I fatti di causa

Un lavoratore viene licenziato per alcune condotte compiute due anni prima del licenziamento e che, fin dalla loro realizzazione, erano nella sfera di conoscibilità del datore di lavoro.

In giudizio, il lavoratore, tra le altre cose, deduce l’intempestività dell’atto di recesso datoriale.

Il Tribunale di Ravenna ritiene fondate le doglianze del lavoratore e, alla luce dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, ritiene applicabile alla fattispecie l’art. 18, comma 4, L. 300/1970, disponendo pertanto la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.

Il principio di tempestività o immediatezza della contestazione disciplinare

Il principio in parola, di creazione giurisprudenziale, è senz’altro strumentale ad un migliore esercizio del diritto di difesa del lavoratore. Egli, infatti, potrà efficacemente difendersi solo se, e nella misura in cui, sarà stato posto nelle condizioni di presentare le proprie giustificazioni in termini quanto più dettagliati e circostanziati possibile, cosa che, come ovvio, gli sarà tanto più difficile quanto è maggiore il tempo trascorso dai fatti che gli vengono contestati. In questo senso, benché non sia previsto dalla legge un termine massimo entro il quale il datore possa contestare un dato addebito di cui è a conoscenza, si è soliti ritenere che il principio di tempestività abbia natura procedurale, posto che, in ogni caso, attiene alla scansione procedimentale disciplinata dall’art. 7 L. n. 300/1970.

Per altro verso, poiché l’esercizio del potere disciplinare è facoltativo e poiché il datore di lavoro che, pur consapevole dell’illecito commesso, non procede alla contestazione disciplinare potrebbe indurre a pensare che egli abbia ritenuto che l’illecito disciplinare commesso non rivesta una gravità tale da integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo idonei a legittimare il provvedimento espulsivo, è stato più volte sostenuto in giurisprudenza che il principio di tempestività inerisce, al contempo, al profilo causale del recesso. Ciò, in ragione del fatto che il decorso di un considerevole lasso di tempo tra la data di compiuta conoscenza del fatto e la sua contestazione lede l’affidamento, nel frattempo ragionevolmente ingeneratosi nel prestatore, circa la scarsa rilevanza disciplinare del fatto contestato o circa la mancata ricorrenza della causale di recesso.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite nel 2017...

Fatti questi brevissimi accenni di carattere teorico circa la natura “ambivalente” del principio di tempestività – là dove l’ambivalenza discende dalla sua contemporanea riferibilità agli aspetti procedurali/formali del licenziamento ma anche a quelli causali/sostanziali – il problema che già nel 2017 si era posto riguardava l’individuazione del rimedio sanzionatorio applicabile al licenziamento intempestivo. Ci si è chiesti, cioè, se ad esso dovesse essere applicato il rimedio dell’art. 18, comma 6, St. Lav. previsto per i vizi di natura procedurale, o se invece dovessero trovare applicazione i ben più incisivi rimedi previsti per i vizi del recesso di natura sostanziale, quelli, cioè, attinenti al profilo della giustificazione causale del licenziamento, e pertanto i rimedi previsti dal comma 4° o quelli del comma 5° del medesimo art. 18.

A fronte di un contrasto venutosi a determinare tra le Sezioni semplici, le Sezioni Unite della Cassazione, investite della relativa questione, con la pronuncia n. 30985/2017 hanno escluso che potesse applicarsi il rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4.

E ciò, “per la semplice ragione che” esso è destinato ad operare allorquando sia stata accertata la non ricorrenza della causale addotta a fondamento del recesso per insussistenza del fatto contestato, ovvero per sua riconducibilità alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, mentre “nelle ipotesi ... in cui sia accertata la sussistenza dell’illecito disciplinare posto a base del licenziamento, ma questo non sia stato preceduto da tempestiva contestazione, si è fuori dalla previsione di applicazione della tutela reale nella forma attenuata di cui al quarto comma del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori”.

Esclusa l’operatività dell’anzidetto rimedio, le Sezioni Unite hanno rilevato che “la soluzione del problema discende sostanzialmente dalla valenza che si intende attribuire al principio della tempestività della contestazione dell’illecito disciplinare”. Rammentata la – più sopra accennata –  “duplicità” del principio di tempestività del potere disciplinare, la Cassazione ha proseguito affermando che “la violazione della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori”, che comporta l’applicazione del rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 6, L. n. 300/1970, “è da intendere, ai fini sanzionatori che qui rilevano, come violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi, mentre la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”. In tale ultima ipotesi, non qualificabile in termini di ‘violazione meramente procedurale’, hanno affermato le Sezioni Unite, deve trovare applicazione il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”.

Infatti, se, da un lato, “l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse” (e dunque della sua volontà di soprassedere all’esercizio del potere disciplinare), dall’altro, il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, ha un’operatività generalizzata, posto che esso è destinato a trovare applicazione “nelle altre ipotesi in cui” il Giudice “accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”.

...e quella offerta dal Tribunale di Ravenna nel 2022.

Noncurante della funzione nomofilattica che istituzionalmente è assegnata alla Corte di Cassazione, ed ancor più alle Sezioni Unite della Corte[1], il Tribunale di Ravenna ha ritenuto applicabile al licenziamento intempestivo il rimedio reintegratorio previsto dall’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, discostandosi così dalle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite con la pronuncia n. 30985/2017 e dichiarando apertamente, peraltro, di essere in disaccordo con esse.

Il Giudice romagnolo muove, innanzi tutto, dalla ineccepibile constatazione per cui è ormai pacifico e consolidato il principio di diritto secondo cui il fatto posto a fondamento del licenziamento deve necessariamente presentare una – almeno minima – rilevanza disciplinare, posto che la contestazione di un fatto che ne è privo equivale alla contestazione di un fatto insussistente. Conseguentemente, secondo tale consolidato orientamento[2], un licenziamento irrogato per un fatto disciplinarmente irrilevante è sanzionato con lo stesso rimedio reintegratorio, quello di cui all’art. 18, comma 4, previsto appunto per il licenziato a fondamento del quale è stato posto un fatto insussistente, cioè un fatto non verificatosi nella realtà fenomenica o comunque non imputabile a quel lavoratore.

Muovendo da tale assunto, al fine di giustificare la ritenuta applicabilità del rimedio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, il Tribunale di Ravenna equipara il licenziamento intempestivo ad un licenziamento irrogato per un fatto disciplinarmente irrilevante, posto che “se un fatto non è stato tempestivamente represso, non avendo avuto il datore di lavoro alcun interesse a sanzionarlo in tempo utile, il licenziamento tardivo è evidentemente avvenuto non per quel fatto, sul quale si è appunto soprasseduto; dunque, il fatto non può sussistere (giuridicamente), come fondamento di quel determinato, tardivo licenziamento (essendo irrilevante stabilire se, col senno di poi, tale fatto, laddove

tempestivamente contestato, sarebbe stato sussistente o meno).

Si tratta di un fenomeno che potrebbe chiamarsi di insussistenza giuridica sopravvenuta del fatto”.

In estrema sintesi, l’equazione su cu si fonda la decisione del Tribunale è la seguente:

a) un fatto disciplinarmente irrilevante è un fatto insussistente;

b) un fatto contestato tardivamente è un fatto che il datore di lavoro – poiché al momento della commissione e nell’arco di tempo necessario per la sua emersione e valutazione ha soprasseduto dall’esercizio tempestivo del potere disciplinare – ha mostrato di ritenere disciplinarmente irrilevante;

c) ergo,un licenziamento tardivo è un licenziamento irrogato per un fatto insussistente.

Per arrivare a tale conclusione, tuttavia, il Tribunale di Ravenna motiva la propria decisione con argomentazioni che, sebbene siano espressione di un’innegabile ragionevolezza – che invero, ed ancor prima, caratterizza la precedente e preminente decisione delle Sezioni Unite e che è frutto della riconosciuta attinenza del principio di tempestività al profilo causale del recesso – si traducono in una evidente forzatura della constatazione circa l’operatività residuale del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18. co. 4, L. n. 300/1970. Constatazione che, una volta ribadita la “natura sostanziale” e non solo procedurale del principio in parola, ha appunto consentito alle Sezioni Unite di ritenere applicabile al licenziamento intempestivo il rimedio indennitario di cui all’art. 18, co. 5.

Infatti, come visto, con la pronuncia n. 30985/2017 la Cassazione, pur dando atto che il “ritardo notevole e non giustificato” nella contestazione di un addebito determina “un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”, così riconoscendone l’attinenza del relativo principio al profilo causale del licenziamento, ha esplicitamente affermato che il licenziamento intempestivo dovrà essere sanzionato con il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale[3]. Al contrario, al fine di giustificare la ritenuta operatività del rimedio reintegratorio al licenziamento intempestivo, il Giudice romagnolo è costretto a degradare la riflessione ermeneutica delle Sezioni Unite riconducendola al novero degli “approcci interpretativi fondati su apriorismi filosofici (in larga misura dovuti all’idea che alla reintegra dovesse assegnarsi un ambito applicativo residuale)”. Tant’è che, prosegue il Tribunale, saremmo in presenza di un “mutamento di humus giuridico medio tempore verificatosi nell’approccio degli istituti inseriti dalla L. n. 92/2012 nell’art. 18, con un ritorno alla centralità dell’istituto della reintegra (Corte Cost. 59/2021; Corte Cost. 125/2022; Corte di Cassazione n. 11665/2022)”.

Non è questa la sede per confutare nel dettaglio la conclusione, che però pare un po’ affrettata, con cui il Tribunale ha liquidato la decisione delle Sezioni Unite come figlia di un apriorismo filosofico, né quella relativa ad un presunto “ritorno di centralità” del rimedio reintegratorio.

E’ solo il caso di rilevare che, in verità, non appare del tutto corretto riconoscere un tale effetto dirompente alle decisioni menzionate dal Tribunale di Ravenna a fondamento della preteso ‘ritorno di centralità’ del rimedio reintegratorio. Si ritiene, piuttosto che esse siano pronunce con cui si sono volute eliminare alcune imprecisioni lessicali nella formulazione della legge che ingeneravano sterili dubbi interpretativi (questo è a dirsi per le due sentenze della Corte Costituzionale) o con cui, e ciò vale per Cass. n. 11665/2022, la Suprema Corte abbia voluto rivendicare gli spazi, la dignità, l’importanza e l’insopprimibilità dell’attività interpretativa che è chiamato a svolgere il giudice nell’esercizio della sua funzione istituzionale[4].


[1] Il fondamento normativo di tale funzione è da individuarsi, innanzi tutto, nell’art. 65, comma 1, del T.U. sull’Ordinamento giudiziario (R.D. n. 12/1941), a mente del quale “La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”.

Nel codice di procedura civile, all’art. 374, rubricato con la dicitura “pronuncia a sezioni unite”, è previsto che “Nei casi previsti nel n. 1 dell'articolo 360 e nell'articolo 362 [142 disp. att.]. Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite.

Inoltre il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza.

Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice”.

Anche l’art. 363 c.p.c. riguarda la funzione nomofilattica della Suprema Corte là dove prevede che “Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell'istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza.

Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza.

La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.

[2] Si vedano, Cass. n. 29072/2017; Cass. n. 10019/2016; Cass. n. 20540/2015; Cass. 12174/2019

[3] E ciò, si badi bene, diversamente da quanto sostenuto dalla Sezione Lavoro della Cassazione con la precedente pronuncia n. 2513 del 31 gennaio 2017 che aveva ritenuto, così come poi ha fatto il Tribunale di Ravenna, che l’intempestività della contestazione impedisse al giudice di accertare o meno la sussistenza del “fatto contestato”, con conseguente equiparazione del licenziamento tardivo al licenziamento intimato sulla base di un fatto insussistente.

[4] Per un breve commento di Cass. n. 11665/2022 sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-reintegrazione-nel-posto-di-lavoro-in-caso-di-previsioni-collettive-formulate-in-maniera-elastica-o-tramite-il-ricorso-a-clausole-generali/; per un breve commento di Corte Cost. n. 125/2022 sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/

La disciplina normativa

E’ noto che la L. n. 92/2012 ha modificato l’art. 18 della L. n. 300/1970 introducendo quattro distinti regimi di tutela, ciascuno destinato a trovare applicazione in diverse ipotesi di illegittimità dell’atto di recesso datoriale. Più in particolare, e soffermandosi su quelli che maggiormente rilevano ai fini della riflessione sull’ordinanza qui commentata, nel caso di un licenziamento disciplinare per cui sia stata accertata la non ricorrenza della causale di licenziamento addotta dal datore di lavoro a fondamento del medesimo, è previsto che il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ove tuttavia, oltre alla non ricorrenza della causale di recesso perché la gravità dell’addebito non è tale da integrare la nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità di esso alle “condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, allora dovrà essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro con un risarcimento del danno che, nell’ammontare massimo, non potrà essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità.

L’ordinanza qui annotata (che rimette la causa alla sezione semplice avendo evidentemente ritenuto insussistenti le ipotesi contemplate dall’art. 375, 1° co. n. 1 e 5 c.p.c. per decidere in camera di consiglio)ripercorre analiticamente gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte, fin dal 2015, con riferimento all’ipotesi in cui la reintegrazione sia stata disposta dal giudice perché il fatto contestato al lavoratore, la cui gravità non è tale da poter essere qualificato in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, rientra tra le condotte punibili dal contratto collettivo con una sanzione di tipo conservativo.

Più nel dettaglio, le pronunce su cui la Suprema Corte si sofferma sono quelle relative alle ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata dal lavoratore è sì punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, ma è descritta ed individuata facendo ricorso a “nozioni elastiche” o norme di chiusura, quali sono, solo per fare qualche esempio, quelle che descrivono gli addebiti come l’“insubordinazione” o la “negligente esecuzione del rapporto”. Si tratta di addebiti disciplinari che sono ex se espressione di concetti indeterminati, o comunque dai contorni non esattamente definiti e che dunque pongono all’interprete il problema di stabilire quando la fattispecie concreta contestata al lavoratore possa dirsi effettivamente integrata.

In tali casi, afferma la Corte di Cassazione, ad un iniziale orientamento che ha ritenuto che in presenza di fattispecie disciplinari descritte mediante “nozioni elastiche” sia compito del giudice di merito compiere un’attività di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ne è seguito un altro, di segno opposto, che, a partire da Cass. n. 12365/2019, ha invece ritenuto che “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamnete contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato. Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari punibili con una sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare”. Secondo tale orientamento, il ricorso da parte del giudice di merito ad un’interpretazione della clausola elastica che ne allarghi i contorni oltre i casi espressamente contemplati, “sarebbe contraria alla ratio della nuova disciplina in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure della chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalla parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione”. Al fine di stabilire se il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo debba esser sanzionato con il rimedio reintegratorio o con quello indennitario, sarebbe pertanto preclusa al giudice una valutazione comparativa tra il disvalore disciplinare dell’addebito contestato con quello di altre fattispecie del contratto collettivo, le quali tuttavia, a differenza del primo, sono espressamente tipizzate dal CCNL come addebiti da sanzionare con misure disciplinari di tipo conservativo. Ciò perché non sarebbe consentito al giudice avvalersi del principio di proporzionalità per determinare, in sostituzione delle parti collettive, un assetto pattizio che sia espressione di maggiore ragionevolezza, in quanto “il rischio di una disparità di trattamento in tema di tutela applicabile, connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare, costituisce…espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia” (in questi termini Cass. n. 13533/2019).

In sintesi, l’orientamento giurisprudenziale che fino alla pronuncia in commento si stava consolidando era quello in base al quale, ai fini dell’applicabilità del rimedio reintegratorio, era necessario che il fatto contestato fosse stato preventivamente ed espressamente tipizzato dal contratto collettivo applicato al rapporto, a tal punto che per i contratti collettivi che contengono clausole generali e dunque privi di tipizzazioni si è giunti ad escludere in radice l’operatività del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970.

Nel premettere innanzi tutto che, a parere di chi scrive, nell’ambito della pronuncia che qui si commenta la Suprema Corte sembrerebbe aver utilizzato il termine “clausole generali” per far in realtà riferimento alle “norme o clausole elastiche”[1], il Collegio muove dalla necessità di “chiarire se in presenza di fattispecie punite con misure conservative e descritte attraverso clausole generali, l’attività compiuta dal giudice abbia ad oggetto l’interpretazione della fonte negoziale e la sussumibilità del fatto contestato nella disposizione contrattuale oppure implichi o si esaurisca in una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito mosso”.

Ed a questo riguardo la Corte rileva che l’orientamento che richiede che il rimedio reintegratorio possa trovare applicazione solo nei casi in cui l’addebito contestato sia stato previamente tipizzato presenti profili di irragionevolezza, dato che “le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare”. In linea con quanto sopra, viene rilevato dalla Corte che nell’ambito del potere disciplinare del datore di lavoro il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso in senso rigoroso, analogamente a quanto prevede l’art. 25 della Costituzione per gli illeciti di carattere penale. Poiché per la contrattazione collettiva è concretamente impossibile tipizzare tutte le condotte disciplinari di cui un lavoratore si potrebbe rendere responsabile, “non appare rispondente ad un criterio di ragionevolezza attribuire alla tipizzazione, ad opera dei contratti collettivi, delle condotte punibili con sanzione conservativa il ruolo di discrimine per la selezione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria”.

La tipizzazione degli illeciti disciplinari di cui frequentemente si rinviene traccia nei contratti collettivi, afferma la Corte, non è rigorosamente correlata alla diversa gravità degli illeciti ivi menzionati, non solo perché – frequentemente – essa non è stata concepita dalle parti sociali in vista del ruolo di discrimine tra tutela reintegratoria ed indennitaria che, a partire dal 2012, essa ha incominciato a svolgere, ma anche perché “non è realizzata secondo un criterio idoneo a dare ragione del fatto che solo alcuni illeciti disciplinari, e non altri, meritino la tutela reintegratoria”, con il corollario, definito appunto “irragionevole”, “di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”. Ancorare l’operatività del rimedio reintegratorio alla tipizzazione dello specifico illecito disciplinare contestato al lavoratore, afferma la Corte, realizza un’irrazionale disparità di trattamento tra casi di licenziamento fondati su illeciti disciplinari non gravi, tipizzati dal contratto collettivo, e licenziamenti fondati su altri illeciti disciplinari, di pari o minore gravità rispetto ai primi, che però, non essendo tipizzati dal CCNL applicato al rapporto, danno luogo esclusivamente all’applicazione del rimedio indennitario.

Verso una rimeditazione del contenuto precettivo dell’art. 18, co. 4° e 5°?

Sono proprio le considerazioni qui sintetizzate che inducono la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda nell’ambito del procedimento in camera di consiglio previsto dall’art. 380 – bis c.p.c. (e, dunque, all’interno della sezione VI – Lavoro), a ritenere insussistenti i presupposti per la decisione con quella modalità ed a rimettere la causa alla sezione Lavoro ordinaria.

A questo punto, occorrerà attendere la pronuncia di quest’ultima, per verificare se le perplessità, sollevate dall’ordinanza che qui si è segnalata circa l’orientamento che si stava consolidando nella giurisprudenza di legittimità, si trasformeranno in un overruling del medesimo.


[1] Esempi di c.d. clausole generali sono la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto: esse  contengono enunciazioni di criteri di valutazione “del comportamento delle parti” che vanno integrate in sede di interpretazione valutativa, conformandosi sia ai principi dell’ordinamento sia ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che unitamente a detti principi costituiscono “il diritto vivente”.

Esempi di norme o clausole elastiche sono la giusta causa ed il giustificato motivo di risoluzione del contratto, ovvero la proporzionalità della sanzione), che sono propriamente, invece, “norme complete (…) che contengono formulazioni idonee ad identificare non una precisa fattispecie ma una ipotesi-tipo, un modulo generico da applicare alla singola fattispecie concreta in via interpretativa”; così.  Adalberto Perulli, Il controllo giudiziale dei poteri dell’imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, RIDL, 2015, I, pag. 83 ss.

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