necessario che l’atto unilaterale in questione presenti “il requisito ulteriore di essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, come invece richiesto per i contratti atipici dall’art. 1322 comma II c.c.”.

Secondo una prima impostazione, ai fini della validità della rinuncia abdicativa, è necessario che il raggiungimento dell’effetto tipico della rinunzia, ovverosia “la perdita del diritto”, si accompagni adelementi di giustificazione economico-sociale.

Non sarebbe possibile, dunque, per il privato rinunciare al diritto di proprietà “al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex art. 827 c.c. - e dunque in capo alla collettività intera - i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale, come nel caso di cui all’art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile”.

Con la conseguenza che, in tal caso, l’atto di rinuncia deve ritenersi nullo in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c. ponendosi “in palese contrasto con le istanze solidaristiche immanenti nella funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost., e (comunque) con gli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’art. 2 Cost., nonché con il limite del rispetto della sicurezza dei consociati ex art. 41, comma II, Cost., l’una e gli altri costituenti limite inderogabile delle prerogative dominicali ex art. 832 c.c. (cfr. T.A.R., Lombardia, 18.12.2020, n. 2553; T.A.R. Piemonte - Torino, Sez. I, 28.03.2018, n. 368; Trib. Ancona, Sez. I, 15.06.2021, n. 771; Trib. Genova, ord. 05.02.2019)”.

Secondo altro orientamento, l’atto di rinuncia abdicativa sarebbe incompatibile con la disciplina propria della causa, “non avendo il legislatore imposto alcun controllo espresso su tale atto di autonomia privata non si porrebbe, dunque, né un problema di valutarne la tipicità, né la necessità di accertarne la funzione economico-sociale, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra soggetti diversi”.

Il richiamo alla funzione sociale di cui all’art. 42, co. 2, Cost., per tale orientamento, sarebbe inconferente non risultando alcuna disposizione legislativa generale che preveda una limitazione al potere dispositivo espressamente riconosciuto al proprietario dall’art. 832 c.c.

Il legislatore quando ha voluto porre limiti alla facoltà del proprietario di rinunciare alla proprietà privata di immobili lo ha espressamente disciplinato nella fattispecie normativa, come nel caso dell’art. 1118, co. 2, c.c.

Secondo tale impostazione, la funzione sociale del diritto di proprietà, in assenza di una puntuale disposizione di legge, “non potrebbe spingersi al punto tale da impedirne la rinuncia al titolare, rendendo di fatto il soggetto ‘prigioniero’ del suo diritto”.

Il fine o il motivo legato alla convenienza economica ovvero al risparmio di spesa non può rientrare nel concetto di causa illecita, non sussistendo “una norma che imponga al privato di essere generoso e altruista nella gestione dei propri affari”.

In conclusione, secondo tale orientamento “la rinuncia abdicativa non diverrebbe di per sé illegittima perché posta in essere in base a mere valutazioni di convenienza e opportunità, peraltro riscontrabili in maniera analoga nelle fattispecie di cui agli artt. 1104 e 1070 c.c. (cfr. Trib. Firenze, 15.09.2022, n. 2529, secondo cui “Al contrario, risulta invece conforme ai principi solidaristici che, in presenza di un terreno con elevata pericolosità geomorfologica, che determina una situazione di rischio per la circolazione su strada pubblica, utilizzata quindi dalla collettività, in conseguenza della rinuncia alla proprietà da parte del privato, i costosi interventi di messa in sicurezza siano finanziati con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario, del resto neppure colpevole per la conformazione del luogo e la composizione del suolo”; in senso conforme Trib. L’Aquila, 10.10.2023, n. 623; Trib. L’Aquila, 23.10.2023, n. 656; Trib. L’Aquila, 27.10.2023, n. 682)”.

Sulla base di tutto quanto sopra esposto, il Tribunale di L’Aquila, ritenendo le questioni sopra illustrate suscettibili di porsi in numerosi altri giudizi, ha sospeso il procedimento ed ha disposto, ai sensi dell’art. 363 - bis, co. 2 c.p.c. il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione.

Per leggere il testo integrale clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Ordinanza_Tribunale_LAquila_RG_233_2024_oscuramento_noindex.pdf

Per un approfondimento leggi anche:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza, 20 gennaio 2020, n. 2;

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