Tribunale di Agrigento, sentenza n. 33/2025 pubbl. il 14/01/2025

Nell’ampio contenzioso attinente ai requisiti di validità del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., contenzioso con esiti, per certi versi, altalenanti, il Tribunale di Agrigento, con una pronuncia largamente motivata con spunti di certo interesse, ha sancito ancora una volta la validità del patto, discostandosi motivatamente anche dalle ultime decisioni della Corte di Cassazione in materia.

La vicenda oggetto della sentenza in esame ha riguardato l’ex dipendente di una banca, con mansioni di private banker, che – dopo le dimissioni ed il passaggio con mansioni analoghe ad una competitor, nella medesima zona interdetta dal patto - ha citato in giudizio l’ex datore di lavoro al fine di sentire dichiarare la nullità del patto di non concorrenza in quanto comportante un'illegittima e gravosa limitazione dell'esplicazione della propria potenzialità lavorativa e violativo della disciplina di cui all'art. 2125 c.c.. La Banca ha a sua volta formulato domanda riconvenzionale per ottenere la condanna dell’ex dipendente al pagamento delle penali pattuite per la violazione dell’obbligo di non concorrenza e per la violazione dell’obbligo di informativa contenuto nel patto.

Il Tribunale ha rigettato le domande del lavoratore ed ha accolto la domanda riconvenzionale della Banca.

In sintesi, il Giudice ha affermato la validità del patto sui seguenti rilievi:

  • è congrua la durata del patto di 12 mesi (“non appare né iniquo né sproporzionato il limite annuale del divieto di svolgimento di attività concorrenziale con riferimento alla clientela già acquisita”), e le mansioni precluse non sono di “estensione tale da compromettere ogni potenzialità reddituale del lavoratore in relazione alla professionalità maturata” (laddove il lavoratore “possa occuparsi della gestione dei portafogli, potendo spendere la propria professionalità per l'anno in parola in qualunque attività bancaria diversa dall'intermediazione finanziaria su tutto il territorio nazionale nonché svolgere attività di intermediazione finanziaria fuori dalla Regione (o comunque nel raggio di 250 km), seppure con clienti diversi da quelli da lui curati” presso il precedente datore di lavoro);
  • è congrua anche l’estensione territoriale del vincolo, essendo l’obbligo di non concorrenza “limitato all’area geografica della Regione Sicilia ovvero a quella della diversa Regione ove risulti ubicata la sede di lavoro in atto al momento della cessazione del rapporto di lavoro” cosicché “al lavoratore residua una amplissima zona sul territorio nazionale ed estero, in cui può sviluppare le proprie competenze e professionalità acquisite”;
  • è congruo il corrispettivo del patto rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore, e la pattuizione di “un corrispettivo, correlato alla durata del rapporto di lavoro, non è affetta di per sé da nullità per aleatorietà ed indeterminatezza dell'oggetto della prestazione”, tanto più nel caso di specie in cui è previsto anche “il corrispettivo minimo, attesa la garanzia, ad opera della banca, dell'erogazione dell'importo per tre anni in caso di recesso anteriore al triennio”.

Il Tribunale di Agrigento si è poi ampiamente soffermato sulla questione, assai dibattuta anche in sede di legittimità, secondo cui l’attribuzione della facoltà di recesso al datore di lavoro comporterebbe la nullità dell’intero patto per indeterminabilità del corrispettivo, in assenza della previsione del pagamento del corrispettivo minimo garantito.

In particolare, in forza di quanto previsto dal patto in controversia, ha rilevato il Tribunale che il recesso potrebbe intervenire solo in costanza di rapporto (con congruo termine di preavviso), e dunque in un momento in cui non esiste alcun obbligo di non concorrenza, appunto, post-contrattuale, in capo al lavoratore, il quale acquisirebbe in ogni caso il corrispettivo già ricevuto e proseguirebbe, comunque, il rapporto di lavoro continuando  comunque a percepire un compenso per un obbligo a suo carico non ancora venuto ad esistenza e che non sorgerà mai.

Proprio perché modellata in questi termini, assume il Tribunale che la facoltà di recesso attribuita alla Banca non è incisa dai principi affermati da alcuni precedenti del Supremo Collegio (il riferimento è a Cass. n. 3/18; Cass ord. n. 23723/2021, ed ancor prima dalle sentenze n. 212/2013 e n. 10535/20), i quali avevano sì dichiarato nulla la clausola che attribuiva la facoltà di recesso dal patto di non concorrenza al datore di lavoro, ma che estendeva tale facoltà, a differenza di quanto previsto nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Agrigento, anche all’epoca successiva alla cessazione del rapporto di lavoro.

Il Tribunale si è altresì confrontato, ponendosi in maniera critica, con la recente Cass. 10679/2024 (sulla quale ci siamo già soffermati nella scheda pubblicata nel nostro sito dal titoloIl patto di non concorrenza è nullo se la determinazione del compenso e del limite territoriale sono rimessi al datore di lavoro) che ha dichiarato la nullità dell’intero patto per contrasto alle norme imperative laddove è prevista la risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro, e ciò a prescindere da ogni valutazione di essenzialità in concreto della singola clausola, sul presupposto che il legislatore avrebbe compiuto a monte la sua valutazione circa l’essenzialità della pattuizione di un corrispettivo determinato.: cosicché la nullità della clausola che autorizza il datore di lavoro a recedere dal patto di non concorrenza in caso di modifica di mansioni “dà luogo ad una situazione contrattuale equivalente a quella di mancata pattuizione di un corrispettivo, ciò che nella fattispecie delineata nell‟art. 2125 c.c. dà luogo alla nullità dell‟intero patto”.

Invero, il Tribunale ha ritenuto, ci sembra correttamente, di non condividere tale conclusione, e di aderire piuttosto ad altri precedenti di legittimità che hanno affermato che, alla luce del disposto dell'art. 1419 c.c., comma 2, la nullità della sola clausola di recesso, qualora dichiarata, non comporti la nullità dell'intero patto di non concorrenza, in ossequio al principio di conservazione del contratto. (“tutta la giurisprudenza di legittimità che si è pronunciata sulla nullità di clausole potestative di recesso anteriormente alle due ordinanze invocate nel reclamo, ha sempre riconosciuto, quanto meno implicitamente, la nullità parziale del patto, accertando in quei giudizi, promossi dal lavoratore, il suo diritto al pagamento del corrispettivo dovuto nonostante la clausola di recesso (cfr. Cass. 9491/2003; Cass. n. 15952/2004; Cass. n. 212/2013; Cass. n. 8715/2017; Cass. n. 3/2018; Cass. n. 10535/2020 e Cass. 23723/2021)”.

Ciò anche in relazione al fatto che “il ricorrente non ha dimostrato, come era suo onere, l’essenzialità della clausola di recesso”; e, anche “da un punto di vista obiettivo, poi, la clausola di recesso unilaterale della Banca non pare inscindibilmente connessa con il patto, costituendone solo un accessorio. Certamente è clausola non essenziale per il lavoratore, trattandosi dell’attribuzione di un diritto potestativo riservato alla Banca”.

Cosicchè, ha concluso il Tribunale, “ritenuta non essenziale tale clausola, pur nell’ipotesi di paventata nullità della stessa, l’invalidità non travolge l’intero patto”.

Si rileva, per concludere, che la decisione in commento si va ad aggiungere a numerosi altre pronunce dei Giudici di merito che, discostandosi da Cass. 10679/24 e, prima ancora Cass. 4032/2022, hanno sancito la validità delle clausole di recesso ovvero, ove ritenutane la nullità, hanno comunque “salvato” il patto dichiarandone la nullità parziale (così, Trib. Messina, 20 dicembre 2024; Trib. Firenze 15 novembre 2024, n. 1178; Trib. Livorno del 2 ottobre 2024; Trib. Ferrara del 9 settembre 2024 e del 1° agosto 2024; Trib. Roma, ordinanza n. cronol. 73142/2024)

Sussiste sempre l’interesse ad agire del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro per omissione contributiva anche in assenza di un pregiudizio concreto ed attuale alla propria posizione previdenziale e senza la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’ente previdenziale.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 11730/2024 del 2 maggio 2024.

Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano respinto la domanda di un dipendente volta ad ottenere il riconoscimento delle differenze retributive maturate per aver svolto attività lavorativa full time, ma retribuita part time, nonché il conseguente adeguamento della propria posizione contributiva sotto il profilo previdenziale.

I Giudici di merito, in particolare, avevano ritenuto che il dipendente non avesse alcuna legittimazione ad agire, in quanto non era stato provato un pregiudizio concreto ed attuale alla sua posizione previdenziale.

La Suprema Corte, adita dal lavoratore, ha richiamato il proprio orientamento secondo il quale il lavoratore è titolare del diritto di agire contro il proprio datore di lavoro, al fine di ottenere l’accertamento e la regolarizzazione della propria posizione contributiva, in caso di inadempimento del datore di lavoro.

Il dipendente ha dunque il diritto di chiedere la verifica del corretto e completo versamento dei contributi, correlati all’effettiva prestazione lavorativa, indipendentemente dal raggiungimento dei requisiti per la pensione, in quanto egli è sempre titolare del diritto all’integrità della sua posizione previdenziale, in virtù dell’art. 38 Cost. a norma del quale “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

La Corte ha pertanto affermato che “a fronte di una “irregolarità contributiva”, il lavoratore ha la possibilità, prima del raggiungimento dell’età pensionabile, di “esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art.2116 c.c. oppure un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso”.

In definitiva, a fronte dell’obbligo del datore di lavoro di assolvere al pagamento dei contributi, l'interesse del dipendente al versamento degli stessi si traduce “in un diritto soggettivo alla posizione assicurativa perché – in sostanza - solo questo diritto si trasforma nel diritto alla prestazione previdenziale al verificarsi dell’evento protetto o nel diritto al risarcimento dei danni per il mancato conseguimento di tale prestazione”.

Con tale pronuncia quindi la Suprema Corte ha riformato la decisione dei Giudici di merito che avevano ritenuto la carenza di interesse ad agire del lavoratore che, non avendo ancora raggiunto l’età pensionabile, non potesse dimostrare l’esistenza di un danno contributivo concreto ed attuale.

 La Suprema Corte ha chiarito che il dipendente ha sempre un interesse qualificato ad agire contro il datore di lavoro per l’accertamento dei contributi omessi, al fine di proteggere la propria posizione contributiva di fronte a potenziali danni futuri.

I Giudici di legittimità hanno poi affrontato la questione dell’eventuale integrazione del contraddittorio nei confronti dell’INPS.

In particolare, ha rilevato la Corte che non è necessario integrare il contraddittorio nei confronti dell’Inps, dal momento che “la legittimazione processuale ad agire per l’accertamento dell’obbligo contributivo va ritenuta non alternativa a quella dell’ente previdenziale, ma autonoma rispetto ad essa, in considerazione dell’attualità del pregiudizio che per il mancato incremento dell’anzianità contributiva utile a pensione si determina direttamente nella sfera giuridica del lavoratore”.

La decisione sul punto, secondo la stessa Corte, non si pone in contrasto con la giurisprudenza da ultimo formatasi “(cfr. Cass. nn. 8956, 17320 e 24924 del 2020) la quale ha sostenuto che, quando chieda la condanna del datore al pagamento dei contributi, il lavoratore sia tenuto ad integrare il contraddittorio nei confronti dell’INPS, la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio in cassazione e con effetto di annullamento del processo e rimessione del giudizio in primo grado”.

Trattandosi di un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento, e non di condanna, la Corte ha dunque ritenuto non necessaria la predetta integrazione del contraddittorio.

Il dipendente, per altro verso, e per costante giurisprudenza, non può agire per la condanna al pagamento dei contributi omessi “il cui diritto di credito è attribuito esclusivamente in capo all’ente previdenziale non prevedendo la legge alcuna forma di sostituzione processuale”.

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla ripartizione dell’onere della prova in tema di responsabilità in ambito sanitario, con ordinanza n. 18384/2024, pubblicata il 5 luglio 2024, soffermandosi su alcuni aspetti processuali relativi alle ipotesi di cd. doppia conforme.

Il fatto

Una paziente, sottoposta ad un trapianto di cellule staminali per un Linfoma non Hodgkin presso un’Azienda Ospedaliera, dopo diversi anni dall’intervento conveniva la predetta Azienda e l’Asl di appartenenza, assumendo di aver contratto, durante il ricovero, l'epatite C, e chiedendo il ristoro dei danni asseritamente patiti.

Le decisioni di merito

Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che la patologia non fosse addebitabile all’azienda ospedaliera, e la Corte d’Appello confermava il rigetto della domanda, rilevando peraltro che solo nel corso del giudizio di appello l’appellante avesse introdotto una ipotesi di riconducibilità causale della malattia (mancato controllo del sangue utilizzato per le trasfusioni asseritamente somministrate) diversa da quella dedotta nel corso del giudizio di primo grado (epatite contratta in occasione del trapianto di cellule staminali); la Corte d’Appello, peraltro, ha rilevato che non vi fosse neppure certezza, ed anzi fosse inverosimile, che la paziente fosse stata in quell'occasione sottoposta a trasfusioni, non avendone ella fornito alcuna prova, né attraverso la cartella clinica, né attraverso altra documentazione in ipotesi rilevante.

Il giudizio di legittimità

Con il ricorso per cassazione, la ricorrente dopo aver criticato la valutazione dei giudici di merito per aver ritenuto, conformemente alle conclusioni del CTU, che fosse più probabile che la ricorrente avesse contratto l'epatite in un periodo successivo al ricovero per il trapianto, ha lamentato, tra le altre cose, che, al contrario, la struttura ospedaliera avrebbe dovuto provare che le plurime trasfusioni cui fu sottoposta la paziente erano state eseguite con metodo corretto.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo infondato il motivo “perché teso a ribaltare sulla struttura ospedaliera l'onere probatorio relativo allasussistenza del nesso di causa tra le trasfusioni eventualmente somministrate alla paziente in ospedale in occasione dell'autotrapianto di midollo osseo e la patologia epatica della quale questa è risultata affetta a distanza di anni, affermando che sia la struttura a dover provare di non aver somministrato sangue infetto”.

La Corte ha affermato che la ricorrente non aveva provato il fatto storico di essere statasottoposta a diverse trasfusioni in occasione del trapianto di cellule staminali, circostanza negata dall’azienda ospedaliera; dunque, ha proseguito la Corte, “soltanto ove fosse stato provato il fatto storico della effettuazione delle trasfusioni, e fosse stato accertato, secondo un ragionamento probabilistico, che l'epatite, malattia lungolatente, la cui consapevolezza la paziente aveva acquistato a distanza di diversi anni dal trapianto, era da ritenersi in rapporto di derivazione causale con quelle trasfusioni, la struttura sanitaria sarebbe stata gravata dell'onere di fornire la prova liberatoria, consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione della trasmissione di malattie a mezzo del sangue, ed in primo luogo nella attestazione della provenienza certificata di esso da struttura abilitata alla raccolta”.

Neppure gli argomenti della ricorrente sul principio della vicinanza della prova sono stati ritenuti fondati dalla Corte, data la genericità delle argomentazioni peraltro neppure coltivate in appello in uno specifico motivo (la ricorrente non aveva infatti lamentato alcun inadempimento dell'ospedale rispetto all'obbligo di custodia e cura della completezza della cartella clinica: sul valore della cartella clinica incompleta connessa al principio della vicinanza della prova, si veda Cass. n. 16737 del 17 giugno 2024, qui commentata).

Con l’ordinanza in commento, dunque, la Suprema Corte ha ribadito che il paziente, in definitiva, è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, non solo l’esistenza del rapporto contrattuale ma anche il nesso di causalità materiale tra condotta del medico (o, come in questo caso, della struttura sanitaria) in violazione delle regole di diligenza ed evento dannoso, consistente nella lesione della salute (ovvero nell'aggravamento della situazione patologica o nell'insorgenza di una nuova malattia), non essendo sufficiente la semplice allegazione dell'inadempimento del professionista (o della struttura); questi ultimi, per contro, sono tenuti a provare che l’inadempimento sia derivato da causa a loro non imputabile solo dopo che il creditore-danneggiato abbia fornito la suddetta prova (Cass. 29315/2017; Cass. 3704/2018; Cass. 26700/2018, Cass. 28991/2019).

Questioni processuali

Se, da un lato, l’ordinanza in commento non apporta elementi di particolare novità in relazione ad un orientamento ormai decisamente consolidato sull’onere della prova in materia di responsabilità medica (si vedano, da ultimo, Cass. n. 27151/2023; Cass. n. 13107/2023) essa risulta interessante laddove affronta il tema della inammissibilità del primo motivo di ricorso in ipotesi di c.d. “doppia conforme”.

Come è noto, la riforma del 2012, ha, infatti, da un lato, riscritto, il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., dall’altro, ancor più incisivamente, ha escluso la ricorribilità per cassazione ex art. 360 n. 5 nuovo testo avverso la sentenza di appello che abbia confermato la decisione di primo grado (ipotesi di c.d. “doppia conforme”; a seguito della riforma introdotta dal D. Lgs. 149/22, com’è noto, la stessa regola è sancita ora dall’art. 360, penultimo comma c.p.c.): cosicché anche l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso sarebbe sostanzialmente indifferente ai fini della criticabilità della decisione.

La Corte di Cassazione dopo aver rilevato che, in siffatte ipotesi, il ricorso è inammissibile “se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5947/2023; Cass. 7724/2022)”, ha specificato che ricorre l'ipotesi di «doppia conforme» non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando “le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice”.

E’ dunque sufficiente, sottolinea la Corte, che i Giudici di merito seguano “la stessa linea argomentativa”.

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