Sussiste sempre l’interesse ad agire del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro per omissione contributiva anche in assenza di un pregiudizio concreto ed attuale alla propria posizione previdenziale e senza la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’ente previdenziale.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 11730/2024 del 2 maggio 2024.

Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano respinto la domanda di un dipendente volta ad ottenere il riconoscimento delle differenze retributive maturate per aver svolto attività lavorativa full time, ma retribuita part time, nonché il conseguente adeguamento della propria posizione contributiva sotto il profilo previdenziale.

I Giudici di merito, in particolare, avevano ritenuto che il dipendente non avesse alcuna legittimazione ad agire, in quanto non era stato provato un pregiudizio concreto ed attuale alla sua posizione previdenziale.

La Suprema Corte, adita dal lavoratore, ha richiamato il proprio orientamento secondo il quale il lavoratore è titolare del diritto di agire contro il proprio datore di lavoro, al fine di ottenere l’accertamento e la regolarizzazione della propria posizione contributiva, in caso di inadempimento del datore di lavoro.

Il dipendente ha dunque il diritto di chiedere la verifica del corretto e completo versamento dei contributi, correlati all’effettiva prestazione lavorativa, indipendentemente dal raggiungimento dei requisiti per la pensione, in quanto egli è sempre titolare del diritto all’integrità della sua posizione previdenziale, in virtù dell’art. 38 Cost. a norma del quale “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

La Corte ha pertanto affermato che “a fronte di una “irregolarità contributiva”, il lavoratore ha la possibilità, prima del raggiungimento dell’età pensionabile, di “esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art.2116 c.c. oppure un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso”.

In definitiva, a fronte dell’obbligo del datore di lavoro di assolvere al pagamento dei contributi, l'interesse del dipendente al versamento degli stessi si traduce “in un diritto soggettivo alla posizione assicurativa perché – in sostanza - solo questo diritto si trasforma nel diritto alla prestazione previdenziale al verificarsi dell’evento protetto o nel diritto al risarcimento dei danni per il mancato conseguimento di tale prestazione”.

Con tale pronuncia quindi la Suprema Corte ha riformato la decisione dei Giudici di merito che avevano ritenuto la carenza di interesse ad agire del lavoratore che, non avendo ancora raggiunto l’età pensionabile, non potesse dimostrare l’esistenza di un danno contributivo concreto ed attuale.

 La Suprema Corte ha chiarito che il dipendente ha sempre un interesse qualificato ad agire contro il datore di lavoro per l’accertamento dei contributi omessi, al fine di proteggere la propria posizione contributiva di fronte a potenziali danni futuri.

I Giudici di legittimità hanno poi affrontato la questione dell’eventuale integrazione del contraddittorio nei confronti dell’INPS.

In particolare, ha rilevato la Corte che non è necessario integrare il contraddittorio nei confronti dell’Inps, dal momento che “la legittimazione processuale ad agire per l’accertamento dell’obbligo contributivo va ritenuta non alternativa a quella dell’ente previdenziale, ma autonoma rispetto ad essa, in considerazione dell’attualità del pregiudizio che per il mancato incremento dell’anzianità contributiva utile a pensione si determina direttamente nella sfera giuridica del lavoratore”.

La decisione sul punto, secondo la stessa Corte, non si pone in contrasto con la giurisprudenza da ultimo formatasi “(cfr. Cass. nn. 8956, 17320 e 24924 del 2020) la quale ha sostenuto che, quando chieda la condanna del datore al pagamento dei contributi, il lavoratore sia tenuto ad integrare il contraddittorio nei confronti dell’INPS, la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio in cassazione e con effetto di annullamento del processo e rimessione del giudizio in primo grado”.

Trattandosi di un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento, e non di condanna, la Corte ha dunque ritenuto non necessaria la predetta integrazione del contraddittorio.

Il dipendente, per altro verso, e per costante giurisprudenza, non può agire per la condanna al pagamento dei contributi omessi “il cui diritto di credito è attribuito esclusivamente in capo all’ente previdenziale non prevedendo la legge alcuna forma di sostituzione processuale”.

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla ripartizione dell’onere della prova in tema di responsabilità in ambito sanitario, con ordinanza n. 18384/2024, pubblicata il 5 luglio 2024, soffermandosi su alcuni aspetti processuali relativi alle ipotesi di cd. doppia conforme.

Il fatto

Una paziente, sottoposta ad un trapianto di cellule staminali per un Linfoma non Hodgkin presso un’Azienda Ospedaliera, dopo diversi anni dall’intervento conveniva la predetta Azienda e l’Asl di appartenenza, assumendo di aver contratto, durante il ricovero, l'epatite C, e chiedendo il ristoro dei danni asseritamente patiti.

Le decisioni di merito

Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che la patologia non fosse addebitabile all’azienda ospedaliera, e la Corte d’Appello confermava il rigetto della domanda, rilevando peraltro che solo nel corso del giudizio di appello l’appellante avesse introdotto una ipotesi di riconducibilità causale della malattia (mancato controllo del sangue utilizzato per le trasfusioni asseritamente somministrate) diversa da quella dedotta nel corso del giudizio di primo grado (epatite contratta in occasione del trapianto di cellule staminali); la Corte d’Appello, peraltro, ha rilevato che non vi fosse neppure certezza, ed anzi fosse inverosimile, che la paziente fosse stata in quell'occasione sottoposta a trasfusioni, non avendone ella fornito alcuna prova, né attraverso la cartella clinica, né attraverso altra documentazione in ipotesi rilevante.

Il giudizio di legittimità

Con il ricorso per cassazione, la ricorrente dopo aver criticato la valutazione dei giudici di merito per aver ritenuto, conformemente alle conclusioni del CTU, che fosse più probabile che la ricorrente avesse contratto l'epatite in un periodo successivo al ricovero per il trapianto, ha lamentato, tra le altre cose, che, al contrario, la struttura ospedaliera avrebbe dovuto provare che le plurime trasfusioni cui fu sottoposta la paziente erano state eseguite con metodo corretto.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo infondato il motivo “perché teso a ribaltare sulla struttura ospedaliera l'onere probatorio relativo allasussistenza del nesso di causa tra le trasfusioni eventualmente somministrate alla paziente in ospedale in occasione dell'autotrapianto di midollo osseo e la patologia epatica della quale questa è risultata affetta a distanza di anni, affermando che sia la struttura a dover provare di non aver somministrato sangue infetto”.

La Corte ha affermato che la ricorrente non aveva provato il fatto storico di essere statasottoposta a diverse trasfusioni in occasione del trapianto di cellule staminali, circostanza negata dall’azienda ospedaliera; dunque, ha proseguito la Corte, “soltanto ove fosse stato provato il fatto storico della effettuazione delle trasfusioni, e fosse stato accertato, secondo un ragionamento probabilistico, che l'epatite, malattia lungolatente, la cui consapevolezza la paziente aveva acquistato a distanza di diversi anni dal trapianto, era da ritenersi in rapporto di derivazione causale con quelle trasfusioni, la struttura sanitaria sarebbe stata gravata dell'onere di fornire la prova liberatoria, consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione della trasmissione di malattie a mezzo del sangue, ed in primo luogo nella attestazione della provenienza certificata di esso da struttura abilitata alla raccolta”.

Neppure gli argomenti della ricorrente sul principio della vicinanza della prova sono stati ritenuti fondati dalla Corte, data la genericità delle argomentazioni peraltro neppure coltivate in appello in uno specifico motivo (la ricorrente non aveva infatti lamentato alcun inadempimento dell'ospedale rispetto all'obbligo di custodia e cura della completezza della cartella clinica: sul valore della cartella clinica incompleta connessa al principio della vicinanza della prova, si veda Cass. n. 16737 del 17 giugno 2024, qui commentata).

Con l’ordinanza in commento, dunque, la Suprema Corte ha ribadito che il paziente, in definitiva, è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, non solo l’esistenza del rapporto contrattuale ma anche il nesso di causalità materiale tra condotta del medico (o, come in questo caso, della struttura sanitaria) in violazione delle regole di diligenza ed evento dannoso, consistente nella lesione della salute (ovvero nell'aggravamento della situazione patologica o nell'insorgenza di una nuova malattia), non essendo sufficiente la semplice allegazione dell'inadempimento del professionista (o della struttura); questi ultimi, per contro, sono tenuti a provare che l’inadempimento sia derivato da causa a loro non imputabile solo dopo che il creditore-danneggiato abbia fornito la suddetta prova (Cass. 29315/2017; Cass. 3704/2018; Cass. 26700/2018, Cass. 28991/2019).

Questioni processuali

Se, da un lato, l’ordinanza in commento non apporta elementi di particolare novità in relazione ad un orientamento ormai decisamente consolidato sull’onere della prova in materia di responsabilità medica (si vedano, da ultimo, Cass. n. 27151/2023; Cass. n. 13107/2023) essa risulta interessante laddove affronta il tema della inammissibilità del primo motivo di ricorso in ipotesi di c.d. “doppia conforme”.

Come è noto, la riforma del 2012, ha, infatti, da un lato, riscritto, il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., dall’altro, ancor più incisivamente, ha escluso la ricorribilità per cassazione ex art. 360 n. 5 nuovo testo avverso la sentenza di appello che abbia confermato la decisione di primo grado (ipotesi di c.d. “doppia conforme”; a seguito della riforma introdotta dal D. Lgs. 149/22, com’è noto, la stessa regola è sancita ora dall’art. 360, penultimo comma c.p.c.): cosicché anche l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso sarebbe sostanzialmente indifferente ai fini della criticabilità della decisione.

La Corte di Cassazione dopo aver rilevato che, in siffatte ipotesi, il ricorso è inammissibile “se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5947/2023; Cass. 7724/2022)”, ha specificato che ricorre l'ipotesi di «doppia conforme» non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando “le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice”.

E’ dunque sufficiente, sottolinea la Corte, che i Giudici di merito seguano “la stessa linea argomentativa”.

Il Consiglio dei Ministri, ha approvato un decreto legge (D.L. 4 luglio 2024, n. 92, c.d. Decreto carceri) che introduce misure urgenti, tra l’altro, in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia.

Assumono rilievo, per la materia civilistica, le norme racchiuse nel capo III del D.L. e soprattutto gli artt. 12 e 13.

Il primo fa slittare di un anno l’entrata in vigore del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, istituito dalla Riforma Cartabia, al fine di permettere l’adozione degli interventi necessari per l’effettiva operatività del medesimo.

La riforma Cartabia aveva comportato cambiamenti sostanziali nell’ambito della giustizia minorile, determinando l’abrogazione del Tribunale per i minorenni e l’istituzione, a partire dal 17 ottobre 2024, del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie (TPFM). La costituzione del nuovo ufficio era destinata ad avvenire senza nuovi oneri per la finanza pubblica, e quindisenza alcun ampliamento delle dotazioni organiche di magistratura e di personale amministrativo. E’, dunque, comprensibile che esso necessitasse di tempi più lunghi di quelli dapprima previsti.

 Quanto all’art. 13, esso introduce una modifica in materia di diritto societario, intervenendo sull’art. 2506.1 c.c., laddove sopprime al primo comma le parole “a sé stessa”, trasformando la norma in questi termini: “Con la scissione mediante scorporo una società assegna parte del suo patrimonio a una o più società di nuova costituzione e le relative azioni o quote”..

Minore invece, nella prospettiva del civilista, risulta l’impatto dell’art. 11, che ha la finalità di eliminare alcune incertezze interpretative in relazione alle procedure esecutive nei confronti degli Stati esteri.

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