La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sui principi in tema di responsabilità del vettore in caso di ritardo e lo fa affrontando due questioni: la distribuzione degli oneri della prova e l’individuazione dei danni risarcibili (ord. n. 26427 del 13 settembre 2023).
La vicenda in quella sede affrontata prendeva le mosse dalla domanda promossa da un turista nei confronti della compagnia aerea al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa di un ritardo della partenza del volo che gli aveva impedito di imbarcarsi nel volo successivo.
Secondo quanto premesso dalla Corte, ci si trova nell’ambito di applicazione della Convenzione di Varsavia del 1929 che prevede espressamente, all’art. 18, la responsabilità del vettore del danno risultante da un ritardo nel trasporto aereo di viaggiatori, bagagli o merci.
Secondo la Cassazione, tra gli obblighi sanciti a carico del vettore rientra quello di garantire il rispetto degli orari di viaggio, con il logico corollario che, in assenza di qualsivoglia prova volta a vincere la presunzione di responsabilità in capo alla compagnia, il ritardo nella tratta integra un’ipotesi di inadempimento contrattuale con conseguente esposizione della stessa al risarcimento dei danni conseguenti.
Posta tale premessa, la Corte ha reputato la sentenza di appello conforme ai principi dalla stessa più volte ricordati in ordine, appunto, alla responsabilità del vettore in caso di ritardo.
Ecco, allora, che i Giudici Supremi hanno rammentato che si tratta di una responsabilità contrattuale con la conseguente distribuzione degli oneri della prova: il danneggiato, infatti, è onerato solo della prova della fonte del proprio diritto, dovendosi limitarsi ad allegare la circostanza dell’inadempimento, mentre il debitore deve provare il fatto estintivo della pretesa.
Per quanto riguarda, invece, i danni risarcibili quali conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento, l’ordinanza in esame si inserisce nel solco già tracciato dalle recenti pronunce nelle quali la Corte aveva fatto riferimento alla risarcibilità di un danno non patrimoniale non costituito da meri disagi o fastidi, ma da una vera e propria limitazione della disponibilità del proprio tempo, della libertà di movimento e di circolazione (cfr., in questo senso, Cass. 15 febbraio 2023, n. 4723; per un approfondimento si veda, sempre su questo sito, Bagaglio consegnato in ritardo? Spetta il risarcimento del danno alla libertà di circolazione).
La Corte di Cassazione ha escluso il risarcimento per l’utente della piscina caduto mentre camminava a piedi nudi a bordo della piscina stessa (Cass., ordinanza 20 luglio 2023, n. 21675).
Il giudizio aveva preso le mosse dalla domanda diretta ad ottenere il risarcimento dei danni dalla società che gestiva lo stabilimento termale all’interno del quale si trovava la piscina. Il Tribunale aveva rigettato la pretesa risarcitoria, con pronuncia confermata dalla Corte di appello, sulla base del fatto che la parte attrice, percorrendo a piedi nudi il bordo della piscina, prevedibilmente e normalmente scivoloso, oltretutto all’aperto, era stata imprudente.
Prima di esaminare il motivo di ricorso della vittima, la Suprema Corte ha rammentato che, in tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa, gestita o custodita, o dal comportamento della stessa parte lesa o se vi sia stato concorso causale tra i due fattori, costituisce valutazione di merito da compiere sul piano del nesso eziologico, sottendendo un bilanciamento con i doveri di precauzione e cautela. Di conseguenza, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa, oltre ad atteggiarsi diversamente a seconda del grado d’incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione dell’art. 1227, co. 1 c.c., deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.
A questo fine, secondo la Corte, non è necessario che si tratti di condotta abnorme, essendo sufficiente che la stessa sia “colposamente incidente nella misura apprezzata”, cosicché “quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo del danno, fino a rendere possibile, nei termini appena specificati, che detto comportamento superi il nesso eziologico astrattamente individuabile tra fatto ed evento dannoso”.
La ricorrente aveva censurato la sentenza di secondo grado ritenendo che la Corte territoriale avesse errato nell’omettere di considerare che era stata invocata la violazione delle norme di sicurezza per la tenuta degli impianti che, a suo dire, era indice della colpa della convenuta e che confermava la legittimità della camminata senza calzature.
Secondo la Cassazione, la violazione delle norme di sicurezza dettate per regolamentare le autorizzazioni amministrative, sebbene possa essere indice di una possibile colpa soggettivamente imputabile al gestore o al custode, non giustifica comunque la condotta incauta “che sia giudicata tale in modo decisivo e assorbente ai fini ricostruttivi del nesso oggettivo”. E, nel caso di specie, il giudice di merito avrebbe – correttamente - applicato il bilanciamento tra pericolosità della cosa e obblighi di cautela, avendo apprezzato la sussistenza e l’agevole prevedibilità della prima, trattandosi di piscina all’aperto, così come la scelta di non premunirsi degli accorgimenti minimi per evitare di subirne gli effetti, camminando la parte ricorrente a piedi nudi.
La Corte ha poi aggiunto che il fatto che le norme in materia di sicurezza prevedano accorgimenti proprio assumendo l’ipotesi di simili passi, non significa che “potendosi verificare e percepire la marcata e in tesi anche mal gestita scivolosità del terreno, l’utente possa esimersi dalle ovvie cautele per evitarne le conseguenze, non predisponendo le quali può innescare una serie causale autonoma dal punto di vista della responsabilità civile risarcitoria”.
La giurisprudenza di legittimità prosegue la propria opera interpretativa della disciplina del consenso informato del paziente. E lo fa continuando a percorrere il sentiero tracciato con le precedenti pronunce. Con la recente ordinanza del 12 giugno 2023, n. 16633 la Corte ci restituisce un’immagine sinottica proprio di quel sentiero.
Si tratta di una decisione che offre vari spunti di approfondimento.
In primo luogo, viene ricordato che il consenso del paziente, oltre che informato, deve essere consapevole, completo (deve riguardare cioè tutti i rischi prevedibili, compresi quelli statisticamente meno probabili, con esclusione solo di quelli assolutamente eccezionali ed altamente improbabili) e globale (deve coprire non solo l’intervento nel suo complesso, ma anche ogni singola fase dello stesso). Il consenso deve poi essere esplicito e non meramente presunto o tacito, anche se presuntiva, per contro, può essere la prova che deve dare il medico del fatto che un esplicito consenso informato è stato effettivamente prestato.
La Corte ha poi precisato che quel che rileva ai fini della valutazione da compiere sulla completezza delle informazioni da fornire al paziente è che si tratti di evento correlabile alla prestazione sanitaria, la cui possibile verificazione sia comunque nota nella letteratura medica e come tale prevedibile, ancorché quale conseguenza di bassa frequenza statistica.
In particolare, nello specifico caso affrontato nell’ordinanza, la complicanza verificatasi non era stata considerata, neppure dai consulenti, eccezionale o altamente improbabile, essendo piuttosto ad essa assegnata una percentuale di verificazione sì bassa (5%), ma, tuttavia, non a tal punto da potersi qualificare nei termini anzidetti.
Su tali premesse, la Cassazione si è così soffermata su quello che ha qualificato espressamente lo “statuto della responsabilità da mancato consenso informato”, emergente dalla ormai consolidata giurisprudenza della medesima Sezione.
Come ricorda la Corte, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente può assumere diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute.
In primo luogo, i supremi giudici hanno rammentato che, ai fini della verifica della fondatezza della pretesa risarcitoria, devono essere presenti i seguenti elementi:
a) la condotta lesiva, ovvero l’omissione o l’incompletezza delle informazioni rese al paziente, insieme al presunto dissenso all’atto terapeutico nelle ipotesi di cui si dirà;
b) l’evento di danno,che può essere rappresentato dalla violazione del diritto all’autodeterminazione o della lesione del diritto alla salute o da entrambi (la potenziale plurioffensività del medesimo fatto lesivo era stata già riconosciuta da Cass. n. 28985/2019);
c) il danno-conseguenza, ossia le concrete conseguenze pregiudizievoli, derivanti, secondo nesso di causalità giuridica ex art. 1223 c.c., dall’evento di danno.
La violazione degli obblighi informativi dovuti al paziente, dunque, può essere dedotta sia in relazione eziologica rispetto all’evento di danno rappresentato dalla lesione del diritto alla salute, sia in relazione all’evento di danno rappresentato dalla violazione del diritto all’autodeterminazione, sia, contemporaneamente, in relazione ad entrambi.
Nel primo caso (deficit informativo dedotto come lesivo del diritto alla salute) le particolarità non riguardano il secondo ed il terzo elemento dello schema ora ricordato (non sarà risarcibile, in sé, la lesione dell’integrità psico-fisica, ma le conseguenze pregiudizievoli da questa derivanti), quanto, piuttosto, il fatto lesivo. In questo caso, infatti, l’omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell'inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa ‘consenso/dissenso’ che qualifica detta omissione.
In caso, infatti, di presunto consenso, l’inadempimento dell’obbligo informativo, pur esistente, risulterebbe privo di incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento correttamente eseguito, in quanto comunque voluto dal paziente.
Diversamente, in caso di presunto dissenso, detto inadempimento assume efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito - e l’esito infausto non si sarebbe verificato - non essendo stato voluto dal paziente.
L’allegazione (e la verifica giudiziale) dei fatti dimostrativi della opzione ‘a monte’ che il paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante del nesso eziologico (da provarsi ovviamente da parte della parte attrice ex art. 2697 c.c.) tra l’inadempimento e l’evento dannoso.
Nel secondo caso (deficit informativo dedotto come lesivo del diritto alla autodeterminazione), invece, la particolarità riguarda il terzo elemento dello schema concettuale richiamato, ossia i pregiudizi risarcibili.
Quanto al fatto lesivo, invero, se, di regola, occorre allegare e provare, oltre alla violazione dell'obbligo informativo, anche che, se correttamente informato, il paziente avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento, è di converso ipotizzabile che, pur nel caso in cui possa presumersi che questi avrebbe prestato il consenso, egli non sia stato messo nelle condizioni di autonomamente determinarsi ed affrontare consapevolmente l’intervento (Cass. n. 7248 del 2018; Cass. n. 28895 del 2019).
Anche in tale ipotesi, dunque, la violazione dell'obbligo informativo determina comunque la lesione del diritto all'autodeterminazione.
Con ciò, però, si rimane pur sempre sul piano dell'evento lesivo (o danno-evento), il quale non costituisce di per sè, come detto, danno risarcibile.
Ed è qui che, secondo la Cassazione, emerge la peculiarità dell’ipotesi in esame: mentre nel caso di deficit informativo eziologicamente rilevante nella determinazione del danno da lesione del diritto alla salute, danno risarcibile è rappresentato dalle conseguenze di tale lesione, nel caso in cui non è questo il danno che viene in considerazione, è indispensabile allegare e provare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito.
Ne discende che un danno risarcibile da lesione del diritto all'autodeterminazione è ammissibile solo se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, da allegarsi specificamente e da provarsi concretamente, sia pure a mezzo di presunzioni.
Sul punto la Corte di Cassazione si era già espressa in termini chiari. In particolare, con la sentenza n. 5631 del 23 febbraio 2023, aveva sottolineato che le conseguenze dannose derivanti da un atto terapeutico eseguito senza un consenso legittimamente prestato devono essere debitamente allegate dal paziente sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva e non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall’omessa informazione. In quella occasione, la Corte aveva altresì affermato che la domanda di risarcimento del danno alla salute cagionato da errore medico può essere modificata - ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., nella formulazione vigente ratio temporis - in domanda di risarcimento del danno da lesione degli obblighi informativi, posto che, rimanendo immutata la vicenda sostanziale, la diversità dei fatti costitutivi non altera, strutturalmente, il contradditorio, né determina la compromissione delle potenzialità difensive della controparte o l’allungamento dei tempi processuali, essendo possibili, ai sensi della norma innanzi indicata, allegazioni in replica dopo l’esercizio della precisazione assertiva, così come alle istanze di prova in relazione alla domanda come precisata, sono contrapponibili, istanze in controprova.