La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17 gennaio 2025, n. 4302 è tornata ad occuparsi degli elementi in presenza dei quali si configura un trasferimento di ramo d’azienda nell’ipotesi di affidamento del medesimo servizio ad altro appaltatore.

La vicenda sullo sfondo della pronuncia in commento è rappresentata dal subentro di un nuovo appaltatore (nel caso di specie, un raggruppamento temporaneo di imprese) nella gestione del servizio di prenotazione di visite mediche per una azienda sanitaria locale, con suddivisione del personale tra le imprese dalla RTI. 

La sentenza, rigettate le eccezioni pregiudiziali proposte dalle imprese appellanti, si incentra sulla verifica della sussistenza degli elementi tali da integrare la cessione di un ramo d’azienda in luogo di un cambio di appalto. 

Rammenta la Corte che l’art. 29, co. 3, n. 276 del 2003, come novellato dall’art. 30, Legge n. 122 del 2016, emanato in ossequio alla Direttiva 2001/23/CE, “introduce una presunzione semplice di trasferimento di ramo di azienda tutte le volte in cui il personale dipendente dall’appaltatore cessato sia assunto dal nuovo aggiudicatario”.

Secondo l’interpretazione del dato normativo offerta dal più recente orientamento di legittimità (Cass., 24 ottobre 2024, n. 27607, commentata sul nostro sito: Cambio appalto o cessione d’azienda: quando si applica l’art. 2112?), legislatore ha “ribaltato la prospettiva precedente (ossia la formulazione originale dell'art. 29 del D.Lgs. n. 276 del 2003, ove si escludeva che il cambio di appalto integrasse un trasferimento di azienda), ed ha ritenuto che - in caso di appalto genuino da parte di un nuovo appaltatore ossia di un imprenditore che abbia propria struttura organizzativa ed operativa - opera una sorta di presunzione di operatività dell'art. 2112 c.c., per cui il cambio di appalto costituisce un trasferimento di azienda, a meno che la società subentrante sia caratterizzata da "elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa"”.

Dunque, solo in presenza di circostanze tali da determinare una discontinuità fra la precedente organizzazione produttiva e quella nuova si potrà escludere l'applicabilità dell'art. 2112 c.c.

Ciò premesso in punto di diritto, la sentenza disattende la doglianza proposta dagli appellanti secondo cui “i lavoratori addetti all’appalto non configuravano un ramo di azienda autonomo”.

La Corte muove dalla ricognizione della giurisprudenza unionale, da cui emerge che “è entità economica, ai sensi dell’art. 1, § 1 della direttiva 23/2001, qualsiasi complesso organizzato di persone e di elementi, il quale consenta l’esercizio di un’attività economica che sia finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e sia sufficientemente strutturato ed autonomo (CGUE sentenza 16.11.2023, NC e a,, C-583/21, punto 60; CGUE, sentenza 27.2.2020, Grafe e Pohle, C‑298/18, punto 22) CGUE sentenza 6.3.2014, Amatori e a., C‑458/12, punto 31)”.

In particolare, nei settori produttivi in cui l’attività si fonda essenzialmente sulla manodopera, ossia quando l’attività non necessita di specifici elementi materiali oppure quando questi ultimi non sono essenziali al buon funzionamento dell’entità economica organizzata, “anche un gruppo organizzato di lavoratori che assolva stabilmente ad un’attività comune può costituire entità economica ai sensi del diritto dell’Unione”.

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte afferma la sussistenza di un’azienda in capo alla cedente, posto che “il gruppo di lavoratori adibito al servizio appaltato … si caratterizzava non solo per una propria generica professionalità di partenza (rappresentata dal grado di istruzione e da spiccate capacità umane e relazionali), ma anche per conoscenze specifiche relative alla peculiare attività da svolgere - riguardanti appunto al funzionamento delle applicazioni informatiche della committente ed alla conoscenza anche amministrativa delle procedure concernenti le attività comprese nello Sportello Unico Integrato e nei Servizi di back e front office … - e quindi di un particolare know how che, secondo quanto si legge nel più volte citato capitolato, aveva costituito oggetto di specifica e preventiva attività formativa da parte della committente e che, a ben vedere, rendeva tale gruppo di lavoratori particolarmente idoneo e qualificato a prestare il servizio”.

La Corte, dunque, rinvenuta un’azienda nel senso sopra precisato, e accertato che:

  • i servizi resi dal precedente appaltatore e i successivi sono analoghi;
  • i lavoratori hanno continuato a utilizzare i medesimi strumenti informatici messi a disposizione dell’appaltante,

conclude che nella fattispecie non può reputarsi vinta “la presunzione di trasferimento di azienda che il giudice di legittimità ha ritenuto insita nell’art. 29, comma 2 d.lgs., 276/2003”.

A supporto di tale conclusione richiama “l’insegnamento della Corte di Giustizia per cui nelle attività basate essenzialmente sulla manodopera” la cessione del ramo d’azienda “ricorre anche quando «il nuovo titolare dell’impresa non si limiti a proseguire l’attività stessa, ma riassuma anche una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificamente destinato dal predecessore a tali compiti», perché in tale evenienza «il nuovo imprenditore acquisisce infatti l’insieme organizzato di elementi che gli consentirà il proseguimento in forma stabile delle attività o di talune attività dell’impresa cedente» (CGUE sentenza 24.6.2021, Obras y Servicios Públicos e Acciona Agua, C-550/19, punto 93; CGUE sentenza 11.7. 2018, Somoza Hermo e Ilunión Seguridad, C‑60/17, punti 34 e 35)”.

La sentenza evidenzia poi come la discontinuità dell’impresa subentrante sussiste solo se “il complesso di elementi organizzativi e produttivi introdotti, nello specifico appalto, dal subentrante sia caratterizzato da profili di tale novità da interrompere il nesso funzionale di interdipendenza e complementarità precedentemente sussistente tra i fattori della produzione che consentivano ’esecuzione dell’appalto … mentre, per contro, la discontinuità dovrà reputarsi insussistente tutte le volte in cui si rilevi che l’entità trasferita – senza la necessità di integrazioni di rilievo da parte dell’impresa subentrante – sia idonea ad eseguire l’appalto in tendenziali condizioni di autonomia operativa”.

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte capitolina esclude, infine, che gli elementi asseritamente innovativi rispetto al precedente appalto fossero idonei a costituire effettivi elementi di discontinuità secondo l’insegnamento del Supremo Collegio.

Nell’appalto (endoaziendale) di servizi sono fisiologiche interlocuzioni derivanti dall’esecuzione del contrato di appalto, purché non sfocino nella gestione e nel coordinamento delle risorse umane.

In questi termini si è espressa la Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 1733 del 16 maggio 2024, al cospetto di un appalto avente ad oggetto il servizio di gestione dell’archivio di un istituto di credito.

La Corte d’Appello muove dai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità alla cui stregua, in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell'art. 29, comma 1, del d. lgs. n. 276 del 2003, “è necessario verificare, specie nell'ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. "labour intensive"), che all'appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d'impresa, dovendosi invece ravvisare un'interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente” (v., tra le tante, Cass. Sez. Lav. n. 25 giugno 2020, n. 12551).

Dunque, l’appalto può ritenersi genuino, e come tale lecito, tutte le volte in cui sussistano in capo all’appaltatore

  • una propria organizzazione produttiva;
  • l’assunzione del rischio di impresa connesso all’esecuzione dell’opera e del servizio pattuito.

In questo senso, si configura un appalto lecito anche nelle ipotesi in cui il rapporto si esaurisca essenzialmente in prestazioni di opera (altamente qualificate, come ad esempio assistenza sistemistica, o anche non particolarmente qualificate: si pensi ad appalti di facchinaggio, pulizia e manutenzione ordinaria, già espressamente presi in considerazione dall’art. 3 della legge n. 1369/1960), “qualora l’appaltatore provveda effettivamente ad organizzare, dirigere e controllare il lavoro del proprio personale in modo tale che l’effetto complessivo delle prestazioni lavorative soddisfi l’interesse dell’appaltante dedotto in contratto”.

Sui c.d. appalti leggeri si è già soffermata la nostra Maria Santina Panarella, nella nota di commento alla ordinanza della Corte di Cassazione n. 23615 del 27 ottobre 2020 (Appalti "leggeri": se vi è l’effettiva gestione dei dipendenti l’appalto è genuino), la quale ha chiarito che, se negli appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali, cd. "pesanti", il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi; negli appalti cd. "leggeri", nei quali l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è invece sufficiente che sussista, in capo all'appaltatore, una effettiva gestione dei propri dipendenti.

Come osservato ancora di recente dal Supremo Collegio, qualora venga prospettata una intermediazione vietata di manodopera “il giudice del merito deve accertare se la società appaltante svolga un intervento direttamente dispositivo di controllo sulle persone dipendenti dall'appaltatore del servizio, non essendo sufficiente a configurare la intermediazione vietata il mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto”. Sono dunque leciti gli appalti di opere e servizi che “costituiscano un servizio in sé svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza diretti interventi dispositivi di controllo dell'appaltante sulle persone dipendenti dall'altro soggetto” (Cass., 22 gennaio 2021, n. 1403).

Quanto alla interlocuzione tra dipendenti dell’appaltante e dell’appaltatore, la sentenza in commento chiarisce che “in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro non è sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto”.

Applicando correttamente tali principi e ripercorrendo le risultanze istruttorie, la sentenza in commento ritiene sussistere un’effettiva attività organizzativa svolta dalla appaltatrice (tramite un proprio referente) grazie alla quale i servizi oggetto di appalto venivano eseguiti e controllati dalla appaltante relativamente al loro buon risultato.

Quanto ai contatti tra i dipendenti dell’appaltatrice e quelli dell’appaltante, la sentenza in esame accerta che gli stessi sono rimasti limitati a situazioni particolari, connotate dal carattere dell’urgenza. Conseguentemente, conclude che tali contatti non siano sintomatici di una fittizia interposizione di manodopera in quanto “riconducibili a fisiologiche interlocuzioni derivanti dall’esecuzione del contrato di appalto – specie se di natura c.d. endoaziendale - che non superano l’ambito della necessaria collaborazione mediante indebita ingerenza nelle modalità di adempimento della prestazione lavorativa del dipendente delle società appaltatrici, rimanendo in capo alle medesime la gestione e il coordinamento delle proprie risorse umane”.

La Corte d’Appello, dunque, ritiene di aderire alle conclusioni della sentenza di primo grado (che avevamo commentato sul nostro sito: L’appalto di manodopera è genuino anche se l’appaltante ha contatti diretti con i dipendenti dell’appaltatore al fine di garantire l’utilità del servizio).

La decadenza dall’impugnativa stragiudiziale, prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), non si applica ove non si rinvenga un atto che neghi la titolarità del rapporto.   

Questo il principio affermato dall’ordinanza resa dalla Cassazione in data 21 novembre 2022, n. 34181.

Giova rammentare che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, prevede che: "Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, art. 6, come modificato dal comma 1, del presente articolo, si applicano anche: … d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto".

L’ordinanza in commento ha escluso che il termine di decadenza possa trovare applicazione alla richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, ove manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso. E ciò sulla base di molteplici ragioni.

In primo luogo, venendo in rilievo una limitazione temporale per l'esercizio dell'azione giudiziaria di notevole incidenza sui diritti del lavoratore, alla norma deve essere attribuito carattere di eccezionalità, imponendosene una interpretazione particolarmente rigorosa.

Nel senso della impossibilità di una interpretazione estensiva dall’art. 32, lett. d) si è espressa, tra le tante, Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2019, n. 28750, che ha escluso l’applicabilità dei termini di decadenza, previsto dall’art. 32, n. 4, lett. c) e d), L. 183/10, all’ipotesi del lavoratore che non impugna la cessione del contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento ex art. 2112 c.c., ma, all'inverso, la rivendica. E ciò perché, il legislatore utilizzando la locuzione "in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 20 settembre 2003, n. 276, art. 27....", ha inteso “escludere le fattispecie riconducibili, in qualche modo, a quelle già regolate dalle diverse lettere della norma in questione”. Pertanto, se “il fenomeno della cessione del contratto di lavoro, avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c., è stata già disciplinata dal legislatore (lett. c), nella misura in cui risulta essere stata precisata e limitata da questa Corte di legittimità, non può poi una fattispecie relativa allo stesso fenomeno, ma posta in termini differenti e già esclusa dalla ipotesi tipizzata, considerarsi disciplinata dalla norma di chiusura di natura eccezionale” (nello stesso senso, Cass., 4 aprile 2019, n. 9469).

Sotto altro profilo, l’introduzione di “nuovi termini decadenziali per l’esercizio d’un diritto appartiene alla discrezionalità del legislatore” e non potrebbe determinare, “nel bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, il totale sacrificio o la compromissione eccessiva di uno di essi, dovendosi invece tenere conto della proporzionalità dei messi rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare e delle finalità che si vogliono perseguire, considerate le circostanze e le limitazioni concretamente sussistenti”. Su queste premesse, a giudizio del Supremo Collegio, ammettere “il decorso della decadenza anche in difetto d'una formale comunicazione di cessazione di tale utilizzo renderebbe eccessivamente aleatorio l'esercizio del diritto d'azione del lavoratore, stante l'intrinseca difficoltà di identificarne con esattezza il dies a quo”.

Inoltre, dalla applicazione del termine di decadenza, anche a fattispecie in cui manchi un provvedimento datoriale che neghi la sussistenza del rapporto di lavoro, deriverebbe un’aporia rispetto al combinato disposto degli artt. 6 L. n. 604/1966 e 32 L. n. 183/2010 e alla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione.

In questo senso, è fermo l’orientamento che esclude l’applicabilità del termine di decadenza dall'impungativa del recesso datoriale, previsto dall’art. 6 L. 604/1966, in caso di licenziamento orale (Cass., 11 gennaio 2019, n. 523).

Con riguardo poi al contratto di collaborazione a progetto - risoltosi per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessato per la sua naturale scadenza - presso la Corte di Cassazione si è andato consolidando l’orientamento che esclude l’estensibilità del termine decadenziale, riferendosi il regime decadenziale di cui all’art. 32, co. 3, lett. b), L. 183/2010 al caso di recesso del committente e mancando, in ogni caso, “un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare” (Cass., 8 luglio 2020, n.14131); in tal caso, l’azione di accertamento della subordinazione e del diritto alla riammissione in servizio può essere esercitata nell’ordinario termine prescrizionale.

L’ordinanza in esame si inserisce, dunque, nel solco della più recente giurisprudenza di legittimità che, proprio con riferimento alla richiesta di accertamento dell’illiceità dell’appalto (o della interposizione fittizia) ha escluso l’applicabilità della decadenza di cui all’art. 32, co. 3, lett. d), L. 183/2010, sul presupposto che “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell'istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l'azione dichiarativa richiede un accertamento "ora per allora") del rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), in un'ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti” (in questi termini, di recente, Cass. n. 40652 del 17 dicembre 2021, commentata sul nostro sito: “Decadenza dall’accertamento del rapporto di lavoro con datore diverso da quello formale”).

Nell’ordinanza in commento, la Corte esclude che il dies a quo del termine di decadenza possa coincidere “nell'esatta data di scadenza dell'appalto medesimo con l'impresa appaltatrice, vuoi perché una precisa data di scadenza ben può mancare, vuoi perché di essa il lavoratore - vale a dire il soggetto onerato dell'impugnativa - normalmente non è a conoscenza”.

Ancora di recente, Cass., 28 ottobre 2021, n. 30490 ha ritenuto non applicabile “l'art. 39, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 - che prevede l'applicazione del termine di decadenza di 60 giorni e la sua decorrenza "dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore" - … essendo riferito alla sola somministrazione di lavoro e non anche all'appalto illecito, sicchè in virtù del carattere di stretta interpretazione delle norme sulla decadenza, non è suscettibile di estensione analogica

Né rileverebbe, ai fini del decorso del termine decadenziale, la data “dell'eventuale licenziamento intimato dall'interposto nel rapporto di lavoro: tale licenziamento è giuridicamente inesistente perché proviene da soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro”.

Sulla base delle considerazioni e dei principi sopra passati in rassegna, il Collegio conclude che non possa estendersi “analogicamente ad un "fatto" (la cessazione dell'attività del lavoratore presso il committente) una norma (l'art. 32 cit.) calibrata in relazione ad "atti" scritti e recettizi o ad un diverso e tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato)”.

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